Piano, solo (II)

PARTE SECONDA – SONATA PER DUE

Uno
Sono al secondo livello dei palchi, lato sinistro. Nei teatri la tastiera del piano è sempre rivolta verso sinistra guardando il palcoscenico. Ci sarà un motivo ma  qui non lo troverete. Ergo, da un palco sulla sinistra vedi le mani. Vedi  l’unica cosa che si muove di un pianista, a parte qualche ricciolo scomposto che va in levare seguendo il ritmo “allegro” e i piedi sui pedali, ma questo non sempre. Vedi come quel signore rumeno arriva, serissimo, guarda un secondo  il pubblico, accenna un inchino ingessato in una giacca scura troppo lunga, si  siede, mette le mani tre centimetri sopra i tasti, come a cercare una connessione, una comunione in quello spazio fra corpo e tasti di madreperla di  un lucente Stainway&Sons nero.
Niente spartito, quando mai. Quattro  secondi e, via.
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Piano, solo (I)

PARTE PRIMA – INTRODUZIONE

Per me questi cazzo di anni zero (cit.), un significato, almeno dal punto di vista musicale, ce l’hanno.
Dev’essere stato proprio all’inizio dell’anno duemila che timidamente mi sono avvicinato alla musica jazz. Il rock si era esplorato in lungo e in largo e naturalmente non si è abbandonato. Funk, blues, il famigerato generone indie, check, check, check. Sarebbe bello, fosse vero, scrivere che il primo disco di musica jazz che ascoltai fu “A love supreme” di Coltrane e me innamorai. No. Lo ascoltai, vero, ma ci capì ben poco allora. Non ricordo quale fu il primo disco jazz. Ricordo che il primo approccio fu da completo ignorante in materia e da totale autodidatta. A simpatia, a caso, cercando a tentoni nel enorme repertorio del genere, iniziai ad ascoltare qualche mostro sacro e ad assistere a qualche concerto. Mi piacque fin da subito la formula del trio classico. Piano, contrabbasso, batteria. Naturalmente è lo strumento a coda ad essere l’attore protagonista di questa formazione. Un bel dì incontrai nei miei ascolti un pianista americano che nei suoi dischi osava proporre cover di brani rock di successo con una spiccata predilezione per i Radiohead. L’incontro fra il piano di Brad Mehldau e le melodie del quintetto di Oxford mi colpì molto. Poi arrivò “Live in Tokyo” disco di piano solo con composizioni lunghissime e divagazioni a non finire su standard jazz che comprendeva però anche una toccante e strepitosa esecuzione di “Things behind the sun” di Nick Drake e una enorme, antologica, versione di “Paranoid Android“. Diciannove minuti e mezzo di percussioni sui tasti e cambi di tonalità. Ora, se uno resiste, anzi ascolta con gusto questo pezzo, direi che è definitivamente dentro al mood del “piano solo“. Continue reading “Piano, solo (I)”

Director’s Cut

Un regista affermato che spara una nuova perla e un regista all’esordio che mostra ottime qualità.  In due parti, pensierini su “Bastardi senza gloria” e “District 9 con qualche spoiler.

Bastardi1. Quentin e i bastardi.
Questo blog giustamente rispecchia i tempi lenti e pigri del titolare e quindi scrivo solo ora di “Inglorious Basterds”, visto una settimana fa. Eppure, da una settimana mi vengono in mente scene del film, momenti, battute, particolari. Per farla breve è un film della madonna. E ne sono contento, ne siamo tutti contenti, poiché Tarantino appartiene a una specie di registi che vanno quasi protetti, salvaguardati.
Uno capace di scrivere dialoghi e inventarsi personaggi che tengono inchiodati sulla sedia per due ore e quaranta minuti pieni imballati di parole, per lo più sottotitolate, spettatori che, forse, non si rendono bene conto di che genere di film stanno guardando ma si divertono molto.
 Oltre alle parole ci sono le immagini con un gusto per la citazione e un occhio notevole che accresce il godimento del film. Che, è una specie di western con le svastiche e i mitra anzichè le stelle di latta e le colt, ma non solo.
I furboni del marketing della Miramax lo hanno venduto con un trailer con molta azione e Brad Pitt yes, yes, yes.
Nein, nein, nein, niente di tutto questo. L’attore famoso porta le signore al cinema per l’incasso, notevole fra l’altro, ma si vede poco e i bastardi in azione, non si vedono mai (*).
 Cortine fumogene di marketing che però non impediscono di godere di un film che entrerà quasi di diritto nella top five di fine anno.
Il vero protagonista è un cacciatore di ebrei, il maestoso Christopher Waltz al quale l’Academy dovrebbe consegnare il premio per migliore attore protagonista subito, che trova sulla sua strada una preda sfuggitagli che diventerà una femme letteralmente fatale per cuori e divise militari nemiche, nonché stupendamente bionda. E Melanie Laurent segna un altro punto a favore del mio latente amore per la Francia.
Cosa non funziona? Mah, praticamente nulla? Tarantino in forma smagliante come ai tempi delle “iene”, secondo me film che resta il punto di riferimento della sua filmografia, dialoghi super in bocca a personaggi che avercene, bionde pericolose, coltelli appuntiti, mazze da baseball, sprazzi di violenza convulsa, film nel film, smoking ridicoli, pipe, mitra, giochi di ruolo a banconi di legno pesante nella “scena più lunga del millennio” (cit.) e….altro….
Insomma, se qualcuno non l’ha visto, vada. Ora. 
E speriamo che Quentin abbia sempre voglia di mettersi a un tavolo e  scrivere, scrivere, scrivere…

(*) non c’è una scena in cui i bastardi tendono un agguato oppure combattono i nazi, mai a parte una raffica di mitra addosso a una macchina.

3896-20083_locandina-district-92. Neill e i gamberoni.
Di cognome fa Blomkamp, è sudafricano e ha scritto e diretto “District 9″. Altro film visto tempo fa ma come detto, i tempi blablabla.
L’ opera prima di Neill, con la supervisione e benedizione di Peter “lordofthering” Jackson, è un film di fantascienza con un’astronave bella grossa sospesa non su NY o LA (come da iniziale bellissima e ironica frase della sceneggiatura, riferita a decenni di immaginario hollywoodiano relativo a invasioni aliene) ma su Johannesburg.
Cosa ci fa lì? Niente. E’ ferma. Gli umani vanno, scoprono alieni in crisi e in panne e li parcheggiano nel District 9. Naturalmente il sito che ospita i gamberoni, così vengono chimati gli alieni per la loro fisionomia, diventa presto un ghetto con regole interne, spaccio di sostanze, mercificazione e problemi classici delle integrazioni fra razze diverse. Durante il tentativo di spostare i gamberoni in altra località dopo rivolte e lamentele dei locali, a un agente governativo accade una cosetta. Da lì, ne accadranno altre.
Nel film c’è una metaforona bella grande e facilmente leggibile sulla diversità, la mancata integrazione e il capire cosa significhi essere diversi. Eticamente corretto, non c’è un umano che sia un personaggio positivo e, se non sei un leghista, tifi per gli alieni.
Oltre a questo aspetto politico del film che, con saggezza, passa quasi in secondo piano, la cosa interessante  è come viene raccontata la storia, mischiando da un punto di vista narrativo, il documentario con la fantascienza aggiungendo un pizzico di film di guerra/d’azione e miscelando anche le tecniche di ripresa, utilizzando camere a spalla, videocamere, immagini tv, video di sorveglianza, ecc. Le scene di battaglia sono ben costruite con belle trovate.
E questo regista pare averne di idee o perlomeno sa copiare bene, dandoci un bell’esordio, un buon film, solido e intelligente. Segnalo la scena finale, proprio l’ultimo fotogramma. Un fiore di romantica bellezza offerto per dare un significato ulteriore al metaforone di cui sopra e un regalino a noi ingenui romantici.
E speriamo che Neill possa darci ulteriori conferme di sapere costruire film d’azione gustosi e non stupidi. Ce n’è bisogno e se sono sempre ambientati in Sudafrica, è lo stesso.