Chiusure

Sorrideva spesso quando sentiva il rumore del portone dell’ufficio chiudersi. Un doppio suono. Boom, e poi clack. Il legno pesante della porta che sbatteva sullo stipite e uno scatto come se ci fosse una chiusura incorporata. Forse c’era ma non importava, importava il suono. Boom, e poi clack.
Le sembrava sempre una canzone nota. Quella che ‘We will rock you” e forse un’altra, meno famosa, di cui non ricordava il titolo.
A volte la canticchiava, canticchiava a ritmo, anzi ritmava. Ripeteva il suono in testa, boom e poi clack, a volte scuotendo i capelli, spesso legati in una coda morbida.
Quella sera però accolse quel suono con irritazione. E non era nemmeno sera, le sembrava ma erano solo le sei del pomeriggio. Quasi due mesi nel suo appartamento, stretto fra profili di altri caseggiati e ringhiere interne, le avevano fatto perdere il rapporto fra luminosità e lo scorrere delle ore del giorno. Anche perché metà di quel tempo lo aveva passato in penombra. Coperta, nascosta.

Adesso era il primo lunedì dopo la fine del lockdown. Erano passati quasi due mesi, forse serviva una parola nuova che sostituisse quarantena, lei ci aveva pensato, non l’aveva trovata, così come non trovava una definizione esatta per quel periodo. Erano le sei del pomeriggio e nel primo giorno di riapertura dell’ufficio lei era già fuori. Boom, e poi clack.
Il titolare l’aveva convocata perché “certe cose preferisco dirle di persona”. Le aveva confermato che il suo lavoro sarebbe proseguito da casa per almeno un altro mese, le aveva fatto firmare le carte della privacy e l’aveva poi congedata con una frase.
“Mi aspetto collaborazione e disponibilità, dobbiamo immaginare un nuovo futuro, tieniti pronta”.
Lei non era stata pronta. Forse meglio così, magari sarebbe crollata. La frase era un’anticipazione di licenziamento o una di quelle frasi motivazionali che piacevano al suo capo?
Scelse la seconda opzione, era più comoda. Si sarebbe informata con la collega, lei sapeva sempre tutto.

Indossò la mascherina, con precisione, guardò nella borsa dove c’erano novità. Un piccolo kit di prevenzione, un pacchettino di salviette alcoliche, boccettina di gel lavamani. Decise di andare a piedi, di non prendere i mezzi, di guardare gli alberi di un verde sorprendente e ascoltare gli uccellini che ancora, per poco pensava, dominavano i suoni della città. Decise di rischiare un eventuale controllo. Avrebbe camminato per tornare a casa, avrebbe cercato le parole per chiudere l’esilio forzato.
Trovarle, era parte del suo lavoro, il suo compito ora che era uscita. Non contava come uscite le mezz’ore in cui con il viso sciolto dalla tristezza, si imponeva di andare all’edicola all’angolo per prendere un giornale che avrebbe fatto massa nel sacchetto dell’indifferenziata. Non calcolava i quarti d’ora, sempre a ridosso dell’orario di chiusura, in cui andava nelle due botteghe vicino casa per prendere qualcosa da mangiare, sempre attenta a guardare in basso per non vedere la sua paura riflessa negli occhi sopra la mascherina degli altri.
Ecco, le protezioni. Quella era una parola che apprezzava, come mancanza. Lei non aveva avuto abbastanza protezioni per ripararsi da una mancanza.

Anche quel sabato, prima che chiudesse tutto, nonostante la parola contagio fosse già tristemente sulle labbra di tutti, aveva fatto progetti. Vedere quella mostra, un giro al parco che le ispirava la primavera. Aveva già immaginato una foto da mettere sul suo profilo, i rami degli alberi come fili immersi nel tramonto arancione che da qualche giorno firmava le giornate, finiva sugli schermi, tante copie con leggere differenze di una piccola emozione cromatica. Invece era rimasta in casa tutto il giorno, spossata, ligia alle restrizioni, aveva spento il telefono e si era nascosta sotto al piumone. Dopo un sonno frammentato e nervoso, aveva riacceso e lo schermo si era riempito di notifiche. Pagine Facebook che debordavano di informazioni, previsioni, commenti. Si salvava Instagram dove la processione degli account che seguiva per lavoro e per piacere la consolò un poco. Chat whatsapp cariche di notizie, meme, preoccupazioni, battutine, foto, previsioni ma anche “come stai”, “ho saputo”, “tutto bene”. Non rispose, non commentò.
Di lui nessuna traccia, nessun messaggio: fu in quel momento che ne ebbe consapevolezza. Non si preoccupò dei genitori lontani, dei conoscenti che avevano provato a fuggire da quelle due parole.
Zona-rossa.
Si preoccupò di capire come avrebbe fatto a sopravvivere.
Due giorni prima si erano sentiti. Lei già organizzata per lavorare da casa, efficiente, una piantina di fianco al pc, una playlist nuova di zecca per concentrarsi, le cuffie acquistate da poco. Lui ancora al lavoro, allo sportello in banca, preoccupato dei contatti, dell’attesa per istruzioni della direzione. E poi, la botta. Non che prima andasse benissimo, lo sapeva, ma sentirlo fu come un’esplosione. Boom, senza clack.
Ho conosciuto un’altra. Non sapevo come dirtelo. Non so quando ci potremo vedere.
E poi una conversazione fatta di domande sciocche e risposte titubanti finché un lampo di consapevolezza generò un’offesa sibilante e poi silenzio, un pianto sommesso, un velo di stanchezza. Era successo solo due giorni prima, già le sembrava un’enormità di tempo incalcolabile con i vecchi strumenti.

Dopo, di quei giorni ricordava il lavoro, le conversazioni, ma allo stesso tempo non riusciva a mettere i ricordi in fila: avevano assunto la consistenza di una marmellata spalmata sul suo corpo inerte.
Passò davanti a un cartellone che riportava l’annuncio di uno spettacolo teatrale in programma per il 25 marzo che era ancora lì, leggermente sbiadito, una specie di monumento a un tempo che si era fermato, due mesi che sembravano anni e lei non aveva idea di cosa avesse fatto quel giorno, di come stava, tutto mischiato in un bolo dove l’amarezza si sovrapponeva alla rabbia per le ore sprecate in pensieri inutili, il lavoro diviso tra mail e chat dove nascondersi per non mostrare gli occhi gonfi e serate a guardare film per occupare la testa, storie di cui dimenticava la trama in fretta per poi scivolare in un sonno teso mentre fuori il mondo era costretto a cambiare nell’apparente immobilità.
Ci pensò su mentre si accorgeva di avere sbagliato strada, non aveva svoltato a destra, avrebbe recuperato dopo. Guardava i balconi dove ancora c’era gente che fumava, che telefonava, come se non potessero abbandonare le loro postazioni in cui avevano resistito per settimane. Una macchina suonò il clacson, pensò di mettersi le cuffie ma decise che avrebbe ascoltato i rumori della città che riapriva, che si stirava come un grande corpaccione, la città che l’aveva accolta con le sue promesse e nel giro di due mesi che sembravano anni l’aveva lasciata lì, tramortita a guardarsi intorno, cercando una cronologia.

I primi giorni, non lo aveva detto a nessuno. Era troppo difficile ammettere l’errore, affrontare i commenti. Telefonava ai genitori a cui risparmiava la preoccupazione, li sapeva al sicuro nella casa in campagna sperando solo non avessero bisogno di un ospedale, di un medico. Ai colleghi niente, ci mancherebbe.
Poi un giorno lo disse alla sua vicina. Una donnina piccola con le braccia magrissime e le sopracciglia folte che le aveva sempre fatto un po’ paura. Quel giorno le prestò un po’ di caffè, come si faceva una volta.
Avevano cominciato a parlare e la signora col monociglio si era rivelata simpatica. Le aveva raccontato: “Il fidanzato dopo tre anni e mezzo mi ha lasciata per un’altra, due giorni prima della quarantena”.
La frase fece come un tonfo negli occhi della signora che si prese i suoi bei secondi per esprimere poi il suo disappunto con colorite espressioni nei confronti del genere maschile e con un paio di torte alla ricotta nei giorni successivi.
Da lì quasi tutti i giorni cercava la signora, un parafulmine con le sue occhiate preoccupate, le lamentele sulle mancanze del marito e le rassicurazioni su come fosse fortunata a vivere da sola, di non sposarsi mai che gli uomini sono tutti uguali e tutti inutili. La signora le parlava e non la giudicava mai, questa era una consolazione.

Decise di non dirigersi in centro, anche se all’improvviso le era venuta la curiosità di vedere se ci fossero ancora i piccioni senza turisti a cui camminare tra i piedi oppure di rivedere un paio di monumenti che aveva visto nelle lunghe notti ripresi da brillanti fotografi, immagini potenti che fissavano quello strano periodo di cui lei aveva informazioni basilari. Stare in casa, lavorare al meglio, mangiare e non chiamarlo mai.
Ricordava che aveva imparato nuove parole. In italiano. Asintomatico. E in inglese. Droplet.
Lei stava attenta alle parole. Facevano parte del suo lavoro ma le piacevano proprio, ogni tanto ne scopriva una nuova e se la rigirava sulla lingua come per testarla assaggiandola. Il suo ormai ex glielo rimproverava sempre di essere troppo attenta alle parole. Forse avrebbe dovuto essere più attenta agli indizi, chissà. Adesso lei si rimproverava di non trovare una parola giusta per definirlo.
Ex era utile solo per tenere in piedi un’immagine che si allontanava sempre più con il passare della quarantena mentre una città intera era ferma, spaventata, immobile, ansiosa poi speranzosa, fatalista e sempre piena di giga che scrivevano, postavano, chattavano, leggevano.
Ex le sembrava una parola pigra, però abbastanza neutra per non lasciare traccia, abbastanza secca per recidere, eppure vuota, insufficiente, breve. Eppure era l’unica che usava. Al resto provvedevano le offese per suo conto della signora del balcone, parole non eleganti e lei aveva deciso di mantenere, seppure a fatica, un certo contegno, come una distanza.

Davanti a un palazzo con un bar ancora chiuso si fermò, in strada un taxi bianco girava silenzioso come un cacciatore in preda di clienti che non esistevano. Ricordava con esattezza che in quel bar, seduta da sola a guardare il traffico dentro un dehor affacciato sulla strada, aveva sentito che la città l’aveva accolta. Immaginò di vedere proiettato sulla facciata del palazzo il trailer della sua vita.
Il suono della mail con la conferma che irrompeva nella sua stanza a chilometri da lì, il trasferimento frettoloso, l’affannosa ricerca di un appartamento, la scoperta di una vita che era difficile e intensa come non era riuscita ad immaginare, il primo bacio a notte fonda davanti a una statua imponente e seria, la prima rottura, la Gianna, la sua prima e forse unica amica, con quel nome antico, lei che la scortava nei weekend, le faceva conoscere posti e persone, incluso lui che aveva scosso il suo mondo, prima così presente, poi palesemente inadatto, infine sfuggente. E tre anni.
La città forse non la accettava più?

Tre anni, e adesso. Con Gianna si era poi confidata, aveva accettato la sua comprensione, addirittura le sue scuse per averglielo presentato, le aveva raccontato le sue paure, prima con cautela poi avevano trovato il modo, il terreno comune per cementare il loro rapporto.
Aveva anche digerito l’informazione, l’amica glielo aveva raccontato piena di imbarazzo, che la persona che l’aveva sostituita era una collega dell’ex e che si vedevano tutti i giorni.
Avevano fatto progetti, si sarebbero viste nel fine settimana, un modo lo avrebbero trovato. La Gianna glielo aveva imposto, lei aveva sorriso e assaporato una cosa simile alla leggerezza. Quasi non si era accorta di essere arrivata nel suo parco preferito, di essersi seduta su una panchina. Pensò che nessuno le avrebbe restituito quella primavera ormai perduta. Una signora a spasso con un cane le rivolse uno sguardo, lei si alzò e proseguì.

Ora era sera, passò davanti al muro provvisorio che nascondeva un cantiere aperto da mesi vicino al suo palazzo. Vide un murales nero sullo sfondo grigio, si fermò, si allontanò di un passo. Venne colpita da un faro sopra a una gru che illuminava il cantiere, si chiese se fosse a scopo precauzionale oppure se stessero ancora lavorando a quell’ora per recuperare il tempo perduto per decreto.
I contorni del murales erano netti e definiti, con un uomo sulla destra che teneva in braccio un bambino che portava un berretto, alla sinistra una donna con una borsa, i capelli coperti da uno hijab, che teneva per mano una bambina con un ciuffo di capelli mosso da un vento immaginario. Tutti erano raffigurati di spalle, la coppia di maschi ferma a guardare oltre quella luce accecante, le femmine che avanzavano di un passo verso il futuro.
Rimase a contemplare il murales a lungo, pensò di scattare una foto ma sapeva che non sarebbe servito, avrebbe ricordato quel momento.
Un merlo fischiò, poi percepì un borbottare, una coppia le passò davanti, anche loro si tenevano per mano guardando per terra da sopra le loro mascherine, poi una macchina, un ragazzo che correva.
La città tornava ad impossessarsi dei suoi spazi mentre lei si chiedeva come sarebbe stato quel palazzo. Pieno di uffici o pieno di famiglie? Chissà come sarebbe cambiata la città, dopo la quarantena. Avrebbe immaginato insieme a lei un nuovo futuro? Erano domande nuove per lei, fresche.
Un colpo di vento improvviso, mentre frugava nella borsa in cerca delle chiavi. Aprì il portone e lo seppe.
La città l’avrebbe accolta nuovamente. Il portone si chiuse alle sue spalle.
Boom, clack. E sorrise.

#Baffodoro20

Sabato sera ho avuto il piacere di introdurre una band di amici che hanno organizzato una festa per festeggiare il loro compleanno, vent’anni di attività, di canzoni, di concerti, di sbaffini. Prima del loro set ho letto un testo scritto cercando di restituire in parole la loro storia, per come la conosco, cercando di seguire il ritmo della loro musica, in maiuscolo i titoli delle loro canzoni.
Però la cosa più bella, più importante di quanto ho scritto e letto io, l’ho vista durante la festa, mentre cenavo, parlavo, ascoltavo le altre band venute a fare festa, mentre aspettavo con un po’ di tremarella di salire sul palco.
Questa piccola band e i loro amici, non più solo ragazzi ma uomini con figlie e famiglie, in vent’anni hanno non solo suonato ma anche cementato un gruppo di amici e di persone che si trovano e si abbracciano. Si abbracciano da sobri e anche da sbronzi e niente, una serata con così tanti abbracci dati e ricevuti, sinceri, calorosi e lunghi e abbracciosi, era un pezzo che non la vedevo ed è stato molto bello.  

Il sogno era lì, davanti a loro.
Una fotografia 60×40, sovresposta, il charleston chiuso e l’asta che brillava di riflessi argentati in primissimo piano. Dietro, la figura del cantante, sfocata, immersa in una nube di rosso e, cos’era, fumo? Probabile.
Il futuro, in quella foto, in un piccolo locale che adesso non c’è più perché torna tutto ma non tornano i locali dove le band alle prime esperienze potevano esibirsi, esaltandosi, pure vergognandosi.
Era il millenovecentonovantotto e una novità spuntava nel sottobosco della piccola ma florida provincia emiliana che produceva band a tutto spiano, come un’officina delle note.

I BAFFODORO.

Un nome al sapore di birra e ritmiche precise, arpeggi, tre chitarre che si inseguivano lente, a tratti storte, a volte un morbido tappeto e poi lampi, inseguendo inquietudini, in oscure trame strumentali.
Il primo Ep era immerso nella NEVE.
Le basi: una lontana band di Glasgow, un pugno di reminiscenze americane, un tale di nome VEDDER e quelli come lui che a distanze di oceani parevano unire la musica e quella cosa che di solito si chiama amicizia.

La base: due parole, precise, secche, fin troppo ribadite, diventate scontate e inutili come molte definizioni.
Post Rock. Dopo, Rock.
Canzoni lunghe come gestazioni, percorsi DAL COMPARTO VUH, abbaglianti e oscuri, a seconda di come va, di come stai tu, che ascolti, che batti il piede, che ricevi un’immagine dal palco, quel palco che forse non c’è più e poi la rigiri, quell’immagine, magari per arrivare all’ESTASI DI MATHIAS RUST oppure ti fermi, tremolante come dopo avere fatto un bagno nel mare di novembre, aspettando un’AURORA che possa rischiarare tutto.

Ma prima, ricordi? Una conversazione.
Lui disse, “Lo riconosci il futuro? Dove saremo? Quanto durerà? Porteremo ancora questi cappelli? Avremo sempre queste facce? Sopporteremo le nostre rughe?”. L’altro rispose…chissà cosa rispose, probabilmente suonarono qualcosa come risposta a domande troppo impegnative.

E ancora, ricordi?
Quella foto. Tre teste piegate sugli strumenti mentre il sole se ne va, stanco mentre lascia una marmellata arancione all’orizzonte. Sarebbe da fermarsi ad ammirare, forse a pregare qualcosa, ma quelle teste non si fermano, restano, incuranti del buio che le assorbe, tanto le note saliranno, lasciandosi alle spalle molte cose, sottolineando momenti e CHE FELICITÀ NEI GIORNI DI FESTA che sono i concerti, dove la musica a tratti sembra un pretesto per tornare insieme, in gita con accompagnamento di chitarre, mentre fuori LE NUVOLE CORRONO VELOCI.

E ancora, sì, certo, ricordi?
Quante immagini di viaggi che sono stati esplorazione, mentre visitavano luoghi lontani, notti in tenda, in treno, in van ammuffiti, assimilando panorami e lasciandosi ispirare da racconti, leggende, articoli, conoscendo nomi mai sentiti, DAVID HOLM che salvò la sua anima, PHILIP KERKHOF che attaccò lo squalo, anche se le canzoni, senza testo, a volte vorrebbero spiegazioni, sottotitoli, ma poi, perché? Chi l’ha detto? C’è davvero bisogno di istruzioni, oppure, basta la musica e una raffica di fotografie attaccate a un muro a prendere polvere, a indicare una via, una vita comune?

E poi, accaddero PICCOLE RIVOLUZIONI, una voglia di crescita, la matrice sempre quella, canzoni con il cappello di lana, con il vento in faccia, guardando l’oceano, come a MILTON MALBAY. Raffiche distorte, pacata melanconia, momenti astratti come un dipinto di KANDINSKY, una piccola vena culturale, rigore formale ma, suvvia, qualche concessione pop su lunghe trame dove trovare la tua sensazione, dove puoi scegliere il filo con annessa lampadina e vedere dove ti porta, scegliere il battito che ti si addice, prendere la melodia da succhiare all’esplosione di riverberi, da fischiettare il giorno dopo, incollata da qualche parte nella memoria.
Vent’anni, e circa ogni quattro anni, una manciata di canzoni per proseguire quella conversazione partita da lontano.

E piccoli battiti, chitarre che incontravano soluzioni diverse, incontri che rifinivano la proposta, arpeggi e violinismi, FOSCO che disegna la copertina, ‘A VAGG’’, mentre fuori l’autunno era invadente ma non riusciva a vincere, raccolti in un casolare, le canzoni un’accorata preparazione per difendersi dai morsi dell’inverno che stava arrivando.

Tutto questo: un magnete, un mastice. Fatto della sostanza labile eppure solida della musica, del ricordarsi gli intrecci sonori e quelle foto appese ad una parete che non prendono solo polvere. Creare un FLUIDO70, nuotarci dentro, a volte annaspare, come in certe trame musicali, a volte esplodere, ma sempre per tornare, purificati come IL FIGLIO DELLA TEMPESTA.

E adesso: riguardale le foto.
Le vedi ferme, come quella là, quella immersa nel rosso.
Eppure se guardi bene nel corso dei vent’anni, vent’anni, li riconosci, si muovono piano ma si muovono costantemente.
Gambe che ondeggiano con le chitarre, piedi che premono pedali, capelli che svolazzano, ciuffi che cadono, gomiti che si piegano graziosi, bocche contratte, sguardi rapidi in occhi conosciuti, un inchino finale, intrecciati di sudore, applausi e infine, una, facciamo due, birra per tutti.

E, infine.

Le memorie di vent’anni possono confondersi, cambiarsi, modificarsi. Diventare epiche, modeste, sempre le stesse ma trasfigurate, come immerse in una BRUMA, che le rende instabili, incostanti, infine mutevoli.
Quello che conta, in fondo, è che dopo vent’anni, vent’anni, ci sia ancora uno scintillio nell’asta della batteria, un ragazzo davanti a un pubblico, squarci di passione che tracimano dalle chitarre e questi amici, ancora a sognare, ancora a suonare.
Ancora.
E nuovi titoli. E altri chilometri.
Per allontanarsi, per poi non perdersi.
E ritrovarsi. Ancora qua.
Ancora vent’anni e poi altri anni, fino alla BUIA LUCE che ci inghiottirà mentre la musica e tutto il resto, rimarrà.

Signore e Signori, ‘BAFFODORO’.

Baffodoro Bandcamp

il secondo del tuffatore

 

dwnAlla fine lo aveva accontentato. Erano giorni che spingeva. Diceva: “Andiamo via qualche giorno, ci farà bene”. Ripeteva: “Perché restiamo a casa, è tutto chiuso”.
Non aveva torto.
A parte la fila al mattino in uno dei pochi bar che resistevano all’esodo agostano, per il resto la gente era come se fuggisse dai raggi del sole, come fossero proiettili laser da evitare, apparendo per rapidi blitz al supermercato vicino casa per poi sparire a ripararsi dall’afa. Perfino i cani che animavano il parco erano spariti. Li immaginavo sdraiati sulle piastrelle in corridoi casalinghi piuttosto che abbandonati.
I pochi che lavoravano si rifugiavano nell’aria condizionata dei loro uffici.
Perfino la gelateria aveva esposto un cartello, scritto a mano, evidentemente frutto di una scelta dell’ultimo minuto: ‘Si riapre il 19 agosto‘. La gelateria che chiudeva in estate era lo specchio perfetto di un paese che non cambiava mai, che esigeva le vacanze forzate con corollario di file, foto da esibire con il mare all’orizzonte e racconti tutti simili da snocciolare dopo lo stress da rientro.
Mi ero inventata ogni scusa per evitare una vacanza. Avevo portato documenti del lavoro a casa, chiesto comprensione perché ero stanca e “Per quest’anno potremmo risparmiare e inventarci un viaggio a settembre”. Lui era stato paziente, accontentandomi.
I primi giorni, le olimpiadi erano state un buon refrigerio.
La stanza con lo schermo gigante e l’aria condizionata, gli sport di cui non capivo niente, la facilissima retorica olimpica, qualche storia interessante di atleti che brillavano per un paio di settimane per poi scomparire.
Lui spariva per lunghe sessioni di bicicletta o di corsa come in cerca di una medaglia d’oro privata. A volte andava pure a nuotare. “Saremo a casa noi due, perfino la piscina chiude”. Non ci credevo, era impossibile. Mi fece vedere la foto del cartello affisso all’ingresso.
Tornava dalle sue sessioni sportive con un film noleggiato per colmare i buchi delle nostre assenze al cinema, leggeva un giornale dalla prima all’ultima riga, appoggiando commenti sul calcio mercato che lasciavo cadere nel nostro vuoto poi si addormentava pochi minuti dopo il secondo tempo.

Quella sera che concessi una seconda, o forse era l’ennesima, possibilità alla nostra relazione, a cinque ore di fuso orario le tuffatrici si libravano in alto, si avvitavano e pluff! finivano in acqua. Mangiavamo silenziosi, insalata poco condita, una bistecca da dividere un terzo io e due terzi lui, un comodo divano che ospitava poche parole, mentre le ferie passavano stanche, nella placida sicurezza di una relazione che non aveva picchi, ma nemmeno collassi.
Pensai a quel secondo in cui il tuffatore si librava in aria.
Quanto pesava un tuffatore in aria? Apparentemente pochissimo, come se i chili li lasciasse in quell’istante in cui si spingeva in aria, per poi contorcersi, piegarsi, toccarsi, avvitandosi, rapidissimo ed elegante, prima di riprendere il peso perduto e infilarsi dritto come un piombo nell’acqua che diventava un buco accogliente.
In quel secondo di gesti ripetuti mille volte in allenamenti (ma dove si allenava questa gente?) il tuffatore si giocava l’opportunità, a volte la carriera, eppure sembrava così libero mentre si lanciava nel suo secondo di possibile gloria.
Mentre sparecchiavo glielo dissi. “Prenota, facciamo ferragosto via…”.
Lui mi saltò addosso per abbracciarmi. Quella notte facemmo un sesso sudato e ritmico, senza grazia in lenzuola stropicciate.

Andammo. In macchina lui era un continuo commento sullo stile di guida degli altri, insopportabile come un tormentone estivo che la radio proponeva troppe volte. Eppure, a volte aveva ancora una battuta vincente, uno scatto dove trovavo conforto, uno spazio dove andavo alla caccia del nostro oro, ormai irraggiungibile.
Per tre giorni ci provai, mettendo i pensieri sotto la sabbia, lui contentissimo di avere trovato un bell’appartamento. Fortunatamente, qualcuno aveva disdetto all’ultimo minuto. Eppure la consapevolezza era come un serpente strisciante, si annidava negli spazi, pericoloso.
Al mattino lui restava a letto, mentre andavo a vedere l’alba in spiaggia, godendomi la solitudine, soppesandola, per poi fare colazione con un cappuccino al bar. Poi lo trovavo, sbarbato e sorridente pronto a passare ore pigre su uno scomodo lettino.
E poi l’ultima sera.
Aperitivo nella viuzza principale spalmata sul lungomare. Un tramonto commovente, il giallo e il rosso si fondevano provando a formare nuovi colori, sembrava finto tanto era perfetto. Era quello che volevo, colori nuovi. Lui mi scattò una foto, mentre guardavo quello spettacolo.
“Guarda come sei venuta bene”. Gli sorrisi, era vero.
Poi, mi guardai dal di fuori, come un passante annoiato che si immagina la vita delle persone che sfiora durante una passeggiata.
Me lo aveva suggerito un’amica saggia, tempo prima.
“Prova a guardati dal di fuori, pensa se ti vedesse un’altra persona che non sei tu…cosa vedrebbe?”
Vidi stanchezza, che poteva passare, vidi malinconia, che non era caratteriale, oppure sì, forse mi donava pure. Non riuscivo a vedere altro. Non ero mai stata brava in quell’esercizio. Uscire da sé stessi, come fare?
Pensai, mi tuffo. Ma avevo paura di stare per aria in quel secondo, di colare a picco, di non fare il movimento giusto.
Pochi minuti prima, mentre aspettavo che finisse la doccia, avevo visto le immagini di quel tuffatore che nel suo secondo si era perso. Aveva sbagliato il tuffo, atterrando in acqua di pancia, non avevo capito come aveva fatto a fallire, come un novellino che si cimenta in un impresa più grande della sua. Eppure era il campione in carica. Se aveva sbagliato lui, avrei sbagliato anche io.

Guardai il mio compagno che rimirava le sue foto sul cellulare. Ce l’avrebbe fatta, era una persona che riusciva a sostituire i pezzi, una persona rapida e decisa nell’esecuzione, forse sarebbe stato contento di liberarsi di quel peso che non riuscivo a lasciare. Mi avrebbe sostituita, come un pezzo di un motore usurato.
Mi venne in mente una frase del romanzo che stavo leggendo, la trama era insipida ma quella frase l’avevo trascritta.

“Ci si nasconde. In angoli di strade ricoperte di ombra che protegge. In passi traballanti, in conversazioni frenetiche, in sorrisi che sono freschezza. In pezzetti di vite degli altri. In status sul web dove rivendicare il proprio pensiero, anche quando è vago, contorto, parziale, come tutti noi. In brandelli di canzoni. In una foto di un posto dove vorremmo essere ma che non ci appartiene. Ci si nasconde, per respirare”.

Mi immersi nel tramonto, in quel fondale che sembrava messo lì apposta, il premio alla fine di una lunga giornata, il panorama perfetto per un finale difficile.
Presi la rincorsa, un respiro, un saltello immaginario, il rimbalzo sul trampolino e via, aprì la bocca per parlargli, mi lanciai nel mio secondo.
Come un tuffatore, sperando di non entrare male nell’acqua, di non spanciare.

 

concerto al buio

FullSizeRenderRicordavo con esattezza il momento in cui avevo risposto: ‘Sì. Spero solo non sia troppo claustrofobico’. Emoticon, occhiolino.
Evidentemente l’uomo al mio fianco ricordava anche lui il messaggio in cui avevo accettato l’invito. Non mi guardava, era palesemente nervoso come se l’oscurità che avvolgeva la sala lo avesse catturato. E dire che fino all’ingresso non era stato male.
Un signore: gentile, sorridente, ‘dopo di te‘ e tutte le cose giuste da manuale del corteggiator cortese.
Gli avevo risposto perfino distrattamente, addentando un panino, seduta al sole in uno dei primi pranzi all’aperto di quella primavera stramba, nel piccolo parco dietro l’ufficio. ‘Concerto di una cantautrice americana bravissima, in una piccola chiesa sconsacrata, dovrebbe essere figo! Ti va di andare?‘ Emoticon, occhiolino. Non ci avevo pensato troppo. Emoticon, occhiolino.
Le persone che hanno troppa fiducia in loro stesse non mi erano mai piaciute. Come se dovessero nascondere qualcosa di grosso, lo nascondevano dietro una maschera luccicante ma sottile come un velo di domopack sopra a un pezzo di cibo. Bastava un graffio e l’odore guasto sarebbe uscito. E lui era indubbiamente insicuro. Molti messaggi, un caffè e un invito via whatsapp.
Mi sembrava fosse anche ora di uscire con qualcuno. Intorno a me, si contavano sulle dita di una mano le persone senza occhiali con grossa montatura nera. Pareva un dress code per la serata ma era un codice preciso, quello sì. Anche io li portavo, certo, non volevo restare indietro. Tondi, perlopiù, figurati.
Conversazione di basso cabotaggio. Lui adesso era tranquillo, anche se non riuscivo bene a vedergli il viso, solo il riflesso delle lenti prodotto dalla luce che illuminava, quella fortissima, il palco.
Eravamo a sedere, si bisbigliava, come per rispetto a una sacralità esaurita. Si aspettava, le luci della città, fuori, oscenamente luminose. Dentro c’era essenza di esclusività per un circolo ristretto. Dal nulla, la ragazza sbucò sul palco. Era troppo carina per stare da sola in quel posto. Come se la bellezza fosse una prigione. Accese un sintetizzatore e un fruscio riempì l’aria di attesa.

La musica era quella che definivo, rubando le parole da una rivista: ‘snobelectrosoft‘. Una voce suadente e in falsetto che armonizzava sopra un tappetino a basso voltaggio di beat e sotto, accordi di piano come gocce di pioggia. Dopo due canzoni, rimbalzavo lo sguardo di lui rispondendo, falsa, alla domanda ‘E’ proprio brava, vero?‘.
Avrei voluto che una band di motociclisti urlanti fosse entrata per picchiare quella gente.
Guardali, tutti attenti e concentrati, mostrarsi ricolmi di quell’intellettualoidismo sensibile che sprigionava da ogni angolo.
La cantante avrebbe potuto fare la popstar, forse, se la porta dello showbiz avesse girato nell’altro senso. Con un po’ di marketing giusto, due foto con la dose sana di Photoshop e una band ad aiutarla a tirar fuori il meglio di sé, altro che quella musica che sembrava appesa per aria, velata di malinconia e nobile autorialità esistenziale, mascherata da moda da webzine e lei avrebbe calcato palcoscenici più importanti di questo.
Il mio accompagnatore era avvinto dalla voce, batteva una mano sulla coscia, avrebbe voluto prendere la mia, ‘
non ci provare, ti prego‘. 
Non ci provò. Peccato, forse. No, meglio così. Se le mie porte della vita avessero girato diversamente adesso sarei in una casa, in tuta e struccata ad annoiarmi o a pormi altre domande guardando un telefilm, per poi addormentarmi.
Invece, quell’immagine di un vestito appeso mi aveva fatto prendere un’altra porta.
Poi, la voce da usignolo in gabbia della cantante sparò una vocale alta, un arpeggio si conficcò nei miei polmoni e ascoltai veramente. Pochi secondi, non più di venti, in cui quella musica da stronzi prese posto dentro di me. Sopra alle note passò un treno carico di ricordi e di mancanze e afferrai la mano del mio accompagnatore. Si girò ma non trovò il mio sguardo, le sue ossa forse tremavano ma erano abbastanza solide da farmi da ancora provvisoria.
Stai qui per un momento.

E poi il momento cessò, la canzone terminò, lui mi guardò con fare sicuro, cercò ancora la mano che però applaudiva con troppo vigore, in realtà scacciava cose, cercando di schiacciarle forte all’interno dei palmi. Ero già da un’altra parte. Dove, non lo so.
La ragazza terminò il concerto. Piccole luci illuminarono l’uscita. 
Continuavo a volere uno stupido pezzo pop.
Forse in un’altra serata.(grazie grazie per foto e ispirazione @ lapaolina)

Risvolti

risvLa fiamma bassa e leggermente tremolante sotto il bricco per scaldare l’acqua non fa alcun suono. La guardo mentre un esile barlume di luce passa dalla finestra lasciata appena aperta. Non ho nemmeno acceso la luce. Ho fatto tutto in penombra. Gesti abitudinari, eppure questa mattina è diversa. Di là, c’è lei.

C’è, lei? Magari mi ha sentito mentre mi alzavo. ‘Tanto, domattina, non mi troverai più qui’. Ho chiuso a chiave la porta ieri sera? L’ultimo dei pensieri, ieri sera. La luce del giorno mi arriva addosso violenta, mentre apro la finestra, svegliandomi del tutto. In pochi secondi sento simultaneamente il bisogno di mangiare qualcosa e il profumo di lei che sale dalla maglietta stropicciata che indossavo ieri sera. Chiudo la porta della cucina. Non vorrei svegliarla nel caso dormisse ancora. Fuori il quartiere non si è ancora ripreso dalla sua festa, in strada non passa nessuno, solo qualche uccellino svagato rumoreggia.

Ero tornato da pochi mesi. Il tempo di sistemarmi e l’estate aveva iniziato a picchiare duro sul cemento delle strade. La domenica mattina era stata la cosa più difficile da digerire dopo il mio ritorno. Dove stavo prima, era un giorno di ozio e pigrizia, fatto per famiglie che camminavano verso il mare, di pranzi con panini ricolmi di carne, birre a tutte le ore, fin quando l’alcool schiantava corpo e pensieri sulle sdraio che la gente si portava da casa. Il mare di un blu da cartolina rispecchiava la noia di ore che passavo dense di salsedine e chiacchiericcio, palloni da calcio che volavano da tutte le parti, grida di bambini. Qua, se volevi andare al mare, dovevi caricare la macchina, calcolare i tempi giusti per evitare la fila in autostrada, pagare ogni necessità, magari venire redarguito da solerti bagnini se sistemavi il tuo telo sulla spiaggia. Mi mancava andare al mare, ma avevo rapidamente ripreso le abitudini, altrettanto pigre e oziose, dell’abitante del quartiere che, al massimo, faceva quattro curve per andare a impelagarsi in una piscina all’aperto, troppo piena di ragazzini che si lanciavano in acqua, donne ricoperte di crema solare, zanzare e umidità padana. Quindi, alla domenica di solito me ne stavo in casa. Me ne sarei stato in casa anche quella domenica. Forse, però, sarebbe stata una domenica speciale.

Prendo una banana. L’abitudine di mangiare frutta al mattino appena sveglio è una delle belle cose che mi son portato dietro dalla vita precedente. Guardo il prato del campo di calcio davanti a casa. Spelacchiato e bruciato dai lunghi giorni di sole, qualche pozza di sabbia vicino alle aree di rigore che chissà se verranno sistemate prima dell’inizio delle partite del campionato amatori. Prendo un’altra banana. Chissà se le piace la frutta. Aveva fatto la schizzinosa davanti alle piccole chiazze carbonizzate della carne alla griglia, ieri sera. Poi però aveva mangiato tutto. Non che fosse un granché, le patatine però erano buone e lei si era macchiata la camicia con una lacrima di maionese caduta da uno spicchio rimasto a mezz’altezza mentre mi ascoltava.

Lei, ieri sera, mi ascoltava.

Prendo un piattino, appoggio la banana e ne taglio con precisione otto pezzetti. Aggiungo un filo di zucchero, come faceva mia madre quando ero piccolo. Energia, al mattino! L’acqua nel bricco ribolle. Verso un cucchiaio di caffè solubile e bevo a piccoli sorsi l’acquoso surrogato del caffè a cui mi sono rapidamente abituato. Sarebbe stata una domenica diversa? Esco dal cucinotto e prendo le sigarette che ho lasciato nella tasca della camicia, ancora appoggiata al divano dove poche ore fa l’avevo baciata.

Io, l’avevo baciata.

Mentre accendo, sento un leggero rumore dalla camera. ‘Tanto domattina non mi troverai più qui’. Avevo paura che se ne andasse? O volevo che se ne andasse? Torno in cucina, chiudo la porta. Verso un’altra tazza, accendo la sigaretta spalancando la finestra, perlustrando con lo sguardo il luogo dove son tornato.

Il quartiere. Ricordo bene, son passati pochi mesi, la prima volta in cui imboccai il sottopassaggio, sopra il quale transita con sempre minor frequenza il treno regionale. L’ingresso a questo quadrato composto da piccole vie, un puzzle immobile di case basse. La strada ne delimitava il confine, costeggiata dall’immarcescibile muro, eretto nei settanta per dividere la zona abitativa dalla fabbrica che dava da lavorare a molti abitanti della zona. Sulla sinistra della via, la mappa statica di poche attività commerciali. Il casaro che però aveva cambiato look al negozio, il fornaio, il bar che conserva aneddoti ubriachi di tante compagnie, la scritta Totip ancora sotto all’insegna. Poi, la chiesa con l’ampio spiazzo acciottolato dove piccoli chicchi di riso restano sempre incastrati in memoria di lanci celebrativi. La pizzeria che aveva cambiato nome, gestione, ma non il sapore dei suoi piatti. La strada terminava nell’imbocco dell’ultima uscita della circonvallazione con vista, dall’altra parte della strada, di un obbrobrio speculativo immobiliare. Ricordai le proteste, l’investimento sbagliato di mio padre, il cui unico figlio lo tradii scegliendo un lavoro a venti gradi di temperatura media, anziché un appartamento arredato. Girando a sinistra ritrovai le tante case conosciute, poi a destra, il circolo, che era stato di partito poi era diventato di tutti, il campo da calcio che delimitava il quadrato a est. Alla fine del campo, una distesa d’erba, una discesa e poi l’alveo ormai striminzito del fiume che divide la provincia da quella confinante. Sorridevo, mentre una sfilata di ricordi mi passava davanti, girando ancora a sinistra, trovandomi davanti la collinetta che portava ai binari, l’erba rovinata dallo smog ma resistente come i vecchi che si incontrano nel bar, sempre alla stessa ora, sempre con le carte in mano, i giornali che cambiano ma son sempre gli stessi da sfogliare, da commentare. Il quartiere. Sempre lui.

Prendo un kiwi, magari la frutta le piace. Lo pelo con cura disponendo gli spicchi di fianco ai pezzi rotondi della banana.

Una macchina rumorosa disturba la quiete fuori, innescando stranamente i ricordi di poche ore fa, le tante parole, i lunghi minuti passati fra quelle braccia sottili e abbronzate. Avevamo fatto elementari e medie insieme ma non eravamo nella stessa classe. Gliel’avevo ricordato, lei non ne era sicura, però era logico, i ragazzini del rione all’epoca facevano le primarie nella scuola vicina. Poi entrambi eravamo usciti dal quadrato, finendo nel capoluogo a venti minuti di pullman. Lei mi aveva confessato di ricordare di come ogni tanto la guardavo mentre aspettavamo l’autobus. Ricordavo anche io. Sguardi impacciati, prima che lei si sedesse vicino ai ragazzi più grandi che le tenevano il posto, mentre io mi mettevo con gli amici a chiacchierare di calcio e musica. Magari non era vero che ricordava, l’aveva fatto per flirtare, ma ci era riuscita benissimo.
Ricordavo tutto. Anche una sera in cui partecipammo in tanti alla sua festa di compleanno al circolo, dove in fila per farle gli auguri dopo che tutti avevamo gridato ‘Sorpresa!’, non riuscii a darle un bacio sulla guancia perché lei all’improvviso era impegnata con uno del classico che l’aveva presa in braccio per portarla chissà dove. Dall’imbarazzo, me ne andai. Poi ci parlammo davvero. Per la prima volta, sul pullman, un pomeriggio in cui entrambi avevamo perso la coincidenza. Chiacchierammo come se ci conoscessimo da sempre ma era la prima volta che andavamo oltre un educato ciao. Lei raccontò di come doveva recuperare un’insufficienza in una materia, io raccontai delle mie difficoltà a giocare da titolare nella squadra di calcio della parrocchia.

Verso altra acqua nel bricco ancora tiepido, mi scopro sorridere ricordando l’urlo ‘Ragioneria!’ con cui lei ricordò l’aneddoto, facendo girare la tavolata di vecchietti di fianco a noi. Immagino, o scorre acqua anche in un’altra parte della casa?
‘Tanto, domattina, non mi troverai più qui’.
Forse si è alzata, pronta ad andare dal figlio che la aspetta. Magari è distrutta dai sensi di colpa, oppure ha solo un leggero mal di testa per il troppo alcool della sera prima e sta rannicchiata sotto le coperte. Guardo il piatto, sposto con il coltello i pezzi del kiwi e prendo una pesca. La pelo e compongo una sorta di bandiera di una repubblica centro africana. Bianco, verde e giallo.

La seconda volta che parlammo fu pochi giorni prima della mia partenza per il militare. Ci trovammo per caso fuori da una festa che era diventata una bolgia di ubriachezza e balli scatenati. Presi una bottiglia di vino scadente e uscii, avevo bisogno di silenzio. Non volevo partire, ero terrorizzato dall’idea di un anno di naja, come la chiamavamo, una parola che oggi non esiste più. Me la trovai nel parcheggio. Fumava una sigaretta. Era bellissima, con una maglietta blu e jeans neri coi risvolti sopra a un paio di scarpe coi lacci. Era vestita come quasi tutte le ragazze di fine anni ottanta, eppure lei sembrava più elegante.
Ci sedemmo per terra, appoggiati a una macchina bianca, bevemmo e ci raccontammo delle nostre paure. La mia del militare e la sua di andare all’università a Milano. Lì, la vidi spaventata. Avrebbe dovuto lasciare il ragazzo, le dispiaceva ma la vera paura era che nel quartiere era la più bella, mentre nella grande città sarebbe stata una come tante, sicuramente una sconosciuta. Eravamo solo due ragazzi di provincia, che avevano ascoltato troppi discorsi che erano una via di mezzo fra l’incoraggiamento a uscire dal quartiere e racconti terribili sugli scherzi nelle caserme o sulle difficoltà che si incontrano nelle università di prestigio. Avevamo solo paura di crescere, tutto qua.
Un anno dopo tornai a casa, iniziai a lavorare come molti nella fabbrica al di là del muro, in produzione. Facevo i turni e i primi soldi. Lei, rimase in città. La vidi solo per pochi minuti, a un paio di matrimoni di amici comuni, come stai, tutto bene, ci vediamo dopo. Ci vedemmo sempre molto dopo. Poi accettai un lavoro in un altro continente. Le poche volte che ero tornato avevo scoperto che si era sposata, con un ricco commerciante. Poi, tornai. Mi ero stancato, e mia madre era malata. E poi rimasi.
Tornò anche lei. Divorzio, un figlio a carico, ma non abitava più nel quartiere. Con i soldi del divorzio aveva preso un grande appartamento dall’altra parte della cittadina. Ieri sera però è tornata anche lei nel quartiere.

Il caffé è pronto, lo verso nella tazza più bella che ho, tutta bianca, senza scritte.

L’avevo vista appena arrivata. Vestita come una ragazzina anche adesso. Jeans bianchi coi risvolti, scarpe basse, una camicia blu. Sembrava imbarazzata, sforzandosi di non darlo a vedere, mentre molti sguardi si posavano su di lei. Mi avvicinai, salutai le amiche che l’accompagnavano e poi rimasi con loro a cena e dopo cena rimasi con lei, provammo balli impacciati in un girotondo di mazurke tutte uguali, mentre a volte arrivavano amici di un tempo che la vedevano, salutavano, domandavano. Lei mi guardava, come dire ‘Salvami’, io le facevo di no con un dito. Poi rimanemmo fino a quando il gruppo smise di suonare. ‘Ricordi quella sera, quella festa, prima di partire per Milano?’ Ricordava e mi sembrò che un velo di nostalgia le passasse sugli occhi. ‘Andiamo’, disse.
Percorremo le tre strade buie dal cortile della sagra al circolo che era sempre lì, uguale eppure diverso. Qualche ragazzino nottambulo ci squadrò quando arrivammo, irrompendo nel loro territorio. Ci sedemmo nel prato, ricordammo ancora.
E poi, accadde. Feci quello che non avevo avuto il coraggio di fare quella sera di tanti anni prima, annebbiato dall’alcool, la voglia che faceva a pugni col senso di onore verso quel ragazzo che all’epoca era un mio compagno di squadra, la stella, la migliore ala destra che le giovanili del quartiere avessero mai prodotto. Lui, la stava sicuramente cercando nella festa mentre ci raccontavamo le nostre paure e adesso, poche ore prima, a un’altra festa, l’aveva salutata, con un imbarazzo eccessivo, mentre aveva un bimbo in braccio e la sua compagna come un gendarme dietro le spalle. Avevamo riso di quel momento. Due stronzi che avevano solo visto un pezzo di mondo, altri quartieri, che non perdevano l’occasione di sentirsi più grandi, soprattutto io, che assaporavo una specie di rivincita incassando un imprevisto assegno di stima post datato.

La baciai. Sapeva della sambuca doppia che aveva ordinato mentre la band di cover anni novanta che aveva dato il cambio sul palco si impegnava, mentre sotto gente di ogni età ballava. Poi, finimmo sul divano di casa. Io seduto le chiesi di alzarsi, lei sembrava timida, inibita, ancora con la grazia di una ventenne che non è sicura se concedersi sia la cosa giusta. Le tolsi i jeans, i risvolti le si incastrarono nei talloni, le mordicchiai le gambe, prima di alzarmi, prenderla di peso e portarla nel letto. Lei dopo, mi sorprese, prendendo il controllo, cambiando essenza, la donna matura che sa cosa fa. Una luce di sfida le aveva attraversato gli occhi mentre lo diceva. ‘Tanto domattina non mi troverai qui’.

Avevo sentito un rumore? Una porta che si chiudeva?

Guardo l’ora, tiro fuori una brioche dal suo involucro e la metto su un altro piattino, l’unica marmellata che ho è di mirtilli. Chissà se le piacciono i mirtilli. Apro la credenza, prendo il vassoio buono che mia madre usava per servire il caffè alle sue amiche. Metto i piatti, la tazza e esco dalla cucina. Passo davanti alla porta di casa e noto che le chiavi sono ancora nella serratura. Se fosse uscita non me ne sarei accorto. Arrivo davanti alla porta della camera, ancora chiusa.
Respiro, ripenso a tutto quello che mi è passato per la testa.
Apro la porta.

 

Ti telefonerò

telefono‘Allora, tanti auguri’.
La frase, sempre identica, apriva la porta a una pausa che da quarantadue anni accompagnava la stessa telefonata.
Nella pausa c’era il ricordo che entrambi, senza saperlo, condividevano. Loro due, su una spiaggia, l’ultima sera di una breve vacanza. Lui, con i pantaloncini blu, che camminava con le mani dietro la schiena, pensando a una frase ad effetto da dire, in quelli che erano gli ultimi momenti della loro conoscenza. Lei, con un costume intero, a ventun anni. Quasi una vita. Eppure. ‘Ti telefonerò‘ disse lui, prima di chiudere quei quattro giorni in cui si erano conosciuti, si erano parlati, si erano piaciuti, non si erano mai toccati. Solo quell’abbraccio sulla battigia, impacciato, come a non voler rovinare l’immagine che poi avrebbe avvolto quelle telefonate.
Un’estate sbiadita dal tempo, eppure il ricordo di quel momento era sempre presente, quasi tangibile.
Dopo quell’estate, lui conobbe quella che sarebbe diventata la moglie. Lei, dopo quell’estate conobbe l’uomo che avrebbe sposato. Una coincidenza che venne raccontata nella prima telefonata. Lui, la ricordava ancora. Il dubbio se chiamare, fuori una nevicata clamorosa. Lei non se l’aspettava, ma ne fu lieta, riconobbe subito la voce.
Chiamava sempre lui. Le sue parole, anche dopo tutto quel tempo, all’inizio della conversazione incespicavano nell’incertezza di essere accolte con gioia. Poi, si raccontavano. Lui non ne aveva mai parlato alla moglie, certo che non avrebbe capito. Lei lo aveva raccontato al marito, che non capì.
Lui raccontava dei figli e dei successi come allenatore di squadre giovanili. Lei, di figli e di un matrimonio devastato dai tradimenti.
Si raccontavano e mentre parlavano, le ombre di due giovani su una spiaggia erano di fianco a loro, ancora in costume da bagno. A volte, le possibilità di vite non vissute scorrevano al loro fianco.
Non si erano mai più visti. Lui a volte se lo chiedeva, come sarebbe stato, certo che lei non se lo chiedesse. Lei a volte se lo chiedeva, certa che lui se lo chiedesse.
Lui telefonava sempre alla vigilia o il 23 dicembre, oppure, se lei non aveva tempo, l’ultimo giorno dell’anno. Lì, lei trovava sempre il tempo, al massimo posticipava la telefonata.
Sorridevano alle loro immagini che avevano a fianco, si raccontavano i cambiamenti dell’età, ma era quasi un peccato. I capelli grigi non donavano a quel ragazzo un po’ impacciato ma sorridente che aveva fatto sospirare una giovane studentessa universitaria. I chili persi dopo un paio di operazioni  non donavano a quella slanciata ragazza che aveva entusiasmato l’erede dell’alimentari di famiglia.
Gli anni passavano, arrivarono i cellulari ma loro si sentivano sempre sul telefono fisso. Una costante.
Avevano mantenuto il ricordo. Un cristallo con dentro un’immagine, un gioiello grezzo incontaminato, incorruttibile, perfetto perché privo di imperfezioni, compromessi, incomprensioni, levigato solo dalle possibilità di futuri aperti in linee temporali che non avevano vissuto, una specie di sogno puro.
E una volta all’anno quella porta si apriva. Lei, aspettava la telefonata. Lui, era puntuale.
Non era nulla, ma era qualcosa di prezioso.
Due secondi di silenzio, il tempo che quella porta si chiudesse con un soffio.
‘Auguri anche a te’.

 

Palco n.25 OR.1/D (the affair)

(come sanno i lettori più affezionati del blog, negli anni ho tenuto una specie di diario, numerato come fosse una serie Tv, delle serate trascorse a teatro ad ascoltare la classica. li ho scritti per ripensare alla musica, per provare a incuriosire qualcuno. difficile, la ‘musica classica’ non affascina molto.
comunque, trovate tutti gli episodi, a questo link QUA.
l’anno scorso ho perso l’ispirazione, pubblicando giusto due post che nelle intenzioni erano raccontini con sottofondo musicale. poi avevo una bozza nel cassetto, la ritiro fuori oggi, visto che ‘The Affair‘, la serie originale, a cui palesemente mi ispirai, è ripartita, e visto pure che mercoledì riparte anche la stagione concertistica.
sarà la S05 per me, nel posto palco. chissà che non torni l’ispirazione, ne dubito, ma chissà. intanto, appunto, un post dal posto palco, una specie di ‘prova d’orchestra’, via)

 

Lui

Il concerto di sabato sera. Un vero peccato che i figli non ci siano. Loro, il cuscinetto in queste serate.
Il palco è stretto, porpora, il solito, da tanti anni. Più scomodo adesso che sono con lei e vorrei essere con un’altra. L’altra. L’unica che in questi anni mi abbia fatto pensare l’impensabile.
Cioè, guardala. La massa di capelli rossi. I riccioli che hanno ancora la forza ribalda di quando ci conoscemmo. Le braccia tornite da ore di palestra. Una bellezza di moglie. Mia moglie che non amo più.
L’ho detto. L’altra sera, mentre le natiche dell’altra si appoggiavano alle mie cosce. Non so se avrei avuto il coraggio di dire quella frase, guardandola. E’ uscita così naturale, spontanea, come libera da un tappo con troppa pressione sotto. Non era una di quelle frasi dette ad altre, tanto per tranquillizzarle, per guadagnare altro sesso, rubare altri baci. L’ho detta a lei perché mi fido di lei, ma senza guardarla in viso. Sarebbe stato troppo. Lei, ha ascoltato, si è girata e mi ha dato un bacio. Tutto qua. La frase più difficile da dire, racchiusa in un bacio. Una promessa? Forse. E stasera. Niente figli. Le loro domande, ammortizzatori del nostro disagio. Stasera dovrò rispondere a lei, mentre penso all’altra.
Eccoli, escono.

Applausi. Mia moglie, guarda. Mi guarda, sorride. Saprà qualcosa? La domanda ossessiva. Ha saputo di altre, in passato. ‘Traditore’. Un timbro vergognoso ai suoi occhi. Ha resistito, abbiamo chiuso la crepa con stucco, educazione genitoriale, tanto lavoro mio, tanta pazienza sua.
E’ ora di fare i conti?
La musica smorza le domande. I quattro si schierano sul palco a coppie. Giovani, belli, sicuri. Attaccano una sonata di Haydn. La violoncellista ha le spalle al palco. Le scapole che si flettono mentre si china sullo strumento. Bianche come quelle dell’altra, riflesse dallo specchio della sua camera, mobili, mentre le accarezzo i capelli. Bello anche il vestito. Direi color corallo. Raffinato, importante. Potrei regalarle un vestito così. Starebbe sicuramente bene, i capelli raccolti, quel colore vivo ma elegante come questa musica, anche se suonata con impeto da questi giovani ungheresi. Sarebbe eccessivo questo colore? Lo metterebbe mai?
Meglio non pensarci ma è troppo difficile. Arriva da tutte le parti, come una variazione di tempo, uno svolazzo di note che riportano a lei.
Applausi. Muoviamo la testa, approviamo, non diciamo una parola. Riprendono subito con Mendellshon, uno dei preferiti di mia moglie.
Una cavalcata con gli strumenti che paiono inseguirsi frustati dal ritmo, guidati dalle dita velocissime del quartetto. L’altra, avvolta nelle lenzuola.
Questo pezzo nervoso mi agita. Come se non lo fossi già di mio. Come se non sentissi il trillo del messaggio nella tasca interna della giacca. Eppure avevo smesso, avevo quasi dimenticato gli accorgimenti. Il nome di un amico abbinato a una distrazione che ora è diventata ossessione. In passato non succedeva. Mettevo distacco. Toglievo importanza. Oppure, sono bravo a dimenticare. A dimenticarle. I fuochi d’artificio e poi l’oblio. Sguardi speciali e poi il nulla.
Mia moglie. Muove una mano, come un direttore d’orchestra timido, tenendo il tempo. Le dita ossute, lo smalto rosso, l’anello per i quindici anni, grosso, pesante.
Lei sa? Ancora l’ansia che attacca. Seguo la melodia, il brano che si placa, calmo.
Intervallo. Bene così.
Mia moglie mi guarda mentre sorride, si alza, toglie gli occhiali da miope, sistema i capelli ricci. Il vestito optical, i tacchi troppo alti.
Andiamo di sotto?‘ mi dice. Certo, come sempre. Non cambiamo mai. Eppure.
Ricordo quello che ha detto lo speaker prima del concerto, sorprendendoci.
I classici, educati, inviti a spegnere i cellulari, a non scattare foto.
E poi ha detto: ‘Siate felici‘.
Qualcuno in platea ha riso a quell’invito. Sembrava indirizzato a noi.
Me lo chiedo mentre seguo nel corridoio il bel culo di mia moglie, ma ne immagino un altro. Sarò felice?
Forse. Con l’altra.

 

Lei

Sempre perfetto. Abile nella conversazione, nel porre la domanda giusta. La cortesia e la sicurezza, la giacca a quadretti, la cravatta viola, i pantaloni corti da trentenne, le scarpe lucide. La conversazione dell’intervallo con i soliti noti, metà amici, metà colleghi di altre banche o assicurazioni.
Tessere la tela, conversando in dieci minuti di esecuzioni appena ascoltate e futuri appuntamenti, anche non culturali. Al suo fianco, lo ammiro, entro come una consumata attrice non protagonista, le battute coi tempi giusti, i sorrisi perfetti.
Sembro uno specchio, rimando la sua confidenza, la sua brillantezza, questo fascino innato che non perde lo smalto, la naturalezza, perde solo i capelli e poi pure pochi.
Mio marito.
E io, abituata al ruolo. Il mio arbitro in giacca sartoriale fischia la fine del cerimoniale, saluto e via, torniamo ai nostri posti, alla nostra fissità.
Il quartetto rientra, faccio in tempo a chiudere la porta, a chiudermi dentro i pensieri.  I figli non ci sono, maledette feste di compleanno, quasi mi sento abbandonata a sopportare il suo silenzio impacciato, la voglia che avrebbe di estrarre il telefono e scrivere qualcosa a un’altra donna.
Attaccano Bartòk. Non mi piace, la musica popolare, tzigana, così come non mi piace questo buio che ci avvolge, ma è così. Mi concentro sul quartetto.
Il leader, un ciuffo da rockabilly sopra ad occhi spiritati, spesso sbarrati come in questo allegro, mentre segue la musica, come se le note sul leggio gli entrassero negli occhi e lui le accogliesse con gioia. A volte li vedo socchiusi di passione negli adagio, come se respirassero la musica, la tramutassero in una visione che lui riporta sull’archetto.
Occhi vivi, attenti, curiosi, gioiosi, al confronto di quelli dell’uomo al mio fianco, freddi, sopra gli occhiali da lettura appoggiati a metà naso, mentre sbircia le note del libretto. Sembra stanco o disinteressato.
Peccato non ci siano i figli. Gli sto dietro, lo spio. So cosa sta facendo. Come lo so? Una moglie lo sa.
Dire che è distante sarebbe fare un torto alla distanza. E’ anni luce da me, da noi. Non ci vuole molto, dopo tutti questi anni, a saperlo. La prima volta, fu un dramma, ma, cosa nota, i bimbi piccoli, la comodità, anche i soldi, certo, non negarlo, la meschinità, il disagio sociale. Le altre, robetta. Ma stavolta è diverso. Non è nemmeno necessario decifrare i suoi patetici tentativi di nascondere messaggi dietro contatti fasulli sul telefono. Basta viverlo il tradimento, assaporarne il gusto amaro, per abituarcisi, per sopportarlo, come un’ombra costante.
Poi si va avanti, certo. Anche per quella cosa che chiamiamo amore, certo.
Ora però, siamo come un minuetto che non riusciamo più a danzare, privi dell’armonia necessaria.
E’ la vita, oppure è la fotocopia di noi che vaga per questa vita, diventata abitudinaria. Giustamente ma anche tristemente.
Un filo di melodia si stende fra gli strumenti, rimpalla morbido e solido insieme. Mi ci arrampico, ci resto impigliata.
Basterebbe poco. In palestra, ci sarebbe la fila. Una quarantenne come me, ci sarebbe la fila. Oppure il tizio nel palco di fianco che saluta sempre a occhi bassi, ma l’altra settimana, in fila per un prelievo, mi ha vista ed è stato meglio passare l’attesa parlando di concerti che in silenzio a fissare l’ora o i numerini che scorrevano ad ogni chiamata.
Quanto ci vorrebbe? Un sorriso in più? Come sarebbe sparire con questo sconosciuto? Sedersi in altri palchi, altre prospettive, altre musiche che non ho mai ascoltato. Cambierebbe davvero qualcosa?
Diventeremmo un gossip sussurrato a bassa voce, ricoperto dalla patina di proibizionismo con ampie smagliature e distinguo, di questo piccolo mondo sempre uguale.
L’ultimo movimento.
Un sussulto, mi piace perfino Bartòk suonato con l’intensità di questi ragazzi che a volte pizzicano le corde in maniera quasi rock, che suonano con un trasporto incandescente. Mi trovo a cercare la sua mano. Esito, ma poi la trovo. Molle, fredda. Mi rivolge un sorriso di alabastro che è metà abitudine e metà pietà e questa è la parte peggiore che mi trapassa come una spada di indifferenza.
Il silenzio nel teatro mentre il brano trova sentimenti appesi nell’attesa è perfetto per questo tocco gelido.
Ci separiamo, arriva il finale, gli applausi, i bis, un concerto stupendo.
Lo speaker del teatro ci aveva sorpreso, quando dopo averci ricordato di controllare lo spegnimento dei cellulari, ci aveva regalato l’unico vero sorriso sincero.
Siate felici‘. Da dove saltava fuori quell’esortazione? Era rivolta a noi?
Me lo chiedo. Sarò felice?
Forse. Non più con mio marito.

 

sei fotografie

 

Aprì le finestre della camera d’albergo. Si sentì come un principe baciato dal sole già alto che rimirava le sue terre. Le case della città sotto di lui, tutte basse, ancora avvolte nel silenzio. Davanti ai suoi occhi assonnati si stendeva la vallata, un lenzuolo di verde scintillante punteggiato da piccoli borghi. In lontananza colline che si alzavano morbide. Sopra a tutto un cielo blu pastello, il sole una medaglia d’oro. Il campanile alla sua sinistra lo salutò con rintocchi secchi e precisi, come a ricordargli un appuntamento. Fece una doccia con le finestre aperte, sentendo in lontananza le prime voci che venivano dall’esterno. Si vestì, controllò l’itinerario e uscì. Doveva fare poche centinaia di metri ma prese comunque la sua attrezzatura.
Mesi prima aveva controllato e non gli era sembrato vero. Il lavoro di reportage che aveva accettato per un festival di musica era in contemporanea alla prima nazionale della mostra in cui uno dei suoi idoli personali (chiamarlo collega gli sembrava uno sproposito) esponeva i suoi lavori. Aveva il tempo per visitare con comodo la mostra e poi posizionarsi nelle vicinanze di un palco, pronto ad accogliere i primi festivalgoers che avrebbero sgomitato per la transenna, il primo soundcheck sotto il solleone, i primi accordi di chitarra.
Avrebbe fatto un bel lavoro, ispirato dalle foto che si accingeva a vedere.
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(un prologo)

 

Un bel giorno il mare si stancherà.
Cambierà umore e colore per giorni, avvertimento silenzioso. Diventerà grigio come piombo fuso, diventerà più freddo durante giornate calde. Non se ne accorgerà nessuno, se non qualche rilevatore sepolto sotto la sabbia da uomini che non ascoltano.
E una mattina come queste esploderà, si scaglierà contro tutto quello che ha sopportato per secoli. Rovinerà su rovine. Schiaccerà un futuro che non c’è più. Riproporrà una nuova terra, annegando il paesaggio. Poche cose gli resisteranno. Non sarà furioso, sarà giusto ed equanime. Spietato, certo.
Si alzerà in un’onda tenebrosa e schiaffeggerà tutto questo. Avanzerà per chilometri, si divertirà scoprendo nuovi posti, minuscole insenature, diverse temperature. Incontrerà montagne rigogliose, le scavalcherà. Giacerà su terre secche. Incontrerà pianura e cemento e lì diventerà altro. Si indebolirà lentamente. E poi si arresterà. Si trasformerà in lago per poco tempo. Il mare non è abituato a star fermo. Essere lago non gli piacerà. Quindi si ritrarrà, trainato nel suo alveo naturale. Lascerà rigagnoli di materiale strappato alla terra. Una scia di rifiuti che rimarranno a seccare, piccoli monumenti inutili al nulla che c’era prima.
Tornerà mare. Si ripulirà dopo l’ardimentoso viaggio. Riprenderà colore dopo avere compiuto il suo dovere.
Ritornerà abitudinario. Lambirà coste di una nuova terra.
Osserverà calmo. Aspetterà ancora.

Fotografie

 
• Una sottile coperta di raso sopra a mani giunte, ferme nell’eterno riposo, un rosario le circonda, manette per l’eternità. Un dipinto dietro, dozzinale, troppo grande. I bestemmiatori vanno in paradiso? Forse quelli che inventavano bestemmie creative, forse sì, per l’impegno.

• Nel buio di un vialetto punteggiato da luci rasoterra, la signora cammina piano. Le fa male una gamba, ma nasconde il lieve zoppicare con la lentezza e il portamento che la contraddistinguono. Sale le scale con eleganza, non muove un muscolo del viso nonostante il leggero dolore che ogni gradino le regala. Si stringe le spalle nel cappotto per il freddo e un pizzico di solitudine, l’aveva sentita anche dentro al taxi. Stringe anche i manici della borsa, dentro una bottiglia di vino e un fiore rosso che scaldano. Suona il campanello. Suona bene.

• Panchine ai lati del parco. Due ragazzi, rinchiusi nelle cuffie, musica in testa, dita veloci che armeggiano sullo schermo enorme. Cercano conforto e distrazione. Commentano brillanti su chat di amici. Nell’altra finestra distruggono foto, cestino cestino cestino. Ne lasciano qualcuna nella cartella, magari domani mancherà.

• Aveva preso carta e una penna nera. Aveva scritto la bozza di una mail ma voleva essere sicura di rivedere i graffi di rabbia sulle cancellature, i buchi di delusione sulle ‘i’, la pressione con cui aveva scritto certe parole. Ricopiare alla tastiera la rese triste.

• L’attesa, la colonna, le parole spezzate di una telefonata con la linea disturbata, i chilometri mangiati con ansia. Si fermò in uno di quei bar nascosti dietro ai distributori di benzina self service. Dentro, una barista coi baffi lo squadrò. I vecchi riuniti intorno al videopoker anziché intorno a carte vere diedero una spinta alla sua tristezza. Prese un caffé, uscì, accese una sigaretta. Quei posti costruiti immaginando un futuro migliore, di traffico e affari sull’asfalto e finiti per essere un set da film apocalittico, le case lontane che sembrano vuote, abbandonate. Pensò al futuro, non gli venne in mente nulla, in quel nulla, in mezzo al nulla.

• Una ragazza enorme. Un mulatto con  un ‘buongiorno’ squillante. Un senegalese che firma con un geroglifico. Un operaio esperto. Un ragazzino brufoloso agitato. Gente che entra negli uffici con fogli fotocopiati. Dati, esperienze, studi, hobby. E una speranza ormai bruciata da troppi ingressi in uffici.

• Nel martellamento quotidiano e incessante di instantanee ad uso e consumo social, c’era una foto, una foto sola, che non doveva vedere. Le rimase impressa subito, marchiandola. Provò a rimuoverla dalla retina, chiuse gli occhi per cancellare, riportare indietro di qualche secondo il giorno. Ctrlaltcanc. Niente. Rimase lì, quell’unica foto, incisa, a raschiarle budella, a scarnificare il suo battito.

• Sangue dello stesso sangue che non si incontra mai. Fluisce in arterie separate da anni di occasioni mancate, prende percorsi separati, nelle vene percorsi ormai obbligati che bloccano la circolazione teoricamente corretta. Sangue che inietta occhi, che guardano muri. Muri che non sanno, che non rispondono.

(fotografie, post sprecati, di un marzo in bilico fra un vento freddo e un sole che prova a scaldare)