I primi minuti ammaliano. Sono un manifesto, pieno di dolly, rigore e metafore, di come sarà il film, di bellezza e bruttezza che si fondono.
Il, tanto, resto, è la narrazione in micro ‘capitoli’ della vita di Gep, profeta mondano con terrazza sul Colosseo, sessantacinque anni, vestiti di sartoria da dandy elegante, sbarcato da una nave crociera su un’ isola che non c’è, lingua precisa e tagliente, modi da galantuomo, come il tempo che gli scorre accanto nelle sue passeggiate attraverso la capitale.
Visivamente è bellissimo, il senso della storia si nasconde nei capitoli, a volte mi son chiesto se son stupido io a non aver capito al volo certi passaggi o se sia stupido impegnarsi a decifrare troppo qualche momento di (apparente?) intellettualoidismo.
A volte la narrazione è pretenziosa, quasi irritante, forse a volte lo è pure la geometria e la bravura nel piazzare la macchina da presa del regista.
Ci sono strizzate d’occhio al cinema, legnate alla società, momenti di pura commozione, finestre aperte sull’Italia, serrature da cui sbirciare questioni troppo grandi, ma è sempre un attimo, poi si volta subito pagina per cambiarsi d’abito, cercare altra bellezza, restare intrappolati nella bruttezza, dipende.
Ci ho messo un po’ a capire se mi era piaciuto, ma avrei voluto rivederlo subito dopo. Un pregio, indubbiamente. Forse la chiusura del post sarebbe quella di scrivere una riga per dire dove sta, davvero, secondo me, la grande bellezza, ma sarebbe pure un mezzo spoiler, quindi chiudo qua.
Dolly ad uscire, andate a vederlo, poi ne riparliamo, probabilmente è un grande film, ma non l’ho ancora deciso.
Ps.: il film, ovviamente ambientato a Roma, è pieno di ‘romanità’.
Graditissimo, e romanissimo ospite del blogghetto, l’amico twitterz ‘fiumerosso’ dice due cose sul film, dal punto di vista di un romano…
Roma n’è così.
Quella ndo vivi tu, ndo vai a lavora’, ndo te vai a diverti’ e quella che te fanno vede ar cinema, so du’ Rome differenti.
Armeno dopo Pasolini. Prima era diverso. Prima armeno s’assomijavano. Anche perché prima a Campo de’ Fiori ce vivevano i poracci, mo nun te bastano tre vite pe’ compratte ‘na cantina da quee parti.
E ‘La grande bellezza’ è così. Parla de ‘na roma che tu nun vedrai mai. De colossei visti dall’arto, de giardini vaticani visti dar basso, de palazzi storici visti da dentro.
‘Na cosa però la vedi tutti i giorni: quaa luce.
Quaa luce gialla e rossa.
Quaa luce che se passi a roma e te ce ‘mbatti…nun te la scordi.
E dentro ‘sta Roma silenziosa, senza traffico, senza gente, senza gnente, ce se movono ‘sti poracci, ‘sti falliti: chi cor culo de fori, chi co’ le zinne rifatte, chi co’ la fede smarita, chi co’ sto grande successo scritto ‘na vita prima e mai più ripetuto.
E c’è chi cerca de usci’ da ‘sta tragedia umana guardanno le bellezze eterne de ‘sta città fantasma, de cui se lamentano tutti ma della cui decadenza so’ i primi a esse artefici (“Roma m’ha deluso”).
Er futuro appare nero, l’occhi stranieri nun so’ più boni a stupisse de gnente (“Ho visto piazza Nvona sotto la neve. Era bianca”), l’amicizie nso amicizie, e la bellezza pe’ chi la sa vede’ è l’unica luce in fondo ar tunne (“Io e te non abbiamo ancora fatto l’amore? che bello, c’è ancora qualcosa di bello da fare nel futuro”), i mafiosi se mischiano co’ l’intellettuali, i cardinali attaccano le pippe, le donne sfatte dall’anni se pippano pure i fornelli der gas, le madre terese de carcutte te rimannano ar paese a ritrova’ te stesso (“Mangio le radici, perché le radici sono importanti”).
Sogna er mare, sogna. Roma è fatta pe’ sogna’.
Ma er mare, pure se ce stanno li gabbiani, te lo devi immaggina’.