Palco n.25 OR.1/D (the affair)

(come sanno i lettori più affezionati del blog, negli anni ho tenuto una specie di diario, numerato come fosse una serie Tv, delle serate trascorse a teatro ad ascoltare la classica. li ho scritti per ripensare alla musica, per provare a incuriosire qualcuno. difficile, la ‘musica classica’ non affascina molto.
comunque, trovate tutti gli episodi, a questo link QUA.
l’anno scorso ho perso l’ispirazione, pubblicando giusto due post che nelle intenzioni erano raccontini con sottofondo musicale. poi avevo una bozza nel cassetto, la ritiro fuori oggi, visto che ‘The Affair‘, la serie originale, a cui palesemente mi ispirai, è ripartita, e visto pure che mercoledì riparte anche la stagione concertistica.
sarà la S05 per me, nel posto palco. chissà che non torni l’ispirazione, ne dubito, ma chissà. intanto, appunto, un post dal posto palco, una specie di ‘prova d’orchestra’, via)

 

Lui

Il concerto di sabato sera. Un vero peccato che i figli non ci siano. Loro, il cuscinetto in queste serate.
Il palco è stretto, porpora, il solito, da tanti anni. Più scomodo adesso che sono con lei e vorrei essere con un’altra. L’altra. L’unica che in questi anni mi abbia fatto pensare l’impensabile.
Cioè, guardala. La massa di capelli rossi. I riccioli che hanno ancora la forza ribalda di quando ci conoscemmo. Le braccia tornite da ore di palestra. Una bellezza di moglie. Mia moglie che non amo più.
L’ho detto. L’altra sera, mentre le natiche dell’altra si appoggiavano alle mie cosce. Non so se avrei avuto il coraggio di dire quella frase, guardandola. E’ uscita così naturale, spontanea, come libera da un tappo con troppa pressione sotto. Non era una di quelle frasi dette ad altre, tanto per tranquillizzarle, per guadagnare altro sesso, rubare altri baci. L’ho detta a lei perché mi fido di lei, ma senza guardarla in viso. Sarebbe stato troppo. Lei, ha ascoltato, si è girata e mi ha dato un bacio. Tutto qua. La frase più difficile da dire, racchiusa in un bacio. Una promessa? Forse. E stasera. Niente figli. Le loro domande, ammortizzatori del nostro disagio. Stasera dovrò rispondere a lei, mentre penso all’altra.
Eccoli, escono.

Applausi. Mia moglie, guarda. Mi guarda, sorride. Saprà qualcosa? La domanda ossessiva. Ha saputo di altre, in passato. ‘Traditore’. Un timbro vergognoso ai suoi occhi. Ha resistito, abbiamo chiuso la crepa con stucco, educazione genitoriale, tanto lavoro mio, tanta pazienza sua.
E’ ora di fare i conti?
La musica smorza le domande. I quattro si schierano sul palco a coppie. Giovani, belli, sicuri. Attaccano una sonata di Haydn. La violoncellista ha le spalle al palco. Le scapole che si flettono mentre si china sullo strumento. Bianche come quelle dell’altra, riflesse dallo specchio della sua camera, mobili, mentre le accarezzo i capelli. Bello anche il vestito. Direi color corallo. Raffinato, importante. Potrei regalarle un vestito così. Starebbe sicuramente bene, i capelli raccolti, quel colore vivo ma elegante come questa musica, anche se suonata con impeto da questi giovani ungheresi. Sarebbe eccessivo questo colore? Lo metterebbe mai?
Meglio non pensarci ma è troppo difficile. Arriva da tutte le parti, come una variazione di tempo, uno svolazzo di note che riportano a lei.
Applausi. Muoviamo la testa, approviamo, non diciamo una parola. Riprendono subito con Mendellshon, uno dei preferiti di mia moglie.
Una cavalcata con gli strumenti che paiono inseguirsi frustati dal ritmo, guidati dalle dita velocissime del quartetto. L’altra, avvolta nelle lenzuola.
Questo pezzo nervoso mi agita. Come se non lo fossi già di mio. Come se non sentissi il trillo del messaggio nella tasca interna della giacca. Eppure avevo smesso, avevo quasi dimenticato gli accorgimenti. Il nome di un amico abbinato a una distrazione che ora è diventata ossessione. In passato non succedeva. Mettevo distacco. Toglievo importanza. Oppure, sono bravo a dimenticare. A dimenticarle. I fuochi d’artificio e poi l’oblio. Sguardi speciali e poi il nulla.
Mia moglie. Muove una mano, come un direttore d’orchestra timido, tenendo il tempo. Le dita ossute, lo smalto rosso, l’anello per i quindici anni, grosso, pesante.
Lei sa? Ancora l’ansia che attacca. Seguo la melodia, il brano che si placa, calmo.
Intervallo. Bene così.
Mia moglie mi guarda mentre sorride, si alza, toglie gli occhiali da miope, sistema i capelli ricci. Il vestito optical, i tacchi troppo alti.
Andiamo di sotto?‘ mi dice. Certo, come sempre. Non cambiamo mai. Eppure.
Ricordo quello che ha detto lo speaker prima del concerto, sorprendendoci.
I classici, educati, inviti a spegnere i cellulari, a non scattare foto.
E poi ha detto: ‘Siate felici‘.
Qualcuno in platea ha riso a quell’invito. Sembrava indirizzato a noi.
Me lo chiedo mentre seguo nel corridoio il bel culo di mia moglie, ma ne immagino un altro. Sarò felice?
Forse. Con l’altra.

 

Lei

Sempre perfetto. Abile nella conversazione, nel porre la domanda giusta. La cortesia e la sicurezza, la giacca a quadretti, la cravatta viola, i pantaloni corti da trentenne, le scarpe lucide. La conversazione dell’intervallo con i soliti noti, metà amici, metà colleghi di altre banche o assicurazioni.
Tessere la tela, conversando in dieci minuti di esecuzioni appena ascoltate e futuri appuntamenti, anche non culturali. Al suo fianco, lo ammiro, entro come una consumata attrice non protagonista, le battute coi tempi giusti, i sorrisi perfetti.
Sembro uno specchio, rimando la sua confidenza, la sua brillantezza, questo fascino innato che non perde lo smalto, la naturalezza, perde solo i capelli e poi pure pochi.
Mio marito.
E io, abituata al ruolo. Il mio arbitro in giacca sartoriale fischia la fine del cerimoniale, saluto e via, torniamo ai nostri posti, alla nostra fissità.
Il quartetto rientra, faccio in tempo a chiudere la porta, a chiudermi dentro i pensieri.  I figli non ci sono, maledette feste di compleanno, quasi mi sento abbandonata a sopportare il suo silenzio impacciato, la voglia che avrebbe di estrarre il telefono e scrivere qualcosa a un’altra donna.
Attaccano Bartòk. Non mi piace, la musica popolare, tzigana, così come non mi piace questo buio che ci avvolge, ma è così. Mi concentro sul quartetto.
Il leader, un ciuffo da rockabilly sopra ad occhi spiritati, spesso sbarrati come in questo allegro, mentre segue la musica, come se le note sul leggio gli entrassero negli occhi e lui le accogliesse con gioia. A volte li vedo socchiusi di passione negli adagio, come se respirassero la musica, la tramutassero in una visione che lui riporta sull’archetto.
Occhi vivi, attenti, curiosi, gioiosi, al confronto di quelli dell’uomo al mio fianco, freddi, sopra gli occhiali da lettura appoggiati a metà naso, mentre sbircia le note del libretto. Sembra stanco o disinteressato.
Peccato non ci siano i figli. Gli sto dietro, lo spio. So cosa sta facendo. Come lo so? Una moglie lo sa.
Dire che è distante sarebbe fare un torto alla distanza. E’ anni luce da me, da noi. Non ci vuole molto, dopo tutti questi anni, a saperlo. La prima volta, fu un dramma, ma, cosa nota, i bimbi piccoli, la comodità, anche i soldi, certo, non negarlo, la meschinità, il disagio sociale. Le altre, robetta. Ma stavolta è diverso. Non è nemmeno necessario decifrare i suoi patetici tentativi di nascondere messaggi dietro contatti fasulli sul telefono. Basta viverlo il tradimento, assaporarne il gusto amaro, per abituarcisi, per sopportarlo, come un’ombra costante.
Poi si va avanti, certo. Anche per quella cosa che chiamiamo amore, certo.
Ora però, siamo come un minuetto che non riusciamo più a danzare, privi dell’armonia necessaria.
E’ la vita, oppure è la fotocopia di noi che vaga per questa vita, diventata abitudinaria. Giustamente ma anche tristemente.
Un filo di melodia si stende fra gli strumenti, rimpalla morbido e solido insieme. Mi ci arrampico, ci resto impigliata.
Basterebbe poco. In palestra, ci sarebbe la fila. Una quarantenne come me, ci sarebbe la fila. Oppure il tizio nel palco di fianco che saluta sempre a occhi bassi, ma l’altra settimana, in fila per un prelievo, mi ha vista ed è stato meglio passare l’attesa parlando di concerti che in silenzio a fissare l’ora o i numerini che scorrevano ad ogni chiamata.
Quanto ci vorrebbe? Un sorriso in più? Come sarebbe sparire con questo sconosciuto? Sedersi in altri palchi, altre prospettive, altre musiche che non ho mai ascoltato. Cambierebbe davvero qualcosa?
Diventeremmo un gossip sussurrato a bassa voce, ricoperto dalla patina di proibizionismo con ampie smagliature e distinguo, di questo piccolo mondo sempre uguale.
L’ultimo movimento.
Un sussulto, mi piace perfino Bartòk suonato con l’intensità di questi ragazzi che a volte pizzicano le corde in maniera quasi rock, che suonano con un trasporto incandescente. Mi trovo a cercare la sua mano. Esito, ma poi la trovo. Molle, fredda. Mi rivolge un sorriso di alabastro che è metà abitudine e metà pietà e questa è la parte peggiore che mi trapassa come una spada di indifferenza.
Il silenzio nel teatro mentre il brano trova sentimenti appesi nell’attesa è perfetto per questo tocco gelido.
Ci separiamo, arriva il finale, gli applausi, i bis, un concerto stupendo.
Lo speaker del teatro ci aveva sorpreso, quando dopo averci ricordato di controllare lo spegnimento dei cellulari, ci aveva regalato l’unico vero sorriso sincero.
Siate felici‘. Da dove saltava fuori quell’esortazione? Era rivolta a noi?
Me lo chiedo. Sarò felice?
Forse. Non più con mio marito.

 

straight outta myself


(you’re now about to witness the strength of street knowledge)

socEcco, in questo momento, nell’88, stai ascoltando questa canzone che iniziava con un avvertimento che veniva dall’altra parte dell’oceano. Per te, che sei me nell’ormai lontano 88, quei primi versi aprivano una porta su una musica nuova, sulla tua personale idea del ‘sogno americano’.

Bé, te che sei me: sappi che dopo ventisette anni è uscito un film che parla di quel gruppo che scriveva rime per inseguire il proprio sogno, per lasciare un segno, una testimonianza. Un film che dice come quel sogno non era tanto un sogno, ma tu lo sapevi, perché sei sempre stato diligente nelle tue passioni. Traducevi i testi e cercavi sui giornali ogni notizia sull’America del ghetto che ascoltavi, ma in realtà non avresti mai avuto né l’attitude né la grinta per sopravviverci.

In questo momento nell’88, giri coi tuoi amichetti a fare un po’ i poser di provincia coi cappellini, i bomber delle università US, rubando gli stemmi della VW perché avete visto dei video (bravi, siete dei coglioni, ma quante risate incastrate nei ricordi, anni dopo).

Anche nel 2015 i ragazzini vanno nei cinema italiani con una parvenza di attitude e fanno del casino scimmiottando (male però, senza la minima conoscenza, ovvio, di un tempo troppo lontano) il gangsta rap. Me l’ha detto il gestore del cinema che ha avuto un problemino l’altra sera con ragazzotti che sognano troppo le gang ma son solo capaci di fare casino.

(Ah sì, spoiler, caro me dell’88. Il tuo sogno americano si è infranto sulla realtà e su una decisione sbagliata, rivista col senno di poi, ma non ti anticipo niente, lo vedrai coi tuoi occhi).

E il film com’è?

Niente di che. Adesso hai 45 anni e ti gasi ancora quando parte quella base che fa ‘ye-oh‘ e poi scatta Ice Cube e sputa ‘straight outta compton‘, proprio il pezzo che stai ascoltando tu adesso sul vinile, e 27 anni dopo fai ancora (e sempre) la ‘mossa’ di una mano che si abbassa di scatto a sottolineare la strength di un testo che al tempo capivi ma non vedevi.

A parte questo gasamento/madeleine adolescenziale, il film è un biopic musicale piuttosto standard (il cinema ti piacerà sempre, tranquillo) di ascesa e caduta, con una buona dose di musica e con appiccicati un po’ forzatamente dei ‘post-it’ su come i rapporti fra le minoranze e la polizia non siano così migliorati.

La situazione socio-politica che ti incuriosiva quando non c’era internet (oggi c’è questa cosa, ti piacerà molto, sallo) sembra molto cambiata ma è ancora problematica e quella canzone che ascolterai per nove mesi durante la naja pare essere ancora molto attuale in molti quartieri americani. Fuck tha police.

Magari mi aspettavo di più anche perché… non so se dirtelo, ma si può intuire: gli NWA erano troppo grossi, non potevano durare tanto, erano la miccia che innescò tanta robina che ascolterai. Molti eventi non te li posso raccontare perché per te nell’88 devono ancora accadere e comunque sì, come finisce un film non ti piacerà sentirtelo dire nemmeno oggi.

Al cinema eravamo in due in sala, figurati. I distributori han fatto questa pazzia di buttarlo fuori in programmazione normale mentre andava proiettato in lingua originale e in poche serate, dedicate a chi era interessato a una cosa del genere. Oh, ti annoio? Guarda che tu a diciotto anni spenderesti la tua paghetta settimanale per vedere un film del genere…

Oggi, nel 2015, vedrai il film, alla fine ti piacerà abbastanza, non ti rimarrà in testa per più di un paio di giorni, giusto il tempo di farti venire in mente di scrivere una lettera al te stesso diciottenne. Chissà se ne sarai contento. Man, that shit wasn’t so dope, but quite ok.

Ps.: ah, il rap non ti piacerà più così tanto, anzi diventerà una scelta molto secondaria nei tuoi ascolti, ma non ti preoccupare, il meglio te lo sei preso anche se tuttora c’è robina gusta.
Ps2.: ah bis, dopo il film andrai a prendere un caffé al bar e parlerai con ragazzi ventenni che non hanno la minima idea di chi sia Dr.Dre o che ci siano state rivolte a LA nei Novanta, ma staranno pianificando di andare a un festival di elettronica. Già, in questi anni l’elettronica funziona parecchio e tu… non te lo dico, basta spoiler, bro…