Seguendo le favole di Hollywood, indossando stivaletti scamosciati

Quentin Tarantino fa quello che vuole. Si prende tempo, quello che vuole, per fare conoscere tre personaggi, per mostrare lo sfondo, la Hollywood del ’69 e quello che rappresenta(va) che è poi il punto.
Si prende tempo, per mostrare capelli bellissimi al vento di decappottabili o di macchine con i finestrini perennemente abbassati, tempo per carrellate orizzontali, per mostrare tanti piedi e alcune calzature, mettendo dentro i suoi feticismi, facendo il suo film più personale (l’ha anche detto lui).
Si prende tempo, in totale controllo artistico, una cosa abbastanza rara nella Hollywood ’19 in un panorama di ‘filmoni’ dominato da eroi e sequel/prequel e con una storia originale, seppur appoggiandosi alla storia vera. Non dico niente di personaggi e della, esilissima, trama. Sarà un piacere per chi vedrà il film andare poi a leggere (finalmente, il film è uscito nei paesi culturalmente civilizzati a luglio, massimo a metà agosto, solo qui adesso ma, hey, non siamo gli ultimi, in Corea del Sud esce la prossima settimana!) del mix fra realtà e finzione di vari personaggi che il film mostra più o meno a fondo, in una marea, seppur controllata, di citazionismo tarantiniano.
Il regista si prende soprattutto tempo per portare lo spettatore al finale che, senza dire niente, è il tutto.
E’ l’approdo di una favola, come recita il titolo, dove si arriva con tantissime cose viste, con una sequenza in cui Di Caprio dimostra di essere il migliore attore della sua generazione, un’altra che è puro amore per il cinema e gli occhialoni.

Piacerà meno degli incassi, secondo me, al di là del pop, del fashion (Brad Pitt non fa solo l’indossatore, ci mancherebbe, non l’ha mai fatto, c’è una scena straordinaria, quasi sospesa nel caldo e nella polvere, in cui è perfetto, però quando fa il modello, cadono mascelle pure maschili) non è un film per tutti. Piacerà a chi ama il cinema, non solo l’atto di andare al cinema, proprio chi si fa i viaggi con il cinema, ci ripensa, ne legge, ne parla, chi si alza il mattino dopo una visione con gli occhi ancora pieni delle vie di Los Angeles, di sole, piedi sporchi, polvere, sigarette, cocktail, ville, capelli al vento e cappelli, locandine e ranch sentendo quell’effetto che solo il cinema può ricreare, quella sensazione fra malinconia e magia che pochi film sanno rendere e questo lascia, dopo un lungo viaggio che poi sembra troppo breve, volando nella notte di Los Angeles.

 

Ps.: complimenti sempre a chi proietta in versione originale, ieri sera alla “anteprima” era pieno di giovani fra l’altro, bel segnale, spero;
Ps2.: bisognerebbe sapere qualcosa della cultura americana di quel periodo, sarebbe meglio per capire tutto, anche se non è fondamentale, soprattutto un passaggio, un nome, che mi è stato spiegato prima del film da bravi ragazzi che hanno fatto una presentazione dello stesso;
Ps3.: ho scoperto una cosa. Al cinema se uno ha al polso quei robi collegati al cellulare che ricevono gli avvisi e se il tipo/a è gettonatissimo, il robo al polso si accende cento volte durante la visione e solo perché ho abbracciato la via della pace non ho preso la mannaia tagliandogli il polso, al tipo col robo al polso, anche perché Quentin non fa più certi film, quindi sarebbe stato troppo tarantinesque, la scena della mannaia e del polso che cade sul pavimento della sala, il robo ancora acceso.
Ps4.: lo stivaletto mocassinato che indossa Boothe/Brad nel film lo puoi comprare qua