#Baffodoro20

Sabato sera ho avuto il piacere di introdurre una band di amici che hanno organizzato una festa per festeggiare il loro compleanno, vent’anni di attività, di canzoni, di concerti, di sbaffini. Prima del loro set ho letto un testo scritto cercando di restituire in parole la loro storia, per come la conosco, cercando di seguire il ritmo della loro musica, in maiuscolo i titoli delle loro canzoni.
Però la cosa più bella, più importante di quanto ho scritto e letto io, l’ho vista durante la festa, mentre cenavo, parlavo, ascoltavo le altre band venute a fare festa, mentre aspettavo con un po’ di tremarella di salire sul palco.
Questa piccola band e i loro amici, non più solo ragazzi ma uomini con figlie e famiglie, in vent’anni hanno non solo suonato ma anche cementato un gruppo di amici e di persone che si trovano e si abbracciano. Si abbracciano da sobri e anche da sbronzi e niente, una serata con così tanti abbracci dati e ricevuti, sinceri, calorosi e lunghi e abbracciosi, era un pezzo che non la vedevo ed è stato molto bello.  

Il sogno era lì, davanti a loro.
Una fotografia 60×40, sovresposta, il charleston chiuso e l’asta che brillava di riflessi argentati in primissimo piano. Dietro, la figura del cantante, sfocata, immersa in una nube di rosso e, cos’era, fumo? Probabile.
Il futuro, in quella foto, in un piccolo locale che adesso non c’è più perché torna tutto ma non tornano i locali dove le band alle prime esperienze potevano esibirsi, esaltandosi, pure vergognandosi.
Era il millenovecentonovantotto e una novità spuntava nel sottobosco della piccola ma florida provincia emiliana che produceva band a tutto spiano, come un’officina delle note.

I BAFFODORO.

Un nome al sapore di birra e ritmiche precise, arpeggi, tre chitarre che si inseguivano lente, a tratti storte, a volte un morbido tappeto e poi lampi, inseguendo inquietudini, in oscure trame strumentali.
Il primo Ep era immerso nella NEVE.
Le basi: una lontana band di Glasgow, un pugno di reminiscenze americane, un tale di nome VEDDER e quelli come lui che a distanze di oceani parevano unire la musica e quella cosa che di solito si chiama amicizia.

La base: due parole, precise, secche, fin troppo ribadite, diventate scontate e inutili come molte definizioni.
Post Rock. Dopo, Rock.
Canzoni lunghe come gestazioni, percorsi DAL COMPARTO VUH, abbaglianti e oscuri, a seconda di come va, di come stai tu, che ascolti, che batti il piede, che ricevi un’immagine dal palco, quel palco che forse non c’è più e poi la rigiri, quell’immagine, magari per arrivare all’ESTASI DI MATHIAS RUST oppure ti fermi, tremolante come dopo avere fatto un bagno nel mare di novembre, aspettando un’AURORA che possa rischiarare tutto.

Ma prima, ricordi? Una conversazione.
Lui disse, “Lo riconosci il futuro? Dove saremo? Quanto durerà? Porteremo ancora questi cappelli? Avremo sempre queste facce? Sopporteremo le nostre rughe?”. L’altro rispose…chissà cosa rispose, probabilmente suonarono qualcosa come risposta a domande troppo impegnative.

E ancora, ricordi?
Quella foto. Tre teste piegate sugli strumenti mentre il sole se ne va, stanco mentre lascia una marmellata arancione all’orizzonte. Sarebbe da fermarsi ad ammirare, forse a pregare qualcosa, ma quelle teste non si fermano, restano, incuranti del buio che le assorbe, tanto le note saliranno, lasciandosi alle spalle molte cose, sottolineando momenti e CHE FELICITÀ NEI GIORNI DI FESTA che sono i concerti, dove la musica a tratti sembra un pretesto per tornare insieme, in gita con accompagnamento di chitarre, mentre fuori LE NUVOLE CORRONO VELOCI.

E ancora, sì, certo, ricordi?
Quante immagini di viaggi che sono stati esplorazione, mentre visitavano luoghi lontani, notti in tenda, in treno, in van ammuffiti, assimilando panorami e lasciandosi ispirare da racconti, leggende, articoli, conoscendo nomi mai sentiti, DAVID HOLM che salvò la sua anima, PHILIP KERKHOF che attaccò lo squalo, anche se le canzoni, senza testo, a volte vorrebbero spiegazioni, sottotitoli, ma poi, perché? Chi l’ha detto? C’è davvero bisogno di istruzioni, oppure, basta la musica e una raffica di fotografie attaccate a un muro a prendere polvere, a indicare una via, una vita comune?

E poi, accaddero PICCOLE RIVOLUZIONI, una voglia di crescita, la matrice sempre quella, canzoni con il cappello di lana, con il vento in faccia, guardando l’oceano, come a MILTON MALBAY. Raffiche distorte, pacata melanconia, momenti astratti come un dipinto di KANDINSKY, una piccola vena culturale, rigore formale ma, suvvia, qualche concessione pop su lunghe trame dove trovare la tua sensazione, dove puoi scegliere il filo con annessa lampadina e vedere dove ti porta, scegliere il battito che ti si addice, prendere la melodia da succhiare all’esplosione di riverberi, da fischiettare il giorno dopo, incollata da qualche parte nella memoria.
Vent’anni, e circa ogni quattro anni, una manciata di canzoni per proseguire quella conversazione partita da lontano.

E piccoli battiti, chitarre che incontravano soluzioni diverse, incontri che rifinivano la proposta, arpeggi e violinismi, FOSCO che disegna la copertina, ‘A VAGG’’, mentre fuori l’autunno era invadente ma non riusciva a vincere, raccolti in un casolare, le canzoni un’accorata preparazione per difendersi dai morsi dell’inverno che stava arrivando.

Tutto questo: un magnete, un mastice. Fatto della sostanza labile eppure solida della musica, del ricordarsi gli intrecci sonori e quelle foto appese ad una parete che non prendono solo polvere. Creare un FLUIDO70, nuotarci dentro, a volte annaspare, come in certe trame musicali, a volte esplodere, ma sempre per tornare, purificati come IL FIGLIO DELLA TEMPESTA.

E adesso: riguardale le foto.
Le vedi ferme, come quella là, quella immersa nel rosso.
Eppure se guardi bene nel corso dei vent’anni, vent’anni, li riconosci, si muovono piano ma si muovono costantemente.
Gambe che ondeggiano con le chitarre, piedi che premono pedali, capelli che svolazzano, ciuffi che cadono, gomiti che si piegano graziosi, bocche contratte, sguardi rapidi in occhi conosciuti, un inchino finale, intrecciati di sudore, applausi e infine, una, facciamo due, birra per tutti.

E, infine.

Le memorie di vent’anni possono confondersi, cambiarsi, modificarsi. Diventare epiche, modeste, sempre le stesse ma trasfigurate, come immerse in una BRUMA, che le rende instabili, incostanti, infine mutevoli.
Quello che conta, in fondo, è che dopo vent’anni, vent’anni, ci sia ancora uno scintillio nell’asta della batteria, un ragazzo davanti a un pubblico, squarci di passione che tracimano dalle chitarre e questi amici, ancora a sognare, ancora a suonare.
Ancora.
E nuovi titoli. E altri chilometri.
Per allontanarsi, per poi non perdersi.
E ritrovarsi. Ancora qua.
Ancora vent’anni e poi altri anni, fino alla BUIA LUCE che ci inghiottirà mentre la musica e tutto il resto, rimarrà.

Signore e Signori, ‘BAFFODORO’.

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