Palco n.25 OR.1/D

Quest’anno mi son tolto, con un piccolo sacrificio economico, uno sfizio. L’abbonamento alla stagione dei concerti al teatro cittadino.
In una parola: figatona. Era già tre anni che ci pensavo, andando saltuariamente ad assistere a vari concerti e quando è uscito il calendario che presentava la stagione, con il pianoforte solo o solista come strumento principe, non ho avuto esitazioni.
Posto palco, quasi principesco oserei.
Premettendo che andare a sentire i concerti a teatro è bellissimo e son sempre sorridentissimo prima durante e dopo, premesso ancora che sono un ignorante colossale in materia di musica classica, ignoranza che spazia dai nomi dei compositori alla lettura corretta di una partitura, inizio una specie di diario tutto mio (*) sulle serate nel palco prinicipesco.
Accomodatevi, le poltroncine sono di legno, rivestite in velluto rosso.
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Navigar mi è dolce in questa ‘motion capture’

Ero curioso di vedere questo film nonostante il personaggio fosse solo un polveroso ricordo di strisce che non mi entusiasmavano da ragazzino e la tecnica anticipata dal trailer si accoppiasse a un paio di ricordi di esperienze cinematografiche non proprio entusiasmanti (no, il Gollum era figo, intendo quelli di Zemeckis). Poi, durante la visita a Londra ogni bus indossava la pubblicità della pellicola aumentandomi l’hype, ricordandomi sempre di quell’immagine del trailer (sorry, SIAE la multa non la voglio, niente link) che aveva colpito la mia fanciullesca immaginazione. Una nave che solcava onde di sabbia.
Così ieri sera son subito andato. Per motivi già esposti, boccio il 3D e spero però nella proiezione in sala grande. No, nella sala grande c’è la solitaYAWNcommedia su amorazzi italici. Pazienza. E poi, via. Le speranze son state ben riposte.
Tin Tin‘ è un gran bel film. E’ per ragazzi certo ma credo possa divertire di più gli adulti. I personaggi sono tutti ben delineati dove il meno brillante è forse il protagonista principale. Complimenti al pard-cane, ai gemelli poliziotti e a tutti i caratteri che il nostro incontra nella sua investigazione. La sceneggiatura affidata a califfi inglesi prende fortunatamente una matrice europea ed è molto buona riuscendo ad unire la classica storia di inseguimenti e rincorse a un ‘tesoro’ a molte situazioni comiche condite da qualche ammiccamento di gran classe.
E, soprattutto, la tecnica utilizzata permette a Spielberg di sperimentare divertendosi e facendo divertire lo spettatore con un movimento continuo della macchina da presa che scivola sul profilo morbido dei paesaggi (a proposito, dopo venti minuti non si pensa quasi più a come è stato realizzato il film e questo è un gran pregio) entra nelle cose, cambia prospettiva, rimbalza in posti impensabili, accompagnata da notevole senso dell’avventura, momenti divertenti, a memoria almeno due citazioni da altri film avventurosi di grande successo e la lunga scena dei ricordi del capitano che è memorabile e si mangia intere produzioni seriali di film picareschi in un amen.
Tutto a un ritmo forsennato. Titoli di testa ottimi, inserimento nella pellicola dei personaggi da manuale, commento musicale perfetto. La nave che solca il deserto è davvero uno sballo e non vedo già l’ora di vedere il sequel.

Bon Iver, Hammersmith Apollo, London

Metti una mattina a scrivere su twitter ‘Mannaggia, Bon Iver non viene in Italia’.
Metti che un’amica che vive a Londra scrive una mail. ‘Però qui viene‘.
Metti che dopo due giorni abbiamo i biglietti.
Passa l’estate, cambiano un paio di cose, arriva ottobre e poi arriva lunedì sera.
Hammersmith Apollo. Un posto storico. ‘Ci ho visto Bruce qua‘. Un teatro antico che ha visto le leggende. Mi avvicino con emozione. Ci sono bellissimi italiani che vivono bene a Londra a farmi compagnia. Entro quasi con timore. Il tappeto per terra come un simbolo nobile. Tanti giovani, una birra per tutti. Chiacchiere nell’attesa. Opening act trascurabile. ‘Se fossi un discografico non le farei mai un contratto‘. Ben detto.
Eccoci. Ci siamo. Un po’ in ritardo e arrivano.
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Mind the gap between ‘farneda’ and the city

Cinque giorni a Londra. Zero gocce di pioggia prese. Preso in compenso un maglione di lana spessa, torcigliosa e hipster. Ventiquattro stazioni del Tube in cui ci si è fermati. Bevuto del classico Earl Grey, cinque pinte inglesi ma anche due Peroni e soprattutto succhi d’arancia freshly squeezed buonissimi e da berne galloni.
Londra è bellissima e i miei polpacci urlano ancora di chilometri macinati. C’ero già stato tanti anni fa. Dicono sia cambiata, credo sia vero.
Andando verso la cittá ci sono sobborghi che dal sedile del treno sembrano essere agglomerati di case tutte uguali coi tetti spioventi e color del carbone avvolti in una macchia verde di grossi alberi.
Il primo panorama si fonde col  viso riflesso sul vetro del treno di una giovane rossa di capelli simile alla protagonista del ‘petalo cremisi‘ , fuori il cielo è classicamente grigio ma non piove.
C’è fresco nel quartiere, con chiese imponenti che si affacciano sulle strade e la squadra di calcetto fuori dal pub col gallone ancora in tiro, già una pinta in mano, i parastinchi e una felpa talmente leggera da risultare ridicola per il  nostro freddoloso DNA.
E poi.
Londra è tutto quello che avete già letto, soprattutto è come tutti i posti dove si posano gli occhi provinciali (*) di uno come me.
Ci vive un’amica, mi ha portato a mangiare cucina ‘thai’ super buona e a un concerto strepitoso.
E’ una briciola di stupore dietro ogni angolo, dove il cielo fa da trait-d’union fra vicoli da polveroso romanzo vittoriano e scintillanti grattacieli che ospitano un mondo contro cui un altro mondo protesta facendo chiudere la cattedrale che volevo tanto vedere.
L’altra cattedrale, quella monarchicamente famosa, è invece sempre aperta. Quasi come la metropolitana, vera gioia per dubbi di percorso all’ultimo respiro, pubblicità di teatri (segnato, prossima volta) e pubblicità video che non dovrebbero stupire all’epoca in cui tutti – quassù, davvero tutti – sono in ‘mobile‘.
Panorami di serialità ‘brit‘ escono da ricordi di visioni notturne e si confondono con la realtà come una chiesa in cui sicuramente c’è un ‘Rev.‘, una strada fra ‘Upstairs‘ e ‘Downton”, una banda di ‘Misfits‘ appoggiati a un muro e ‘Sherlock‘ che torna ad uscire di corsa da un pub per inseguire un sospetto.
E poi.
I parchi con l’erba tagliata al millimetro, respiro per viandanti stanchi. Le cancellate maestose e i negozietti. Ragazzi allegri, moda e stile che tracima da ogni posa e locale, i look curati all’incrocio tra il preppy, il trasandato e il particolare intellettualoide (l’occhialone nero, la riga da una parte, la stringata college… The Eighties are back – for those who weren’t still born then…) che non manca mai. Calzoni con risvolti, camicine, canotte fuori stagione e FlipFlop vs. Ugg, in un inizio di autunno che per l’inglese medio è (quasi) ancora estate.
Sulle vie del commercio non si entra nei negozi ma si cammina naso all’insù, si guardano i palazzi e le luci. Poi si gira ancora. Ci sono gallerie da esplorare con occhi scintillanti di meraviglia per dipinti e manoscritti conservati in luoghi pieni di storia e di un rispetto per la cultura a cui non siamo molto abituati.
E poi. Ancora su e giù decifrando per gioco occhi di mille razze e distruggersi i piedi quanto più possibile, consumando le scarpe a caccia di bellezze e particolari che si trovano quasi ovunque. Sono dietro ogni angolo, di fianco ogni casa. Basta coglierli in un lampo di grazia che sia un viso stanco riflesso in un vetro o il sorriso gentile e imbarazzato di una cameriera pallida che per poco non ti sbatte la porta contro e poi dice in un sussurro rotondamente accentato  ‘Sorry‘.
Londra è bellissima, ma l’ho già detto.

(*) il riferimento è al titolo del post, una frase che è stata un po’ la gag tormentone della vacanza ispirata dal gracchiare dell’avviso a ogni uscita della metro. Mentre Farneda (respect) è un posticino sulle colline, in provincia di RE, naturalmente agli antipodi con la ‘city’.

Si ringrazia per la ‘sezione style’ del post, e non solo, la sorella compagna di viaggio. 

Pirati e cheerleader

Il migliore panorama della cittadina è al termine di una corta via di ciottoli. C’è un palazzo con architettura nobile e storia importante che si affaccia sulla piazza col nome del fiore più conosciuto. Gli abitanti la chiamano ‘rocca’. E’ ora di pranzo e solitamente il pavè del piazzale è solitario ad accaldarsi nell’attesa di visitatori, in un pomeriggio di ottobre inoltrato che è ancora giorno di fine estate.
Un’umanità varia riempie la piazza. E’ un giorno speciale, sembra un carnevale a tema, fuori stagione. Occhiali da sole e magliette corte si accoppiano a giacche orlate di pizzo, cappelli con le piume e copricapi da marinai. Tatuaggi temporanei di teschi dipinti, bandane minacciose, gambaletti e stivali segnati dal passeggiare su putride tolde di navi stanche dopo approdi difficoltosi ma resistenti alle intemperie non solo climatiche. Arriva un manipolo di ballerine che si fondono agli altri figuranti in un flusso di diversità anarchica. Un salotto vintage con mobili recuperati da un sitcom anni settanta, una batteria col simbolo esplosivo di una banda, una sedia a forma di cuore, teli verdi e simboli picareschi compongono la scenografia di quello che sta per accadere.
Ci si imbarca tutti in quello che diventerà a breve un vascello immaginario, mentre intorno la piastrella valley prosegue la sua vita quotidiana, ignara dell’occupazione picaresca della sua piazza simbolo.
Si gira un video di una band storica della zona. Il brano è un omaggio esplicito a un cantautore che cantava di uncini e Peter Pan, tanti anni fa. Un chitarrista arpeggia ingannando l’attesa mentre si predispone il set. Sulla tolda il regista confabula di strategia coi suoi assistenti. Tutto intorno si chiacchiera in attesa. Un bimbo riceve in regalo un assolo di violino, un gruppo di anziani applaude al tempo di un improvvisato canto popolare.
E’ tutto pronto, ora. Si va.
Eccoli i menestrelli in posa. Eccole le macchine da presa che si mettono a fuoco. Eccoli i figuranti che si improvvisano carpentieri con sagome di polistirolo a costruire una stanzetta al centro della piazza da dove partirà la visione del regista. I pedoni son sul campo, la scacchiera ha i pezzi pronti, la ciurma è pronta. Il regista impugna il megafono, pronto alla pugna.
La musica? Vai con la musica.
Il  cantante capitano rischia di naufragare sulla terra ferma, fra brutta tivù, bevute di poco conto, noia impenitente. Esce per trovare fedeli seguaci che lo rivestono di giacche e comando. Passa poi a raccogliere i suoi bardi suonatori, filibustieri di lungo corsi armati di strumenti a corde. Hanno i capelli argentati di corvina resistenza alle mode, suonano una melodia con passo tzigano e ritmo che ricorda palme caraibiche, in una fusione di generi che solo chi ha solcato profondi mari può permettersi.
Le comparse ciondolano la testa seguendo il tempo mentre il mucchio di pirati inizia il loro viaggio intorno all’isola che oggi c’è ed è racchiusa in  quattro mura storiche pennellate di colori pastello sotto un cielo gentilmente azzurro.
Incontrano una coppia di freschi sposi, si aggiungono altri componenti della banda mentre giocolieri ricamano disegni di seta nell’aria e mangiafuoco scatenano bolle di passione in un lampo di divertimento d’antan in contrapposizione ad acrobatiche cheeleader che inneggiano al nome della banda.
Il corteo musicante attraversa il tempo e gli stili al ritmo incalzante che è già mandato a memoria. Incappano in un gruppo di emigranti wannabe con valigie di cartone, per finire a suonare il loro ritornello trascinante in un palco improvvisato, in una sosta dopo il primo giro di rum e ritmo.
Non c’è tempo per fermarsi, il regista segue ed insegue il corteo in una camminata in punta di steadycam, dirigendolo verso nuovi porti da toccare nel viaggio. E allora si continua.
 C’è  un teatrino di rane che sono marionette per aprire la seconda parte del girotondo picaresco in quattro quarti di tempo, strofa e ritornello a comporre un gioco di citazioni. Fra rimandi a fiabe e suggestioni di avventure lontane il cantante capitano incontra donne con uncini e curve, sirene che lo distraggono mentre intorno a lui si scatena una rissa di marinai rivali che si affrontano in uno sciabolare di spade, prima di arrivare ad un palco dove son schierati i componenti di un coro. Potenti voci inappuntabili in farfallino e giacca con stemma ricamato mentre le signore vocalizzano in giacca turchese e bottoni madreperla.

Tortuga! Tortuga!‘ cantano con voce tonante, quasi un ordine, un richiamo che spinge la banda di pirati a suonare al largo, marciando verso il mare aperto al centro della piazza dove incontrano zingare perdute in un sabba di arti scossi dal ritmo. Son vestite di stracci marroni che si agitano come bandiere al vento, circondano il capitano prima di sparire come un miraggio nel deserto.
Fuggono, mentre la fila si è serrata, il capitano arringa la ciurma per l’ultimo arrembaggio, facendo un passo indietro per entrare nella cornice di una ripresa acrobaticamente aerea.
Gli abitanti dell’isola che oggi c’è, un gruppo improvvisato di varie estrazioni ma che unito veleggia ovunque, fin sul tetto del mondo, compaiono alle sue spalle, aprendosi come un ventaglio gioioso in quattro passaggi di una breve ma intensa coreografia che apre la piazza al messaggio.
Sul finire della melodia, prima che sia notte, arriva anche la banda, come nei più classici e veri giorni di festa.
Suonatori in completo bianco e giacche blu solcano il mare di ballerini improvvisati, potenziando in un bonus di fiati il suono della riscossa che si espande libero nella luce serale.
Il ritornello è sempre quello, urlato dal coro ancora presente al fianco della truppa mentre la coreografia vola, le braccia si alzano, i sorrisi si stampano su volti stanchi ma soddisfatti in un ballo di gruppo con tutti i pezzi di un puzzle improvvisato che si incastrano precisi.
I pirati son tornati.
E viva Tortuga!

(grazie al regista per l’ispirazione e al team dell’ Ozu Film Festival per le foto e per questo weekend di cinema, corti e pirati)

UPDATE: finalmente, eccolo!

Posologia Cinematografara (tre film in quattro dì)

Tre film diversissimi fra loro, in quattro giorni. Osservazioni sparse, occhio a piccoli spoiler. In ordine di visione, via:

Jimbo & Primati 
Ho visto il reboot, remake, restart, prequel, sequel, alternatetake o quello che è dell’ennesima operazione dell’Hollywood senza idee nuove.
Non è brutto ma è un film che non mi interessava prima, non mi ha interessato durante e non mi interesserebbe nemmeno dopo. Sono andato perché bisogna sostenere il cinema del paesello (quando non programma orrende commedie italiche) e perché me l’aveva caldamente consigliato il mio antagonista cinematografico, un amico con cui siamo in disaccordo totale su ogni film che vediamo. Se il film mi piaceva, tutto di guadagnato, altrimenti altro capitolo dei nostri scontri verbali.
Nel film c’è James Jimbo Franco che è sempre uno dei miei preferiti ed è sempre pucci *. Poi c’è un’attrice indiana che non c’entra niente ma è molto bella, c’è John Lithgow che fa l’anziano malato, ci sono effettacci che poi diventano effettoni, c’è la multinazionale che ovviamente è brutta e sporca e profittatrice e cattiva e c’è un siero magico. Insomma un bel po’ di cose che fanno pochissimo per scrollarmi di dosso la noia di una storia già nota, incluse implicazioni sociali e sociologiche abbastanza innocue e incollate alla vicenda.
Poi le scimmie finalmente si incazzano che l’uomo è cattivo e pure questo si sa e da lì il film punta tutto sull’azione e diventa un po’ più divertente. Solo un po’ perché poi, ovviamente, si sa già anche come finisce poiché ne han già fatto quattro di sequel in un cortocircuito temporale, questo sì abbastanza divertente. Quindi, al netto di un finalone spettacolare, Jimbo Franco e di A.Serkis in formato scimpanzé digitalizzato, della mia idiosincrasia ai film con gli animali (a meno che non siano PUCCI anche loro), il film rimane un discreto prodotto di entertainment (leggi anche: fa il suo dovere) ma resta un film molto dimenticabile.
* = due giorni fa, alla stesura del capitoletto ‘scimmiesco’ c’era il link alla pagina di wikipedia con la spiega del termine per i due che non lo conoscono. ora ‘wiki’, per colpa di una proposta di legge dannosa alla nostra salute, si è autosospesa, facendo benissimo. se non conosci ancora la storia, leggi il comunicato, è istruttivo e deprimente.  

Lettino con frustino
L’incontro dialettico e di personalità fra due delle menti più brillanti della piscoanalisi parte da buoni presupposti di curiosità per la materia trattata e di cast ma risulta essere una discreta delusione. Probabilmente questo giudizio sommario è dovuto anche alla mia ignoranza della materia di cui è costruito il film. Non sapendo nulla di psicologia e non avendo visto tutta l’opera di Cronenberg, credo sia difficile, potere giudicare effettivamente la pellicola.
Colpa di una freddezza sotterranea, di un distacco quasi accademico nello svolgimento della storia che risulta poco coinvolgente, come se le diatribe ideologiche e gli avvenimenti a base di tradimenti non solo intellettuali, rimanessero sullo schermo ad ornamento di interni e costumi eccellenti. Anche i dialoghi non sono quasi mai davvero brillanti o, ripeto, non ne ho colto la brillantezza per deficit personale.
L’unica battuta che ricordavo all’uscita è quella pronunciata sulla nave, come una porta su un possibile film che non vedremo mai (in due parole, i ‘danni’ dell’eccesso di psicanalisi sull’uomo moderno). Rimane un film spaccato a metà con uno scontro di personalità che non riesce ad appassionare e una storia di amore che risulta più efficace grazie soprattutto alla pallida Keira, il lato ‘passionale’ del triangolo psicanalitico che se all’inizio esagera nella caratterizzazione poi si carica del ruolo più complesso uscendone meglio dei due attori, forse troppo maschi e arrotini per essere credibili nei ruoli.
Ahimè, troppo poco per un film che promette molto puntando su temi forti ma rimanendo colpevolmente in superficie e soprattutto rischiando di annoiare lo spettatore. Potevano forse uscire di più dalla teatralità (il testo da cui è tratto fu scritto per il teatro) e sporcarsi le mani che noi pecoroni si era pronti a farci illuminare sulla strada della psicanalisi, e invece, no.

#ilfilmdellanno
Erano settimane che il mio piccolo mondo web ribolliva di attesa. Prima nei giorni di Cannes, poi dal giorno dell’uscita nei cinema su twitter è stato un lungo continuum di hashtag positivissimi che piovevano in un tornado di approvazione estasiata.
#filmdellanno #capolavoro #OMG #ryangoslingseidio #refnnuovogurudelcinema #awww #robagrossa.
Posso solo confermare che è tutto vero. L’hype non sbaglia sempre e sto giro ci ha preso in pieno.
Drive‘ sembra un film anni ottanta, ha i titoli in rosa shocking, i guanti in pelle, un giubbotto di raso con uno scorpione decorato che dovrebbe diventare il ‘must have‘ della stagione (ma ci accontenteremo di rispolverare il caro vecchio giubbotto di jeans) ed è sottolineato da un accompagnamento di sintetizzatori nuvolosi con aggiunta di shoegaze nella colonna sonora. ‘Drive‘ ha un cast calibratissimo di espressioni contenute ma di grande profondità in una sceneggiatura di poche ma pe(n)santi parole, tutto guidato da un occhio registico raffinato e di notevole eleganza. ‘Drive‘ si appoggia al muro con classe e una semplicità disarmante, ha squarci di luce nel buio di una violenza esplosiva, seguendo il suo ritmo pacato e guidando in una città enorme, luminosa di notte e accecante di giorno in una serie di sequenze che fin da subito entrano nel palmares delle citazioni doverose. La scena dell’ascensore, per dirne una, facile.  ‘Drive‘ è scandalosamente romantico, sorprendentemente violento, preme sul respiro dello spettatore con mano gentile ma ferma, si mette in posa ma può permetterselo ed è soprattutto un vero, grande western contemporaneo con bonus di eroe solitario e perfetto.
Per una volta, davvero, fidatevi. Questo è un filmone, davvero bis.