Thom Thom Club

Mentre guidavo verso la piazza coi ciottoli mi sono chiesto quanti concerti avessi già visto lì, a ballare sui ciottoli rischiando le caviglie. Da un calcolo a memoria, probabilmente per difetto, dieci. E ho ripensato a quella cosa bellissima che facemmo per i National e alle altre sere in cui sono andato. Ho pensato che poteva essere un’ottima occasione per chiudere con la faccenda di andare a vedere concerti che a dicembre farò mezzo secolo e il primo concerto che ho visto ne avevo sedici, quindi fanno trentaquattro anni di giù dal palco e non parlo di teatri, comodi e seduti con la temperatura giusta tutto l’anno, parlo di palazzetti grigi, arene più o meno vaste, locali di varie forme e dimensioni.
Questo pensiero me lo sono portato dentro mentre trovavo un posto dove piazzarmi per vedere Thom Yorke, uno dei personaggi più importanti degli ultimi vent’anni di rock. Sarebbe perfetto come pietra tombale sulla carriera concertistica. Pensieri non esattamente lietissimi ma comunque concreti, in un giovedì lavorativo infrasettimanale, dopo nove ore in ufficio e una e mezza in macchina e un McDonald buttato giù al volo per non svenire, così tanto che nei primi venti minuti di concerto ho notato con una punta di stizza due cose dell’andare ai concerti, oggi.
(qui è dove metto le mani dietro la schiena, stile ‘umarell’ e guardo la gente)
La prima riguarda i cellulari. Entra Thom accompagnato dallo storico produttore Nigel Godrich e da un tizio che si occuperà dei visuals e attaccano con un brano lento per pianoforte ed effetti che non riconosco, e oplà, si alza un’onda di schermi bianchi a riprendere. Lo scrivo ben sapendo che anche io fatto un mezzo video durante la serata, una storia da postare su IG, tanto per dire al mondo che non ascolta o dimentica che ero al concerto. Colpevole, però secondo me non ha senso fare in continuazione video di solito brutti solo per dire ‘io c’ero’, video che credo non verrano rivisti spesso se non mai, che riempiranno la memoria del telefono e non resteranno. La ragazza che è piombata a metà set davanti al tizio di fianco a me aveva uno zaino che pareva dovesse andare in montagna per tre mesi anziché a un concerto ed è rimasta per minuti con le braccia tese a fare un video orrendo perché essendo bassa, che ovviamente non è una colpa, arrivava con le braccia tese manco all’altezza dei miei occhi che erano attratti da questo schermo a mezzo metro da me e dove la tizia riprendeva teste, braccia, altri cellulare in modalità video, piccole frazioni di Thom Yorke che ballava e la parte superiore del grande schermo. Per me non c’è problema, foto, video, ok, però forse si esagera e hanno ragione gli artisti che s’arrabbiano sempre più, perché si dovrebbe essere lì per la musica – sorprattutto ieri sera, un concerto non certo facile, musicalmente parlando anche se Thom ha la giusta accortezza di limare certe asperità o pesantezze che su disco si sentono – inoltre perché per vedere un bel video di un live esiste You Tube ed è gratis e la qualità è migliore del cellulare.
E poi il chiacchiericcio. Se devi parlare con la vicina (avevo due ragazze che per la prima mezz’ora hanno parlato ed erano alle mie spalle, discretamente brave perché modulavano la chiacchiera in base al volume del pezzo, parlavano di lavori da accettare e poi di un tipo che non si capisce se ci fa o ci è, in sintesi) e io sono buonista vero e non dico mai niente, però non capisco proprio. Spendi cinquanta euro per vedere un concerto in mezzo a zaffate di sudore stantio, zanzare che sembrano calabroni, birra scadente, gente che ti spinge e stai a parlare durante lo spettacolo, forse sarebbe meglio spendere cinquanta euro in una buona bottiglia e scolarsela a un tavolo di una bella piazza. O no?

(qui è dove tolgo le mani da dietro la schiena)
Poi però ho sentito un odore di marijuana fortissimo e buonissimo, mi sono ricordato dei tanti concerti dove ero io quello che fumava e ho pensato che un paio di tiri sarebbero stati perfetti per entrare ancora meglio nel mood sonoro del Tommaso nostro. Manco a farlo apposta dall’altra parte mi è arrivata una zaffata di pakistano e allora anziché chiedere un tiro, cosa che non si fa con saggezza da anni, ho chiuso gli occhi e mi sono ascoltato qualche secondo così, al buio, senza vedere i visual a volte pop e colorati, altre  volte a formare intrecci di forme o zampilli di grigio come sogni (incubi?) non a fuoco, ballicchiando il loop dei bassi sul posto, scuotendo un po’ la testa, mettendo le braccia non dietro alla schiena ma in aria, in alto e lì ho capito che non sarebbe stato l’ultimo concerto perché alla fine mi piace ancora andarci, alla fine restano momenti che ricorderò, anche la ragazza con lo zaino da scalatrice, i chiacchieroni, le zanzarone che per fortuna avevo una camicia e pantaloni lunghi, Thom Yorke che è un fenomeno – ha fatto due ore dove ha suonato strumenti con pulsanti e cavi matti che facevano pin pin, wuoom wuoom, plon plon, taktictakk, la chitarra per riempire vuoti, il pianoforte per cantare in solo ‘Down Chorus’ gettando nello sconforto dell’amarezza il pubblico che all’inizio del pezzo (ascoltalo) fa ‘sshhhh’ per zittire i chiacchieroni e alla fine si lancia in un applauso caloroso,  ha ballato come un folletto come ha urlato un tipo che ne cercava di imitare le movenze vicino a me – e prima di entrare la bellezza delle merlettature ferraresi al tramonto e una volta uscito la stanchezza dolce e meritata fra le vie del centro, andando verso casa con i pensieri sciolti nella calura, lavati via con una secchiata di musica.
Alla prossima, piazza coi ciottoli.

una sinfonia che è una vita (spiegata bene)

(premessa)

Quando iniziai ad andare nel posto palco ad ascoltare la musica classica, decisi di scrivere dei concerti a cui assistevo. Non per provare a fare proseliti, il mio bacino di utenza è assai limitato, come la mia conoscenza della materia che dopo una cinquantina di concerti rimane a un livello ‘principiante’, oltre al fatto che la musica classica non brilla per propensione ai social network.
Lo facevo per divertimento, per scrivere, per provare a descrivere, per ricordarmi. A volte ho citato il saggio, un libretto che viene distribuito a inizio serata dove viene raccontata la genesi e il contesto storico delle opere in programma e anche spiegata la musica, ma a volte è una lettura difficile, troppo colta per me.
Ho raccontato nei miei post di come la sentivo io la musica, di quello che vedevo sul palco, azzardando metafore, provando a descrivere sensazioni, perfino con un paio di racconti ispirati dai concerti, o dal pubblico in platea.

Poi ho smesso perché mi sembrava di avere finito le parole, forse l’ispirazione. Ne ho scritti ventisei, sempre sentendomi inadeguato, vedi riferimento alla mia ignoranza. Questi post sono sempre stati letti da pochissime persone. Regolare. Non è che la musica classica sia questo argomento così popolare, anche se tutti gli amici che ho portato anche solo una volta, hanno apprezzato molto.
Ieri sera però ho assistito a un concerto straordinario. Il programma prevedeva due sinfonie, entrambe di compositori russi, miei preferiti, dopo i grandi classici, per capacità di sorprendere, per la continua mescolanza di registri drama & romance.
Il concerto è stato favoloso, pure maestoso. Sono uscito e ho pensato di riprendere l’abitudine del diario. Poi, ho cambiato idea.

Non scriverò dell’arroganza nel look e nel modo di suonare di uno dei sei contrabbassisti, un ragazzo alto e magro, con lungo codino e barba altrettanto lunga, uno che secondo me, nei ritagli di tempo, suona il basso in una band heavy metal.  Nemmeno della coppia di viole, signora con capelli bianchi e ragazzotto elegante ma austero, sembravano madre e figlio, lei timida e lui tronfio mentre accoglieva gli applausi dopo la prima sinfonia, per poi sciogliersi in un sorriso grato al termine dell’ennesima rentrée del direttore, dell’ennesima esplosione di applausi da parte del pubblico. Neppure delle décolleté color crema indossate da una violinista, unica concessione al nero d’ordinanza delle femmine, oppure degli splendidi papillon bianchi e arricciati dei maschi, fra cui spiccava un violinista con capello brizzolato da divo anni ottanta che era sempre una frazione di secondo in ritardo nel prepararsi con lo strumento per l’ingresso, come se per lui fosse troppo facile, ma poi il suo ciuffo ondeggiava al ritmo sinuoso della musica.
Nemmeno della formazione dei sei percussionisti, fra cui il più anziano, coi capelli scarmigliati e uno sguardo vagamente alcoolico, suonava il triangolo nell’ultima sinfonia, attendendo magari di essere sul pullman e di raccontare ai colleghi, da vero decano della formazione, il suo ricordo di un concerto di tanti anni fa…

Riporterò, invece, ampie parti del saggio dedicato alla Sinfonia n.4 di Čajkovskij, dove il compositore prova a descrivere la sua musica. Ne esce una riflessione sulla vita e una lettura che, unita all’ascolto, ho trovato meravigliosa, d’ispirazione e riflessione, e ho pensato di condividerla riaprendo, per una volta, il ‘posto palco’ quassù.

(svolgimento)

I compositori potevano permettersi di dedicarsi alla musica spesso e soltanto grazie a nobili o mecenati. La benefattrice di Čajkovskij era una ricca vedova russa con cui l’autore ‘…aveva avviato, a partire da una lettera datata 30 dicembre 1876, un rapporto di intima amicizia che sarebbe durato, senza mai incontrarsi di persona, fino al 1890′ (e già questa cosa, è abbastanza magica). La baronessa dopo avere assistito alla prima esecuzione della sinfonia, scrisse una lettera all’autore chiedendogli spiegazioni sul contenuto, sul senso della composizione.
L’autore, inizia la sua risposta così:
“Come è mai possibile esprimere quelle sensazioni che proviamo allorché scriviamo un’opera strumentale che non ha in sé alcun soggetto definito? E’ un processo puramente lirico, una confessione musicale dell’anima, ove pullulano tante cose e che secondo la propria essenza si riversa in suoni, appunto come il poeta lirico si effonde in versi”.
In breve, la musica non si spiega. Eppure:
“La nostra Sinfonia ha un programma abbastanza definito perché si possa esprimere a parole; a voi sola desidero – e posso – dire il significato dell’opera nell’insieme e nelle singole parti. Voi capirete che tenterò di farlo soltanto per sommi capi”.

Seguono divise per movimenti, le istruzioni per l’uso della sinfonia, le risposte del compositore che diventano riflessioni molto più ampie e intense quanto la musica stessa.

“L’introduzione è il germe dell’intera Sinfonia, l’idea principale dalla quale dipende tutto il resto. Il tema di apertura è il Fatum, la forza inesorabile che impedisce alle nostre speranze di felicità di avverarsi; che sta in agguato, gelosamente, per impedire che il nostro benessere e la nostra pace possano diventare piene e senza nubi: una forza che, come la spada di Damocle, pende perpetuamente sul nostro capo e di continuo ci avvelena l’anima. Questa forza è ineluttabile e invincibile. Con il Moderato con anima la disperazione e la tristezza diventano più forti, più cocenti. Non sarebbe più saggio distogliersi dalla realtà e immergersi nel sogno? Oh, gioia! Alfine appare un dolce e tenero sogno. Una fulgida, soave immagine umana aleggia dinanzi a me, mi chiama. Come bello e remoto, ora, appare il primo ineluttabile tema dell’Allegro! A poco a poco il sogno avvolge l’anima. Obliata è la tristezza, la disperazione. Ecco la felicità! Ma no, era solo un sogno e il Fato ci ridesta. Così la vita è un costante alternarsi di aspra realtà, di sogni evanescenti, di fuggevoli visioni di felicità. Non vi è alcun porto. Si naviga su quel mare finché esso vi sommerge e vi fa affondare nella sua profondità. Questo, approssimativamente, è il programma del primo tempo”.

“Il secondo tempo esprime un’altra fase di sofferenza. E’ la malinconia che ci invade a sera, allorché siamo soli, stanchi del lavoro, e cerchiamo di leggere, ma il libro ci sfugge di mano. I ricordi si affollano in noi. Come sono dolci quelle memorie di giovinezza, ma come è triste che tante cose siano state e siano trascorse per sempre! Si rimpiange il passato, eppure non si vorrebbe ricominciare daccapo la vita, ci si sente troppo stanchi. E’ più piacevole riposare e rivolgere lo sguardo all’indietro, ricordando tante cose. C’erano momenti felici, quando il giovane sangue scorreva caldo e la vita esaudiva ogni nostro desiderio. C’erano anche momenti difficili, perdite irreparabili, ma sono ormai lontani. E’ triste e pur dolce tuffarsi così nel passato”.

“Il terzo tempo non esprime sensazioni definite, è piuttosto una successione di capricciosi arabeschi, quelle immagini inafferrabili che passano nella fantasia quando si è bevuto del vino e si avvertono i primi segni dell’ebbrezza. L’anima non è ne gaia ne triste. Non si pensa a nulla: l’immaginazione ha libero corso e comincia, non si sa perché, a tracciare strani disegni. D’improvviso si presenta allo spirito la visione di contadini un po’ brilli, una breve canzone di strada risuona. Lontano, passa un corteo militare. Le immagini sono assolutamente sconnesse, come quelle che fluttuano nella mente allorché ci si addormenta. Non hanno nulla a che fare con la realtà, sono strane, selvagge, confuse”.

“Il quarto tempo: se veramente non trovi motivo di gioia in te stesso, guardi gli altri. Va’ in mezzo al popolo, vedi come esso sa abbandonarsi alla gioia. Una festa rustica è descritta. Non appena però hai dimenticato te stesso in questa visione della gioia altrui, ecco che il Fato inesorabile riappare a ricordarti di te stesso. Ma gli altri sono indifferenti verso di te; non volgono neppure il capo, non ti guardano neppure, non si accorgono che tu sei solo e triste. Ah, come si divertono! E come sono fortunati di essere governati da sentimenti così semplici e immediati! Dà la colpa a te stesso e non dire che tutto il mondo è triste; esistono gioie semplici e pur forti. Allegrati nella felicità altrui e la vita sarà sopportabile. Questo, cara amica, è tutto ciò che posso dirvi della Sinfonia.
Certo, quello che ho detto non è ne chiaro ne compiuto. Ciò deriva dalla intrinseca natura della musica strumentale, che non si presta all’analisi particolareggiata. Dove le parole cessano, là comincia la musica”.

Čajkovskij ha finito. Sipario.

(il concerto di ieri sera: link)
(la lettera e una guida completa all’ascolto: link)

(tutti i #postopalco, sono qua

venticinque, live

 

Qualche giorno fa guidando verso casa dopo un concerto infrasettimanale pensavo la solita cosa che penso da qualche mese. Che sono troppo… vecchio, via, per andare ai concerti infrasettimanali, con rientri alle tre ed occhi crepati il mattino seguente quando lo schermo del pc brilla di una luce feroce come il sonno perduto.
Inoltre, sempre qualche giorno fa, ho avuto una conversazione con ragazzi ventenni che si stupivano che io avessi visto certi concerti.
Così, mentre guidavo per tenermi sveglio, ho pensato a una cosa.

Hai presente i concerti? Bene. Secondo me la fruizione dei concerti è cambiata nel tempo. Oggi, l’importante è partecipare, la musica è passata in secondo piano. Si condivide sui social,  le persone dedicano molto tempo a fare video e selfie, parlano un sacco, a volte mi sembra che spesso importi più la presenza, l’evento in sé che la musica.
Essendo però di una generazione dove si andava ai concerti quasi solo per la musica, mi sono chiesto quali sono stati i momenti migliori di tutti i concerti visti, non i più bei concerti, così mentre guidavo, qualche giorno fa per tenermi sveglio, ho iniziato a stilare una lista dei ricordi memorabili, quelli che se ci penso riesco a vedermi esattamente ancora lì, in piedi o seduto, riesco a riprovare un’emozione precisa e in qualche modo speciale, sulla pelle, negli occhi, nelle orecchie.
Ecco quindi una lista di venti… cinque, che die… venti eran troppo pochi, momenti sotto a un palco che non dimenticherò mai.
Pronti?

1 – I Pearl Jam suonano ‘Black’. Candele sul palco, lacrime dure in mezzo alla platea sardinata del Forum.
2 – Bruce a San Siro. Inizia a piovere a secchiate, ci guardiamo in faccia e scattiamo avanti mentre c’è un fuggi fuggi generale, avanziamo di trenta metri in pochi secondi. Bagnati fradici, aspettiamo. Lui esce dopo qualche minuto con uno Stetson enorme e canta ‘Raining on a sunny day’. Epico.
3 – Gli Arcade Fire fanno ’No cars go’ nella piazza coi ciottoli. Sing-a-long maestoso e l’amico che non li conosceva che mi dice ‘Grazie per avermi portato’.
4 – Ancora Ferrara. Gli Arctic Monkeys al loro primo tour, attaccano ‘I bet you look good on the dancefloor’. Volano birre addosso in un pogo pacato ma bagnato.
5 – Sale sul palco Max Roach. Un settantenne in smoking e la sua batteria. Tutto qua, null’altro. Standing ovation per un’ora di incanto di percussioni.
6 – Brad Mehldau suona ‘Exit film’ in piano solo a Perugia. Capisco che ho fatto bene ad avvicinarmi al jazz.
7 – Tutto, ma proprio tutto, il set dei Pavement a Goteborg. Avere sempre avuto ragione sull’indie rock, avere la pelle d’oca perenne per quaranta minuti è sfiancante.
8 – I Portishead al Primavera Sound. Eravamo lontani dal palco ma era come se la voce di Beth avesse costruito una vela sopra di noi e sotto eravamo tutti incantati, innamorati, increduli di tanta bellezza ipnotica.
10 – I Beastie Boys scendono dal palco e attraversano la platea del Forum a cinque metri da noi. Lo svenire dall’adorazione.
11 – La prima mezz’ora del concerto di Wayne Shorter al Valli di Reggio Emilia, una lunghissima suite al centro della musica che ci lasciò in uno stato di ipnosi senza fiato.
12 – Partiamo per vedere Amy Winehouse, a Parma troviamo incidente in autostrada, usciamo, tutto bloccato, rientriamo, aspettiamo. Per recuperare il tempo perduto andiamo a sassata sulla tangenziale meneghina, un sorpasso di troppo e canniamo l’uscita giusta. Torniamo indietro, usciamo, troviamo lavori in corso in città, daichecelafacciamo, parcheggiamo lontanissimo, un sms ci avvisa che sta inziando i bis, corriamo, daicheciguardiamoalmenoibis, arriviamo davanti al locale e si aprono le porte per far uscire il publlico. Le nostre facce… forse sapevamo che purtroppo sarebbe stata l’ultima occasione, beviamo una birra, almeno.
(file under: le sfighe – e i countryboyz –  ai concerti).
13 – I Roots al Vox suonano davanti a quaranta persone. Vedere il futuro della musica nera e non saperlo o saperlo ma non realizzarlo.
14 – Ligabue, visto a ridosso di una transenna al palazzetto a Reggio Emilia, primi anni novanta, quando calzava i Frey ed era ben lontano dall’andare da Fazio. ‘Non è tempo per noi’ era ancora un inno intriso di ‘reggioemilianité’.
15 – Santana a Bologna chiude il set con una versione di ‘Oye como va’ che dura quindici minuti. In una fumana di hashish incredibile, le visioni di un aldilà fatto di magia e percussioni.
16 – Svenire (questa volta, one and only, letteralmente, perdendo conoscenza per cinque sei secondi) fuori dall’Estragon prima del concerto di Nas, visto poi da solo su un sgabello in fondo al locale, incollato al bar e bevendo tre coca-cola in fila per riprendermi.
17 – Sotto una cappa di umidità e nebbia, a maggio a Barcellona, ascolto in solitaria gli ‘Okkervil River’, a metà set accade uno di quei momenti perfetti in cui stai come un antico dio, ti senti pieno di potenza e non vorresti essere da nessun’altra parte. Mi volto e vedo il mare. Era il 2008.
18 – Inizia il concerto degli Iron Maiden. Due note ed energumeni capelluti e con t-shirt nere e puzzolenti scattano in massa, spingono lo spingibile. Volo venti metri avanti senza toccare i piedi per terra. Il mio amico che tre secondi prima mi era di fianco si ritrova a metri da me sulla destra. Ci salutiamo, ci vedremo a fine concerto.
19 – Al Way Out West Festival sono stanchissimo dopo una giornata di sole e musica, ciondolo la testa ipnotizzato dalla palla che gira sopra al palco mentre LCD Soundsystem fanno ballare tutti. Il mio spazio improvvisamente viene invaso da un gruppo di svedesi sbronzi marci, è un attimo e dopo è tutto un cantare a squarciagola ‘Were are my friends tonight’. Poi, mi dicono ‘We need a drink’ rispondo grazie e continuo a ballare da solo.
20 – FGTH: il primo concerto non si scorda mai (l’ho raccontato QUA)
21 – Bon Iver a Londra attacca ‘Skinny Love‘. Per poco non svengo dall’emozione.
22 – Jamiroquai al Vox, una calca e una bolgia assurda ma ballavamo tutti come ossessi.
23 – Gang Starr in un locale di Modena. Una specie di concerto segreto. Stare a cinque metri da Dj Premier in adorazione pura.
24 – I Grizzly Bear a Milano, probabilmente la band con più classe mai vista su un palco.
25 – Jeff Tweedy dei Wilco al termine del set a teatro a Ferrara, dice ‘Alzatevi’ manco fosse il messia. Un po’ lo è, Jeff Tweedy, un messia, scattiamo e voilà siamo a tre metri da uno degli uomini più fighi del mondo.

Poi capita ancora, fortunatamente, di andare a qualche concerto infrasettimanale. E stasera, che è lunedì, torno a vedere i Wilco.
E domani, se rifaccio la lista, magari la cambio.
Fatela anche voi, è divertente.

 

Update:
ovviamente me ne sono dimenticato uno, ma com’è stato possibile?:
The National a Ferrara e prodi appassionati decidono di fare una cosa bellissima per festeggiare la band, il concerto, noi stessi che ci gasiamo on-line da settimane. Una busta con disegni e testi per accompagnare quattro canzoni. Uno dei testi, onoratissimo, lo scrivo io, arrivo al castello e mi vien data la busta. Leggere il mio ‘nickname’ e poi sentire quella canzone è stata la cosa più da fan che abbia mai fatto. (grazie, Fabio)

bomber Kamasi

IMG_6568(Kamasi Washington,
Locomotiv club, 09/11/2015)

Bomber Kamasi si presenta con un camicione /giacca che sembra di lana, sfidando la morsa di calore che lo stringe fra le luci del palco e l’abbraccio di attesa dei fan accalcati sotto il palco. In testa ha un berretto a righe colorate giamaican style, che gli copre i capelloni afro che sfoggia con orgoglio e faccia seria sulla copertina del suo disco.
‘The Epic’, un triplo album jazz che ha avvicinato all’ascolto di questo ‘genere’ gente che solitamente non bazzica spazzole, tempi dispari e strumenti a fiato. Colpa di Pitchfork ma anche della sorprendente bellezza e freschezza di un disco sinceramente clamoroso, che parte dal cosmic jazz, si ferma a fare un giusto tributo a Coltrane e altri mostri sacri, viene innervato di funk, influenze black, percussioni, una scrittura torrenziale ma sicura e calorosa, arrivando ad essere indicato come uno dei probabili dischi dell’anno.
Bomber Kamasi ha lo sguardo tranquillo, rilassato, sicuro, come se da Inglewood a Bologna, fossero due passi, mentre soffia nel suo sax accompagnando la prima, incantevole, melodia della serata. Dietro di lui, due batteristi uno meglio dell’altro, un treno di percussioni che non si ferma quasi mai, che suona in combo ma anche in pastosi e pestosi assoli che arricchiscono il ritmo di spessore e di energia, un bassista che in due momenti regalerà suoni spettacolari dal suo strumento, un trombone, suo padre che ogni tanto arriva sul palco con il suo flauto, una cantante che agitale braccia come flessuosi rami al vento della musica e un tastierista. Prima la band ci travolge e poi ci accarezza. ‘Purtroppo’, il tastierista, ‘professor boogie’, come lo chiama bomber Kamasi, si prende molto spazio musicale e il concerto diventa una festona funk, le grasse botte delle tastiere alzano la caciara, fanno agitare le teste, spostano il jazz a lato, in una festa ritmica con digressioni quasi prog, sempre però senza perdere lo spirito impro che avvolge i pochi ma lunghissimi, brani del set.
Bomber Kamasi racconta qualche storiella fra un brano e l’altro, presenta la band, chiude il set emozionando fino in fondo. E’ tardissimo, perché la mania di iniziare i concerti a ore matte, non accenna a diminuire. Per me doveva essere più jazz, ma va bene così. Un concerto bellissimo, sicuramente non così innovativo, suonato da dio (il doppio assolo di batteria è stata una cosa letteralmente devastante) con gusto e classe da musicisti abilissimi.
La cosa più bella però la regala il finale. Dalla mia altezza, avevo già notato il signore piuttosto anzianotto, più vicino ai settanta che ai sessanta, con occhiali con un cordino marrone davanti a uno sguardo serio e attento, un gilet di lana che non so come abbia fatto a non sciogliersi, che alla fine del bis, aveva gli occhi fissi sul palco e un sorriso che gli stava montando sopra alla probabile dentiera che però non è esploso, forse per mantenere un certo aplomb, in mezzo ad altri signori di mezza età e ragazzotti incantati come la signorina alle mie spalle, che pareva essere da sola, che mi ha guardato alla fine con un sorriso enorme, che le scopriva le gengive che pure loro sembravano tremolare dalla gioia di avere visto un grande show, e gli occhi che sembravano dirmi ‘Fantastico, vero?’. Ho provato a risponderle sì, con un cenno del capo, mentre bomber Kamasi apparentemente freschissimo, salutava per poi sparire dietro la tenda del palco. Non fosse stato tardissimo li avrei invitati a bere qualcosa, il signore e la ragazzina, perché questo post l’avrebbero dovuto scrivere loro.

(se clicchi forte qua, scopri la musica di bomber Kamasi, se non lo conoscete) 

Palco n.25 OR.1/D (the affair)

(come sanno i lettori più affezionati del blog, negli anni ho tenuto una specie di diario, numerato come fosse una serie Tv, delle serate trascorse a teatro ad ascoltare la classica. li ho scritti per ripensare alla musica, per provare a incuriosire qualcuno. difficile, la ‘musica classica’ non affascina molto.
comunque, trovate tutti gli episodi, a questo link QUA.
l’anno scorso ho perso l’ispirazione, pubblicando giusto due post che nelle intenzioni erano raccontini con sottofondo musicale. poi avevo una bozza nel cassetto, la ritiro fuori oggi, visto che ‘The Affair‘, la serie originale, a cui palesemente mi ispirai, è ripartita, e visto pure che mercoledì riparte anche la stagione concertistica.
sarà la S05 per me, nel posto palco. chissà che non torni l’ispirazione, ne dubito, ma chissà. intanto, appunto, un post dal posto palco, una specie di ‘prova d’orchestra’, via)

 

Lui

Il concerto di sabato sera. Un vero peccato che i figli non ci siano. Loro, il cuscinetto in queste serate.
Il palco è stretto, porpora, il solito, da tanti anni. Più scomodo adesso che sono con lei e vorrei essere con un’altra. L’altra. L’unica che in questi anni mi abbia fatto pensare l’impensabile.
Cioè, guardala. La massa di capelli rossi. I riccioli che hanno ancora la forza ribalda di quando ci conoscemmo. Le braccia tornite da ore di palestra. Una bellezza di moglie. Mia moglie che non amo più.
L’ho detto. L’altra sera, mentre le natiche dell’altra si appoggiavano alle mie cosce. Non so se avrei avuto il coraggio di dire quella frase, guardandola. E’ uscita così naturale, spontanea, come libera da un tappo con troppa pressione sotto. Non era una di quelle frasi dette ad altre, tanto per tranquillizzarle, per guadagnare altro sesso, rubare altri baci. L’ho detta a lei perché mi fido di lei, ma senza guardarla in viso. Sarebbe stato troppo. Lei, ha ascoltato, si è girata e mi ha dato un bacio. Tutto qua. La frase più difficile da dire, racchiusa in un bacio. Una promessa? Forse. E stasera. Niente figli. Le loro domande, ammortizzatori del nostro disagio. Stasera dovrò rispondere a lei, mentre penso all’altra.
Eccoli, escono.

Applausi. Mia moglie, guarda. Mi guarda, sorride. Saprà qualcosa? La domanda ossessiva. Ha saputo di altre, in passato. ‘Traditore’. Un timbro vergognoso ai suoi occhi. Ha resistito, abbiamo chiuso la crepa con stucco, educazione genitoriale, tanto lavoro mio, tanta pazienza sua.
E’ ora di fare i conti?
La musica smorza le domande. I quattro si schierano sul palco a coppie. Giovani, belli, sicuri. Attaccano una sonata di Haydn. La violoncellista ha le spalle al palco. Le scapole che si flettono mentre si china sullo strumento. Bianche come quelle dell’altra, riflesse dallo specchio della sua camera, mobili, mentre le accarezzo i capelli. Bello anche il vestito. Direi color corallo. Raffinato, importante. Potrei regalarle un vestito così. Starebbe sicuramente bene, i capelli raccolti, quel colore vivo ma elegante come questa musica, anche se suonata con impeto da questi giovani ungheresi. Sarebbe eccessivo questo colore? Lo metterebbe mai?
Meglio non pensarci ma è troppo difficile. Arriva da tutte le parti, come una variazione di tempo, uno svolazzo di note che riportano a lei.
Applausi. Muoviamo la testa, approviamo, non diciamo una parola. Riprendono subito con Mendellshon, uno dei preferiti di mia moglie.
Una cavalcata con gli strumenti che paiono inseguirsi frustati dal ritmo, guidati dalle dita velocissime del quartetto. L’altra, avvolta nelle lenzuola.
Questo pezzo nervoso mi agita. Come se non lo fossi già di mio. Come se non sentissi il trillo del messaggio nella tasca interna della giacca. Eppure avevo smesso, avevo quasi dimenticato gli accorgimenti. Il nome di un amico abbinato a una distrazione che ora è diventata ossessione. In passato non succedeva. Mettevo distacco. Toglievo importanza. Oppure, sono bravo a dimenticare. A dimenticarle. I fuochi d’artificio e poi l’oblio. Sguardi speciali e poi il nulla.
Mia moglie. Muove una mano, come un direttore d’orchestra timido, tenendo il tempo. Le dita ossute, lo smalto rosso, l’anello per i quindici anni, grosso, pesante.
Lei sa? Ancora l’ansia che attacca. Seguo la melodia, il brano che si placa, calmo.
Intervallo. Bene così.
Mia moglie mi guarda mentre sorride, si alza, toglie gli occhiali da miope, sistema i capelli ricci. Il vestito optical, i tacchi troppo alti.
Andiamo di sotto?‘ mi dice. Certo, come sempre. Non cambiamo mai. Eppure.
Ricordo quello che ha detto lo speaker prima del concerto, sorprendendoci.
I classici, educati, inviti a spegnere i cellulari, a non scattare foto.
E poi ha detto: ‘Siate felici‘.
Qualcuno in platea ha riso a quell’invito. Sembrava indirizzato a noi.
Me lo chiedo mentre seguo nel corridoio il bel culo di mia moglie, ma ne immagino un altro. Sarò felice?
Forse. Con l’altra.

 

Lei

Sempre perfetto. Abile nella conversazione, nel porre la domanda giusta. La cortesia e la sicurezza, la giacca a quadretti, la cravatta viola, i pantaloni corti da trentenne, le scarpe lucide. La conversazione dell’intervallo con i soliti noti, metà amici, metà colleghi di altre banche o assicurazioni.
Tessere la tela, conversando in dieci minuti di esecuzioni appena ascoltate e futuri appuntamenti, anche non culturali. Al suo fianco, lo ammiro, entro come una consumata attrice non protagonista, le battute coi tempi giusti, i sorrisi perfetti.
Sembro uno specchio, rimando la sua confidenza, la sua brillantezza, questo fascino innato che non perde lo smalto, la naturalezza, perde solo i capelli e poi pure pochi.
Mio marito.
E io, abituata al ruolo. Il mio arbitro in giacca sartoriale fischia la fine del cerimoniale, saluto e via, torniamo ai nostri posti, alla nostra fissità.
Il quartetto rientra, faccio in tempo a chiudere la porta, a chiudermi dentro i pensieri.  I figli non ci sono, maledette feste di compleanno, quasi mi sento abbandonata a sopportare il suo silenzio impacciato, la voglia che avrebbe di estrarre il telefono e scrivere qualcosa a un’altra donna.
Attaccano Bartòk. Non mi piace, la musica popolare, tzigana, così come non mi piace questo buio che ci avvolge, ma è così. Mi concentro sul quartetto.
Il leader, un ciuffo da rockabilly sopra ad occhi spiritati, spesso sbarrati come in questo allegro, mentre segue la musica, come se le note sul leggio gli entrassero negli occhi e lui le accogliesse con gioia. A volte li vedo socchiusi di passione negli adagio, come se respirassero la musica, la tramutassero in una visione che lui riporta sull’archetto.
Occhi vivi, attenti, curiosi, gioiosi, al confronto di quelli dell’uomo al mio fianco, freddi, sopra gli occhiali da lettura appoggiati a metà naso, mentre sbircia le note del libretto. Sembra stanco o disinteressato.
Peccato non ci siano i figli. Gli sto dietro, lo spio. So cosa sta facendo. Come lo so? Una moglie lo sa.
Dire che è distante sarebbe fare un torto alla distanza. E’ anni luce da me, da noi. Non ci vuole molto, dopo tutti questi anni, a saperlo. La prima volta, fu un dramma, ma, cosa nota, i bimbi piccoli, la comodità, anche i soldi, certo, non negarlo, la meschinità, il disagio sociale. Le altre, robetta. Ma stavolta è diverso. Non è nemmeno necessario decifrare i suoi patetici tentativi di nascondere messaggi dietro contatti fasulli sul telefono. Basta viverlo il tradimento, assaporarne il gusto amaro, per abituarcisi, per sopportarlo, come un’ombra costante.
Poi si va avanti, certo. Anche per quella cosa che chiamiamo amore, certo.
Ora però, siamo come un minuetto che non riusciamo più a danzare, privi dell’armonia necessaria.
E’ la vita, oppure è la fotocopia di noi che vaga per questa vita, diventata abitudinaria. Giustamente ma anche tristemente.
Un filo di melodia si stende fra gli strumenti, rimpalla morbido e solido insieme. Mi ci arrampico, ci resto impigliata.
Basterebbe poco. In palestra, ci sarebbe la fila. Una quarantenne come me, ci sarebbe la fila. Oppure il tizio nel palco di fianco che saluta sempre a occhi bassi, ma l’altra settimana, in fila per un prelievo, mi ha vista ed è stato meglio passare l’attesa parlando di concerti che in silenzio a fissare l’ora o i numerini che scorrevano ad ogni chiamata.
Quanto ci vorrebbe? Un sorriso in più? Come sarebbe sparire con questo sconosciuto? Sedersi in altri palchi, altre prospettive, altre musiche che non ho mai ascoltato. Cambierebbe davvero qualcosa?
Diventeremmo un gossip sussurrato a bassa voce, ricoperto dalla patina di proibizionismo con ampie smagliature e distinguo, di questo piccolo mondo sempre uguale.
L’ultimo movimento.
Un sussulto, mi piace perfino Bartòk suonato con l’intensità di questi ragazzi che a volte pizzicano le corde in maniera quasi rock, che suonano con un trasporto incandescente. Mi trovo a cercare la sua mano. Esito, ma poi la trovo. Molle, fredda. Mi rivolge un sorriso di alabastro che è metà abitudine e metà pietà e questa è la parte peggiore che mi trapassa come una spada di indifferenza.
Il silenzio nel teatro mentre il brano trova sentimenti appesi nell’attesa è perfetto per questo tocco gelido.
Ci separiamo, arriva il finale, gli applausi, i bis, un concerto stupendo.
Lo speaker del teatro ci aveva sorpreso, quando dopo averci ricordato di controllare lo spegnimento dei cellulari, ci aveva regalato l’unico vero sorriso sincero.
Siate felici‘. Da dove saltava fuori quell’esortazione? Era rivolta a noi?
Me lo chiedo. Sarò felice?
Forse. Non più con mio marito.

 

rockinmille (+ 1 ricordo)

 

Modena. O Reggio Emilia?
Non ricordo esattamente, ma voto per Modena.
I Foo Fighters dal vivo. Andiamo, certo.
La memoria ricolma della mole di concerti visti negli anni impedisce di avere ricordi precisi. Non c’erano manco i blog dove scriverne con le orecchie ancora emozionate appena arrivavi a casa. Gli smartphone dove buttare giù due note emotive erano forse nella testa di qualche ingegnere particolarmente dotato. I tizi che hanno fondato Instagram avevano undici e otto anni e quindi niente cellulari per aria. Palco tirato su senza fronzoli né schermi, in mezzo a corridoi di asce di legno che facevano da passerella al cammino di passeggini e frequentatori di ristoranti comunisti.
Dave Grohl era un’icona per ragazzi che sapevano a memoria i brani dei Nirvana.
Si presentò davanti al microfono, non dietro alla batteria, chitarra alla mano, cantando i pezzi del suo primo album solista, grezzo ma molto bello, consumato in ore di ascolto (i testi, se non ricordo male, erano senza senso, giusto per cantare qualcosa sopra alle note, ma potrei sbagliare e non controllo).
Pubblico, poco ma partecipante. Saremo stati in duecento, forse. Concerto breve ma memorabile solo per vedere quel tizio sul palco.
Nel disco successivo, c’era più pulizia, c’erano ‘My Hero’ ed ‘Everlong’, pezzoni di stadium rock che secondo me la band suona tuttora.
Era il 1995. Secoli fa. Non c’era manco Facebook.
Oggi, io mi balocco da settimane con l’idea di scrivere un romanzo diviso in capitoli in cui i protagonisti partecipano a vari concerti nell’arco della vita che cambia, delle famiglie che si sfasciano e si ricompongono, tutto raccontato al passato mentre i concerti suonano.
Chissà poi che idea.
Invece i Foo Fighters suonano ancora, fanno tutto esaurito ovunque, pure in dieci minuti su ticketone per due date italiane. E di questa cosa, dei sold out in un lampo, che se non ti ricordi di mettere un avviso sul calendario dello smartphone o un post it enorme attaccato alla parete del bagno rischi di dimenticarti di correre online e comprare il prezioso, abitualmente carissimo, biglietto.
Di questa cosa, dicevo e di come andare ai concerti sia diventata una specie di moda, oltre che di passione per la musica, se ne potrebbe parlare a lungo. Se ne parlava l’altra sera, tornando dal concerto di un artista sconosciuto dove eravamo in nemmeno cento persone, mica di un Dave Grohl che oggi si rompe una gamba sul palco, torna dall’ospedale e fa un live acustico e diventa idolo condiviso da ogni sito musicale. Giustamente.
Dave Grohl è indubbiamente un giusto. Ha attraversato gli anni con una attitudine cazzara ma professionale che l’ha portato ad avere il rispetto praticamente di tutti. Beghe su Cobain a parte. E’ stimato ed è un idolo per molti, anche per quei ragazzi di Cesena che hanno organizzato la cosa più bella apparsa sull’internet nelle ultime settimane, SE sei dentro alla musica e a i concerti.
Hanno suonato in mille un pezzo dei Foo Fighters come richiesta alla band per aggiungere una data in Romagna durante il loro tour mondiale.
Sarà dura perché il gruppo è diventato sicuramente un carrozzone da portare in giro, con tempi tecnici e attese.
Mi piace pensare, e guarda ci scommetterei pure una birretta, che Dave Grohl, che sicuramente vedrà il video, organizzerà qualcosa. E comunque è ingiusto che questi mille (immagino, poi magari qualcuno il biglietto sarà riuscito a comprarlo in tempi record) non potranno vederli a Bologna a novembre.

Nemmeno io potrò, ci ho provato a prendere il biglietto, ma sono arrivato dieci minuti dopo. 
Questi mille, e pure io, forse ce lo meriteremmo. 

Prometteremmo pure di non fare Instagram mentre Dave Grohl suona sul palco. Io però un paio di note per l’eventualissimo romanzo, le scriverei negli appunti, dai.

(il sito di rockin1000)

 

Palco n.25 OR.1/D (S04E02, the bike girl)

fotoIndossa il maglione nero che le ha regalato la nonna lo scorso Natale. Sotto, un paio di jeans nuovi. Neri, semplici, senza strappi. Fa un risvolto alla gamba destra, mette la giacca impermeabile, fuori è umido ma non piove. Si stringe la grossa sciarpa bianca al collo, sistema il cappello a tesa stretta che indossa spesso ultimamente, inforca la bici e va. Attraversa veloce la via Emilia. Le prime decorazioni natalizie si specchiano nelle vetrine chiuse da poco dei negozi. Rallenta la pedalata, si specchia anche lei. Il suo riflesso opaco, avvolto per una frazione di secondo da lucine sottili appese nel buio della sera, la scia della sua bici bianca come il lampo di un flash. Sorride a una coppia che marcia veloce verso l’appuntamento. Il suo è solo rimandato. Un messaggio veloce all’amica, prima di uscire. ‘Aspettami, il concerto durerà poco’. Il locale sarà quello solito, tutto nel raggio di cinquecento metri. Casa, teatro, locale.
Arriva e parcheggia la bici, salutando il ragazzo che controlla le bici parcheggiate appena sotto la scalinata d’ingresso, ci son state lamentele per un paio di furti.  Nel foyer c’è la fila all’ingresso e un discreto brusio. Controlla la durata dello spettacolo. Un’ora e quarantacinque, pensava meno. Entra e viene investita dalle luci. Le pare di sentire l’odore del velluto, era tanto che non veniva a teatro. Stasera c’è per conto terzi. La nonna, assente, ancora ferma dopo un incidente casalingo. La sua compagna neppure, una febbricciatola che sconsiglia le uscite serali. ‘Vai tu, nanein, poi me lo racconti’. Lei ha fatto un sorriso forzato e accettato. Si siede, incrociando lo sguardo stupito di un tizio con gli occhiali fumé e troppa brillantina nei capelli.
Ha in mano un programma, lo appoggia nella sedia a fianco che non verrà occupata. Sussura buonasera alle signore dietro di lei. Un paio le conosce, una di sicuro. La ricorda da quando veniva spesso con la nonna, per poi altrettanto spesso addormentarsi a metà della prima parte.
La musica classica. Han provato a inculcargliela. Lezioni di violino, poi pianoforte. Lei, testarda, voleva suonare la chitarra. Il padre, testardo, insisteva. Pareggiarono e lei non imparò mai a suonare nulla. Solo la nonna riusciva a farle ascoltare la classica, a casa sua era un sottofondo abituale. ‘Vedrai che ti piacerà’, le aveva detto con gli occhi dolci. Clarinetto e pianoforte. La vede dura. Guarda i palchi. Un signore con la barba e una signora con i capelli bianchi parlavano fitto, un solitario guarda di sottecchi la platea. L’avviso di spegnere i cellulari cade dagli altoparlanti, mentre i whatsapp degli amici picchiettano il vetro dell’iPhone come pioggia su pozzanghere. La richiamano alla festa. Le luci si abbassano. Non troppo, sarebbe riuscita a leggere il libretto, perlomeno.

Ecco il duo, gli applausi. Un leggero fremito di curiosità la attraversa. Il clarinettista è un bell’uomo. Biondo, un completo stretto nero, calzini rossi a dare un tocco lezioso. Il pianista, più compassato. Fili biondi pettinati all’indietro con una enorme stempiatura, un classico tre pezzi di marca, occhialini neri.
Entrambi svedesi. Ricorda spesso il viaggio a Stoccolma dell’estate precedente, la bellezza naturale delle persone che incontrava, perfettamente accoppiata alla bellezza centenaria della città. Ci tornerà di sicuro. Mentre il duo inizia la sua passeggiata lungo le composizioni di Schumann, si trova a pensare a tutto tranne che alla musica. Era anche quello un effetto della musica, sicuro. Pensa all’università, all’esame fallito, al padre angosciato per i suoi voti, alla sua amica nervosa per questioni di cuore, a quell’amico che la tempesta di messaggi che rimarranno speranzosi, alla nonna che è a casa da sola e si aspetterà un resoconto nel loro classico pranzo del sabato. ‘Nonna, la classica non fa per me’. Sarebbe stato come tirarle un pugno. Evitabile.
Un movimento del biondo sul palco la risucchia finalmente nel suono. Lei si scioglie, segue le melodie delle danze popolari rumene, si trova a picchiettare le Dr.Martens sul pavimento. Eseguono brani di Chopin. Ah! Chopin. Quello le piace. I brani sono brevi, i movimenti del clarinettista, che segue col corpo la musica, ondeggiando insieme al suo strumento come un incantatore. Il pubblico dei palchi è immobile e attento, tranne un tizio che muove la testa seguendo il ritmo. Applausi. Intervallo.
Guarda il cellulare, ondate di whatsapp. Deve fare pulizia di tutte queste chat inutili. Si volta indecisa se uscire a fumare o meno. Qualcuno potrebbe vederla.
Incrocia lo sguardo con una coppia di amici. Pazzeschi, sembrano avere sessant’anni. Lui, in giacca e cravatta sbagliata, lei con una collana enorme. Li saluta, con un sorriso stirato, quasi a biasimarli. Eppure, si sorridono, le mani intrecciate, leggono qualcosa sul programma. Lui le da un piccolo bacio su una guancia, lei chiude gli occhi chiari, sembra che ci siano solo loro nel teatro. Decide di uscire. Una rapida occhiata intorno e accende una Marlboro Light. Vicino a lei, una signora con una cappotto lungo fino alle caviglie fuma con violenza. Si guardano, come se si riconoscessero, poi guardano insieme le luci della fontana che saltellano come se anche loro seguissero le note allegre di un clarinetto. Si concentra sul suono preciso dell’acqua che cade, attutito dalla calma della sera. Solo un paio di biciclette che attraversano la piazza.
Rientra, anticipando di pochi secondi il ritorno del duo sul palco. Lui era effettivamente ammaliante. Le dita che si muovevano rapide e lievi sullo strumento a fiato, che accoppiato al pianoforte suona le tzigane danze ungheresi di Brahms.
Si annota una frase del compositore, tratta dal libretto: ‘Un individuo che cerca di compiacere l’aristocrazia è destinato a essere un buono a nulla‘. Lei, aspirante rivoluzionaria. Un brano romantico di matrice spagnola, dura troppo poco, le sbrana il cuore per due minuti di dolce e triste bellezza. Le ultime composizioni sono danze avvolgenti. I musicisti sembrano gatti che saltano e  si aggrovigliano alle note, giocosi. Uno scattante e smilzo, bianco con riflessi dorati nella coda, l’altro col pelo arruffato e un po’ grosso. Lei vorrebbe saltare sul palco e ballare un po’. Perchè no. Non lo farà mai, ma era bello sognarlo per un momento. Finchè il concerto termina.

La musica è finita, ma lei non vuole uscire. Le sembra di essere in un bozzolo. Fanno un paio di bis. Le sembrano perfetti. E’ durato meno del previsto. Si allaccia la sciarpona, guarda il telefono ribollente di whatsapp. Ne manda solo uno all’amica. ‘Vado a casa, non mi sento bene’. E si avvia fra le vetrine luccicanti di riflessi.
Sarebbe entrata in casa, avrebbe dato un leggero bacio al viso sbalordito del padre, gli occhi di lui indecisi fra il momento di dolcezza della figlia e il controllare l’orologio, così presto?, e poi avrebbe letto qualcosa, fatto un bel sonno pieno di elfi saltellanti che la circondavano mentre dormiva, suonando flauti colorati, si sarebbe svegliata presto, sarebbe andata al mercato del sabato mattina e il giorno dopo, ‘Aloura, com’e stato?’ le avrebbero chiesto occhi dolci ma stanchi della nonna, mentre le serviva le tagliatelle.
‘Bellissimo, nonna, bellissimo. La prossima volta ci andiamo insieme’.

 

 

Programma di serata

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Palco n.25 OR.1/D (S04E01, a new beginning)

fotoE’ fra le ultime persone ad entrare nel foyer.
Il passo lento ma sicuro. La testa fresca di bigodini. Sembra quella di una tartaruga. Rugosa e insaccata in un rigido cappotto nero troppo largo.
Fa un sorriso alla maschera che le augura buona serata mentre timbra il biglietto. Entra in platea e la luce del lampadario le cattura lo sguardo. Stringe gli occhi abbagliata dalla classica bellezza della sala. Il vociare degli altri spettatori, i saluti, inizia una nuova stagione, persone che non trovano il posto. Il suo è il solito, da qualche anno. Non deve chiedere permesso per infilarsi nella fila, gli uomini che son sempre alla sua sinistra, sono in giro a stringere mani. L’abituale socialità pre concerto.
Si toglie il cappotto, facendolo scivolare dalle braccia sottili. Lo appoggia nella poltrona alla sua destra, sa che non sarà occupata. Si sistema la stola di visone bianco, annodata con un grosso laccio di seta all’altezza dello sterno. Si siede, già sorride. Il suo amato Mozart. Un piccolo compagno di viaggio da una sessantina d’anni. Da quando piccola ne studiava le veloci partiture a scuola, bacchettate sulle dita che non stavano ferme sulla tastiera, fino a pochi giorni fa. Aveva portato a casa dell’amica un cd. Lo avevano ascoltato insieme per anticipare la serata, questa serata, a cui l’amica sarebbe mancata. Caduta in bagno. Frattura di un polso. Un classico dell’età. L’ inquietante segnale di un corpo provato da troppi anni. I suoi figli, subito preoccupati, l’accadimento come un campanello d’allarme, avevano subito provveduto a sistemarle appoggi e sottili ringhiere in ogni punto della casa. Lei, le mani piccole e sottili, le gambe malferme, ne era stata grata, anche se nessuno di loro aveva voluto accompagnarla stasera. Non era un problema, sarebbe bastata la musica a farle da compagnia.

Una mano sulla spalla. La gentile signora, altra habitué della platea che la saluta, si informa dell’amica. Le voci corrono in una piccola città. Il signore con gli occhiali fumé saluta anche lui, gentile e distaccato come sempre. Una ragazza alta e coi capelli lunghissimi fa un cenno all’uomo e lui cambia espressione, mentre le luci si abbassano. Un’occhiata ai palchi. Ragazzi giovani che aspettano impazienti, una famiglia assiepata nell’attesa.
L’orchestra l’ha già potuta ammirare sul palco del suo teatro. Il pianista, mai. Lui è storia che cammina. E’ più anziano di lei. Ottantenne, alcuni dicono novantenne. Sul libretto come ad alimentare il mistero, la data di nascita non c’è. Nel ’49 vinceva il suo primo concorso internazionale. Sale sul palco col passo lento, sorretto da un bastone e dal braccio del direttore. Ha una camicia nera che sembra un velo sopra a un corpo stanco. Radi fili bianchi in testa, la pelle come carta velina pallida. Magrissimo, si inchina al pubblico con un gesto leggero del capo, i bottoni della camicia sembrano piccoli brillanti, risplendono alle luci, agli applausi.
Il pianista si siede, appoggia un fazzoletto sul pianoforte. Il direttore sorride, si volta e inizia. Mozart.
Lei non se ne accorge, la tecnica le è sempre sfuggita, si è sempre affidata alle sensazioni. Ci fosse la sua amica, lei si accorgerebbe se il solista non è in giornata, non è preciso. Lei è semplicemente dentro la musica. L’agile inizio, cantabile, come le suggerisce sempre l’amica assente. Il commovente bel finale. Applaude convinta. Applaudono tutti. Il pianista si alza a fatica, prende il bastone, se ne va, sempre accompagnato dal direttore. Se lo immagina dietro le quinte, seduto su una sedia di legno, le mani lunghe ma ancora agili immerse in una bacinella d’acqua fredda. Si chiede se fa bene l’acqua alle mani. L’amica saprebbe rispondere. Prende un appunto mentale, glielo chiederà il giorno dopo.

Spostano il pianoforte, l’orchestra resta da sola.
La sinfonia è gradevole, agile, melodiosa, a tratti carezzevole, spesso agitata con gusto. Lei ascolta immobile, le mani in grembo, una sopra l’altra. Durante l’intervallo, si alza una volta, si sistema la stola, scambio poche parole di apprezzamento con la signora dietro di lei, poi torna a sedersi. Vede un ragazzo con un ciuffo ribaldo scrivere su un cellulare. Sapesse usarlo, scriverebbe un messaggio all’amica. Una cosa semplice. ‘E’ un bel concerto’. Pensa sia banale, sposta lo sguardo verso le persone che si fanno passare a vicenda nel corridoio compiendo piccoli passi. Sembrano danzare. Pensa che sarebbe bello ogni tanto vedere un balletto, è tanto tempo che non ne vede uno.
Si abbassano le luci, i ritardatari corricchiano verso i posti. Torna il pianista. La scena dell’ingresso si ripete. Due secondi di silenzio e comincia.

Uno dei suoi pezzi preferiti. L’amica le avrebbe toccato un braccio, chinato la testa, fatto notare, ma lo nota anche lei, o le sembra. Lui appare più sciolto in questa esecuzione. L’allegria della melodia iniziale, una leggera commozione che riesce a gestire bene nello struggente adagio del secondo movimento, il bel finale. Uno sguardo del direttore, l’ultima nota sparata con inattesa energia dal pianista.
Il teatro trema di emozione e di applausi. Qualcuno si alza. A lei esplode un sorriso in viso. Guardalo. Ottantenne, novantenne. Un inno alla vecchiaia, al fare, al resistere, alla passione di stare curvo sui tasti. Occhi chiusi nelle pause, concentrazione, nessuno spartito, ci mancherebbe. Lei a volte dimentica le poche cose che deve comprare al mercato. Disattenta. La sua amica glielo rinfaccia sempre. Come le sarebbe piaciuto, pensa.
Inatteso, un bis.

Per la prima volta durante la musica, si muove. Sposta una mano verso il posto libero alla sua destra. La apre, non trova altro che aria, ma la richiude lo stesso. Chiude anche gli occhi, pensa a domani, quando farà sentire alla sua amica quel brano. Brahms vero? Sì. E le potrà stringere la mano.

Programma di serata

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tre passi con ‘The National’

 

foto 1 (4)1. di sassi e ricordi.
Che poi non lo volevo nemmeno scrivere il post sul concerto dei ‘The National’. Quando sono tanti anni che hai un blog su cui scrivi anche dei concerti è che all’ennesima volta che ti trovi davanti uno dei tuoi gruppi preferiti, magari pensi di non averne voglia di scriverne, perché hai già dato.
Il giorno dopo leggi un pezzo scritto col cuore da sotto il palco e una mezza voglia di scrivere le due robe solite ti viene, poi è il giorno dopo e sei stanchissimo che si è fatta una certa età dove i concerti infrasettimanali hanno anche il significato ben preciso di portare una stanchezza per fortuna spesso pari alla contentezza e perdi l’attimo, poi lo ritrovi come il filo di un gomitolo capriccioso, ma poi arriva una telefonata di lavoro e l’ispirazione si perde nel dovere e insomma il post non lo scrivi e pazienza. Il filo però rimane ballonzolante e dopo due giorni, quando hai recuperato bene, capita di vedere un film e allora, con un balzo felino, prima che la voglia passi ancora, eccoci qua.
Innanzitutto per scriverlo, per ricordarmelo, che in quella piazza, almeno una volta all’anno, bisogna tornare. Perché nella piazza ci sono i ciottoli che sono come impronte in cui ti riconosci, perché da lì ci sei già passato e quel passato, quei sassetti piantati per terra, formano una storia che proprio come i ciottoli invecchia piano, si prende la pioggia, si leviga ma non si dimentica.
Si potrebbe scriverne un romanzo più o meno di formazione, i ciottoli come capitoli che raccontano, attraverso i concerti, una compagnia che cresce, cambia, eccetera.
C’è quel ciottolo dov’eri con quella persona che sembrava niente e invece dopo è diventata qualcosa, quell’altro dove hai salutato gente che leggevi tempo fa su blog che adesso non esistono più, cancellati ma non dimenticati, residui di un’altra epoca che era solo ieri però sul ciottolo rimane. C’è quel buco fra due sassetti dove hai rischiato la caviglia saltando e ricordi esattamente dov’è, quello dove ti sei seduto spossato a fumare una sigaretta di cui ricordi ancora il sapore, quelli dove hai ricevuto un ‘grazie’ speciale, quello dove hai un ricordo di una persona che poi è cambiata e così via, ognuno il suo numero di ciottoli. Come tutti i bei posti, è il posto che funziona, il posto per cui si torna. E anche ieri sera, altri ciottoli da ricordare, finché avrò voglia di raccontarlo, finché un ciottolo prenderà un’impronta e saprò leggerla.

foto 2 (4)2. fan & personal.
I ‘The National’ e la loro musica sono un po’ il trait d’union dei miei ultimi anni. Eleganti e malinconici, potenti e delicati, se la loro musica fosse un uomo questo sarebbe l’uomo perfetto e forse Matt Berninger lo è, l’uomo perfetto, amato dagli uomini perché sul palco si sbronza spesso e perché indossa splendidi gilet e dalle donne perché ha una voce fantastica e fascino che lo percepisci da metri di distanza.
I ‘The National’ son capaci di aprirmi la pancia, bastano tre canzoni, l’ipnotico ritmo di quel fenomeno di batterista che a colpi di tom allenta le viti dalla cassa che pensavo di avere chiuso bene e pop! saltano fuori robe e non ci posso fare niente come non si può fare niente per rimediare ad errori, parole rimaste aggrovigliate, atti di coraggio mancati. Quello che si può fare è cercare di fare meglio e se non basta, boh, riprovare e bere ancora un po’ di vino, seguendo il cantante, cullandosi nelle melodie al pianoforte, esaltarsi con le trombe, saltellare e occhio ai ciottoli storti, seguire le urla di Matt durante ‘Squalor Victoria‘, tenere il ritmo, pompare energia, cantare un sing-a-long con la frase ‘All the very best of us string ourselves up for love‘ che sembra una stronzata da bacio perugina ma forse è anche una verità, fino a quando ci stringiamo in un abbraccio ideale e collettivo mentre per coreografia vengono giù due gocce d’acqua due.
Fanno cinque volte. E’ stato bello. Come sempre. Forse un po’ meno, dice. Ma va benone. Gli anziani dei concerti dei ‘The National’ son contenti, le novizie pure. Poi, questo giro, son pure riuscito a dargli una pacca sulla spalla a Matt mentre girava sui ciottoli, che lui lo fa di scendere dal palco e farsi una camminatina in mezzo al suo pubblico. C’era scritto ‘Bene’ su quella pacca e bene sia.

mfs3. il film
Nella settimana dei ‘The National’ c’è anche un film. Un documentario girato dal fratello del cantante. Per chi non lo sa la band è composta da due gemelli, due (altri due) fratelli e appunto il cantate. Che però un fratello ce l’ha. Questo fratello è stato in giro con loro per sei mesi per poi uscirsene con un documentario che è quasi un film che è un pochetto un saggio.
Il titolo è ‘Mistaken for strangers‘ come una delle loro bellissime canzoni.
Mostrare il classico dietro le quinte di un tour di una rock band diventata quasi famosa è un pretesto per sviscerare il rapporto fra fratelli, il fare i conti con il passato e con sè stessi, crescere, perdere e forse trovare.
Another uninnocent, elegant fall into the unmagnificent lives of adults
Cose basiche che il cinema affronta da secoli, qua mostrate in un contesto che diventa intimo non solo per il rapporto fra i due ‘protagonisti’. Il film è divertente, commovente, amatoriale ma non troppo, profondo perfino e soprattutto sincero, senza dubbi. Può piacere anche a te che pensi che i ‘The National’ siano noiosi. Dura settanta minuti, escluso il bonus per fan di tre canzoni suonate live dopo i titoli di coda.
Lo puoi vedere online. Io un’oretta ce la perderei, fossi in te. Al cinema, unica proiezione, eravamo in otto. C’è un momento che si vede Emily Blunt, quindi a Emily Blunt piacciono e mi sembra pure giusto (chi mi conosce sa che ho sta fissa teen per Emily Blunt va bè).

Bé peccato per chi non l’ha visto e per fortuna che non dovevo scriverlo eh il post sui ‘The National’…

Palco n.25 OR.1/D (S03, the season finale)

Il primo post su WordPress è datato sei anni fa esatti. Splinder non andava più. Raccontava del ‘Primavera.
E questo non è un post dove un tizio che ha un blog da anni ne annuncia la chiusura.
No, finché mi diverto, il blog rimane.

Però mi sembrava giusto “celebrare” e visto che ieri sera ero a un concerto di classica, ho pensato anche che ultimamente non ho trovato la spinta per scrivere dal ‘Posto Palco‘. Rimedio così, per la gioia dei tre fan di questa rubrichetta.
Dieci cose dal posto palco che non ho scritto quassù.

Uno: le braccia di una violoncellista possono essere la cosa più sexy vista negli ultimi tempi. Sembrano uscite da uno studio anatomico, magre ma lievemente tornite, accompagnano l’archetto, le dita tese ma leggere che aggrediscono le corde, strizzandole, a disegnare scenari di perfezione sonora;

Due: un palchetto per due nel secondo ordine, abiti da sera, una smodata onda romance che sale dall’orchestra, sono cose che miscelate possono fare scattare un lunghissimo e appassionato bacio in una coppia giovane che poi, non si staccherà più per l’intera durata del concerto;

Tre: Le giovani pianiste, di fronte a un giovane pianista, hanno occhi che brillano di note e sogni modellati da tasti bianchi e neri (e Chopin fa sempre bene alla salute)

Quattro: i corridoi del teatro sono posti sublimi per rivelare segreti;

Cinque: la prossima stagione la vorrei completamente dedicata a compositori nati nell’ex Unione Sovietica, per passatismo e bellezza, grazie;

Sei: non ho abbastanza fantasia da pensare a un giallo ambientato interamente dentro al teatro, durante un concerto e diviso in capitoli che riprendono i movimenti delle sinfonie. Se qualcuno vuole offrire suggerimenti, è il benvenuto;

Setteoceano di sedie, che poi vengono riempite da un solista norvegese al piano, orchestra multinazionale agli strumenti, coro praghese alle vocione. Quando sale tutto, verso la fine della composizione, a pochi metri da me, mi è parso proprio di vedere la perfezione fatta musica. D’altra parte proprio Beethoven diceva: ‘Soltanto l’arte e la scienza innalzano l’uomo sino alla divinità‘.

Otto: ‘La facoltà di creare non ci viene mai data da sola, è sempre accompagnata dalla capacità di osservazione e il vero creatore si riconosce in quanto trova sempre attorno a lui, nelle cose più comuni e  più umili, elementi degni di nota’. Igor Stravinkij

Nove: credo di averlo già detto, ma quando muoio, chiamate un quartetto d’archi per suonare qualcosa. ieri sera, la finale del concorso ‘Paolo Borciani’. Tre quartetti di giovani musicisti, uno più figo dell’altro e un giornalista giapponese di cui ho scritto su IG. Per la cronaca il mio 4et preferito è finito al terzo posto, giusto per ricordare la mia ignoranza in materia, ovviamente gli altri sono stati eccellenti. Puoi ascoltare le esecuzioni della serata finale a questo link.

Dieci: ci rivediamo l’anno prossimo, che il posto palco è un bellissimo posto.
Pp

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