#Baffodoro20

Sabato sera ho avuto il piacere di introdurre una band di amici che hanno organizzato una festa per festeggiare il loro compleanno, vent’anni di attività, di canzoni, di concerti, di sbaffini. Prima del loro set ho letto un testo scritto cercando di restituire in parole la loro storia, per come la conosco, cercando di seguire il ritmo della loro musica, in maiuscolo i titoli delle loro canzoni.
Però la cosa più bella, più importante di quanto ho scritto e letto io, l’ho vista durante la festa, mentre cenavo, parlavo, ascoltavo le altre band venute a fare festa, mentre aspettavo con un po’ di tremarella di salire sul palco.
Questa piccola band e i loro amici, non più solo ragazzi ma uomini con figlie e famiglie, in vent’anni hanno non solo suonato ma anche cementato un gruppo di amici e di persone che si trovano e si abbracciano. Si abbracciano da sobri e anche da sbronzi e niente, una serata con così tanti abbracci dati e ricevuti, sinceri, calorosi e lunghi e abbracciosi, era un pezzo che non la vedevo ed è stato molto bello.  

Il sogno era lì, davanti a loro.
Una fotografia 60×40, sovresposta, il charleston chiuso e l’asta che brillava di riflessi argentati in primissimo piano. Dietro, la figura del cantante, sfocata, immersa in una nube di rosso e, cos’era, fumo? Probabile.
Il futuro, in quella foto, in un piccolo locale che adesso non c’è più perché torna tutto ma non tornano i locali dove le band alle prime esperienze potevano esibirsi, esaltandosi, pure vergognandosi.
Era il millenovecentonovantotto e una novità spuntava nel sottobosco della piccola ma florida provincia emiliana che produceva band a tutto spiano, come un’officina delle note.

I BAFFODORO.

Un nome al sapore di birra e ritmiche precise, arpeggi, tre chitarre che si inseguivano lente, a tratti storte, a volte un morbido tappeto e poi lampi, inseguendo inquietudini, in oscure trame strumentali.
Il primo Ep era immerso nella NEVE.
Le basi: una lontana band di Glasgow, un pugno di reminiscenze americane, un tale di nome VEDDER e quelli come lui che a distanze di oceani parevano unire la musica e quella cosa che di solito si chiama amicizia.

La base: due parole, precise, secche, fin troppo ribadite, diventate scontate e inutili come molte definizioni.
Post Rock. Dopo, Rock.
Canzoni lunghe come gestazioni, percorsi DAL COMPARTO VUH, abbaglianti e oscuri, a seconda di come va, di come stai tu, che ascolti, che batti il piede, che ricevi un’immagine dal palco, quel palco che forse non c’è più e poi la rigiri, quell’immagine, magari per arrivare all’ESTASI DI MATHIAS RUST oppure ti fermi, tremolante come dopo avere fatto un bagno nel mare di novembre, aspettando un’AURORA che possa rischiarare tutto.

Ma prima, ricordi? Una conversazione.
Lui disse, “Lo riconosci il futuro? Dove saremo? Quanto durerà? Porteremo ancora questi cappelli? Avremo sempre queste facce? Sopporteremo le nostre rughe?”. L’altro rispose…chissà cosa rispose, probabilmente suonarono qualcosa come risposta a domande troppo impegnative.

E ancora, ricordi?
Quella foto. Tre teste piegate sugli strumenti mentre il sole se ne va, stanco mentre lascia una marmellata arancione all’orizzonte. Sarebbe da fermarsi ad ammirare, forse a pregare qualcosa, ma quelle teste non si fermano, restano, incuranti del buio che le assorbe, tanto le note saliranno, lasciandosi alle spalle molte cose, sottolineando momenti e CHE FELICITÀ NEI GIORNI DI FESTA che sono i concerti, dove la musica a tratti sembra un pretesto per tornare insieme, in gita con accompagnamento di chitarre, mentre fuori LE NUVOLE CORRONO VELOCI.

E ancora, sì, certo, ricordi?
Quante immagini di viaggi che sono stati esplorazione, mentre visitavano luoghi lontani, notti in tenda, in treno, in van ammuffiti, assimilando panorami e lasciandosi ispirare da racconti, leggende, articoli, conoscendo nomi mai sentiti, DAVID HOLM che salvò la sua anima, PHILIP KERKHOF che attaccò lo squalo, anche se le canzoni, senza testo, a volte vorrebbero spiegazioni, sottotitoli, ma poi, perché? Chi l’ha detto? C’è davvero bisogno di istruzioni, oppure, basta la musica e una raffica di fotografie attaccate a un muro a prendere polvere, a indicare una via, una vita comune?

E poi, accaddero PICCOLE RIVOLUZIONI, una voglia di crescita, la matrice sempre quella, canzoni con il cappello di lana, con il vento in faccia, guardando l’oceano, come a MILTON MALBAY. Raffiche distorte, pacata melanconia, momenti astratti come un dipinto di KANDINSKY, una piccola vena culturale, rigore formale ma, suvvia, qualche concessione pop su lunghe trame dove trovare la tua sensazione, dove puoi scegliere il filo con annessa lampadina e vedere dove ti porta, scegliere il battito che ti si addice, prendere la melodia da succhiare all’esplosione di riverberi, da fischiettare il giorno dopo, incollata da qualche parte nella memoria.
Vent’anni, e circa ogni quattro anni, una manciata di canzoni per proseguire quella conversazione partita da lontano.

E piccoli battiti, chitarre che incontravano soluzioni diverse, incontri che rifinivano la proposta, arpeggi e violinismi, FOSCO che disegna la copertina, ‘A VAGG’’, mentre fuori l’autunno era invadente ma non riusciva a vincere, raccolti in un casolare, le canzoni un’accorata preparazione per difendersi dai morsi dell’inverno che stava arrivando.

Tutto questo: un magnete, un mastice. Fatto della sostanza labile eppure solida della musica, del ricordarsi gli intrecci sonori e quelle foto appese ad una parete che non prendono solo polvere. Creare un FLUIDO70, nuotarci dentro, a volte annaspare, come in certe trame musicali, a volte esplodere, ma sempre per tornare, purificati come IL FIGLIO DELLA TEMPESTA.

E adesso: riguardale le foto.
Le vedi ferme, come quella là, quella immersa nel rosso.
Eppure se guardi bene nel corso dei vent’anni, vent’anni, li riconosci, si muovono piano ma si muovono costantemente.
Gambe che ondeggiano con le chitarre, piedi che premono pedali, capelli che svolazzano, ciuffi che cadono, gomiti che si piegano graziosi, bocche contratte, sguardi rapidi in occhi conosciuti, un inchino finale, intrecciati di sudore, applausi e infine, una, facciamo due, birra per tutti.

E, infine.

Le memorie di vent’anni possono confondersi, cambiarsi, modificarsi. Diventare epiche, modeste, sempre le stesse ma trasfigurate, come immerse in una BRUMA, che le rende instabili, incostanti, infine mutevoli.
Quello che conta, in fondo, è che dopo vent’anni, vent’anni, ci sia ancora uno scintillio nell’asta della batteria, un ragazzo davanti a un pubblico, squarci di passione che tracimano dalle chitarre e questi amici, ancora a sognare, ancora a suonare.
Ancora.
E nuovi titoli. E altri chilometri.
Per allontanarsi, per poi non perdersi.
E ritrovarsi. Ancora qua.
Ancora vent’anni e poi altri anni, fino alla BUIA LUCE che ci inghiottirà mentre la musica e tutto il resto, rimarrà.

Signore e Signori, ‘BAFFODORO’.

Baffodoro Bandcamp

Questa storia della velina nel castello

La Rocchetta è il simbolo del mio paese. E’ una fortezza medievale che si trova all’inizio di quello che adesso è il centro storico. Serviva come prima difesa verso eventuali aggressori. Aveva un ponte levatoio. Adesso è ben conservata e ci passo davanti quasi tutti i giorni.
Uno di questi giorni ci entrai per una visita a una mostra, fotografie appese nei locali della fortezza. Mentre giravo, guardai un lampadario appeso in una delle due torri e un’immagine mi piombò addosso. Iniziai a ripensare a quell’immagine. Ci costruii intorno una storia, tre settimane di un agosto in cui ero in ferie e scrivevo ogni volta che potevo.
Mi ricordo bene, mi viene da sorridere a rivedermi a capo chino che scrivevo veloce, con decine di errori di battitura, cercando di buttare fuori le parole, senza pensare troppo a come e a quanto scrivevo, sperando di non perdere il filo di quella storia, ambientata nella Rocchetta.
Poi misi in pausa il testo che ne uscì. Lo ripresi dopo qualche mese, lo corressi, tagliai parti, lo feci leggere a mia sorella che investì del ruolo di improvvisata editor, a un’amica che mi sostenne con forza cercando di scacciare le mie insicurezze.
Lei diceva “Sei uno scrittore“, io dicevo “Ma no“. Ho ragione io, non lo sono, però mi è sempre piaciuto scrivere, da quando presi un rotondo dieci in un tema alle superiori, vergognandomi dei complimenti della professoressa, a quando aprii il primo blog dove timidamente scrivevo per un seppur minimo pubblico.
Provai a presentare quel testo a pochi editori, senza trovare risposta. Era giusto, non era maturo. Però intanto anche io come tantissimi altri avevo il ‘romanzo nel cassetto‘.
Tirai fuori quel plico di fogli dopo tanti mesi. Lo riscrissi da cima a fondo grazie anche a preziosi consigli di una professionista del settore. Ne uscì la storia che avevo in mente. Ripartii a cercare editori piccoli e affidabili, alcuni un po’ più grossi e irraggiungibili, rifiutai addirittura una proposta, non mi sembrava il caso.
E poi, una sera mi decisi a mandarlo a questa casa editrice. Bookabook.
Me l’aveva segnalata un’amica dell’internet, era rimasta in fondo alla fila.
Era interessante però, con una bella grafica e libri nelle librerie che frequento. E il crowdfunding, un’opportunità.
Prima di mandare la proposta con le prime venti pagine mi dissi: “E’ l’ultimo tentativo. Se non rispondono o rispondono picche, la smetti e va bene così“. Perché a un certo punto forse anche i sogni vanno messi nel cassetto in fondo a tutti i cassetti, a prendere polvere insieme a un centinaio di pagine. Dopo qualche giorno arrivò la risposta.
Ok, mandaci il resto“. Ero a una cena e stavamo uscendo per andare alle macchine, era un paio di mesi fa.
Urlai, “Yeee“. Però poi mi misi sereno. Tanto non succede. Dopo un mese, arrivò un’altra mail. “Congratulazioni…
E dopo qualche mail e una lunga chiacchierata, è iniziata la campagna di crowdfunding per il mio ‘romanzo nel cassetto‘ per liberare la velina.
Qua trovate il link per il preordine, servono 250 copie per fare diventare questa storia un vero romanzo, questo mio piccolo sogno una realtà.
Potete leggere l’anteprima e fare passa parola, se vi piace, se vi va.
Resto uno che non si definisce uno scrittore, ci mancherebbe, però ci provo, ci spero, intanto ci tenevo a presentare ‘La velina’ qua sul blog, dove è nata un po’ tutta questa faccenda dello scrivere.
Per me è già una bella cosa.
E che la velina sia con tutti noi.

 

un post su di te, non te l’aspettavi, eeeeeeh?!?

Pochi giorni prima il concerto del #modenapark avevo scritto una cosa su Facebook. Chiedevo a chi sarebbe poi andato di ricordarsi di scrivere com’era stato partecipare a un concerto con duecentomila persone. Non la musica, la scaletta, le emozioni provate dalla platea durante il suonare. Volevo il prima e il dopo. Dettagli caratterizzanti, sciocchezze divertenti, file noiose, particolari inutili ma importanti, di quelli che fanno narrazione in poche righe. Cose così. Sapevo che, quasi, nessuno dei partecipanti avrebbe scritto una cosa simile (quasi, nessuno). Ci sta. La maggior parte ha poi commentato in coro: ‘pochi disagi, tutto bene organizzato’.
Sapendolo, mi sono divertito a seguire il pre concerto.
Cerca’ + #modenapark mi accompagnato tutto il giorno, in un rullo continuo di foto, video e hashtag in tema, #siamosolonoi #cisiamo #eccetera.
Ho visto:
gente che girava a piedi per Modena, molti avevano la testa per aria, sembrava una processione raffazzonata però garbata, un pellegrinaggio con facce fra il curioso e il concentrato, alcuni urlavano brandelli di canzoni, altri erano quasi stupiti dalla quantità di questo fiume di persone che si riversava nello spazio del parco;
punti ristoro più o meno improvvisati dove bastava l’accenno di una strofa che partiva un coro, un po’ stonato, vagamente ubriaco, forse la stanchezza dell’attesa, un po’ il caldo, mezze le birrette, giustamente;
gente sdraiata per terra a dormire nel parco nella notte fra venerdì e sabato in quella che è stata la foto più bella del weekend, purtroppo non ricordo l’utente che l’ha scattata ma meritava un poema;
altrettanto caratteristiche le foto all’alba da dentro il Pit 1 con la luce di quel giorno che sbucava dietro le torri del palco, foto quasi tutte immancabilmente vergate con un gioco di parole su un paio di titoli di inni del cantante;
immagini di gente spiaggiata su prato, sabbia, altri corpi, moltissimi selfie che reclamavano l’appartenenza all’evento, le story con panoramiche a braccio teso per mostrare quanti eravate;
foto di processioni ai bagni chimici, miste a foto di brindisi con birre di gruppetti assortiti e poi le innumerevoli immagini e video durante il concerto, le millemila sui fuochi d’artificio.
Detrattori o osservatori potrebbero dire: ‘Bé cosa c’è di diverso da centinaia di altri concerti, festival, manifestazioni sparse per il mondo’.
La risposta è molto semplice: la vicinanza moltiplicata per la moltitudine. L’evento a cui nessuno poteva sottrarsi, se abiti a cavallo fra le province di MO e RE, quello di cui tutti sapevano, tutti parlavano. Negli uffici/bar/locali/parrocchie che frequento è difficile che si parli di concerti e nel caso la conversazione termina piuttosto rapidamente.
Due settimane fa invece tutti avevano da dire la loro, tutti avevano da condividere il loro pezzo di Vasco-story. Chi l’aveva visto al Picchio Rosso, chi una sera in giro per locali, chi a un concerto qui, chi là, sotto il palco, fronte del palco, la prima canzone, eeeeh, oh!, e così via.
Gli onnipresenti tuttologi che non perdevano occasione di ricordare di quando loro andarono al ‘metti qui nome artista visto in concerto anni fa’ oppure non si lasciavano scappare di mostrare la laurea in ‘sapere cose di cui non si ha la minima idea’ spiegando come e dove stavano sbagliando gli organizzatori. Poi c’erano quelli che non si lasciano scappare la critica sociale a sfondo razzista paragonando i camperisti con la bandana del loro cantante preferito ai migranti, oppure un tipo che ha detto ‘ho visto dei negri nascondere pallet di birra per poi venderla fuori’ come se non sapesse che gli abusivi ci sono sempre stati ai concerti e che quegli abusivi (colore della pelle a parte, che una spruzzata di simpatico razzismo ci sta sempre bene) semplicemente si regolavano alla portata dell’evento. Duemila persone: secchiello, duecentomila: pallet.
Il numero degli spettatori paganti terrorizzava persone che pianificavano la fuga dalla città, non con una certa logica. E poi c’era la questione sicurezza. Per i partecipanti, sottovoce, si trattava di vincere una paura che, purtroppo, esiste.
Sono uno che va ai concerti, allo stadio. Come credo a tutti, a volte viene un pensiero sbagliato. E lì, lo scacci e vai. Fine. Perché altrimenti l’altra soluzione è stare alla tastiera a iniettare paura in qualche commento, a spargere terrore banale. E’ un riflesso deprecabile ma comprensibile, anche se spesso, chi scrive ‘speriamo vada tutto bene’ oltre che essere super gufo, da quello che vedo io, affatto stranamente, spesso non è un frequentatore di concerti o stadio, massimo della sagra di quartiere.

Come molti, ho visto il concerto in tv, mentre Bonolis veniva servito come capro espiatorio per la mancanza della diretta integrale, riservata ai cinema, mentre lui ci metteva del suo buttandoci dentro poca genuinità e molte ingenuità infarcite di citazioni fuori luogo. E poi il concerto. E mentre ancora le ultime scintille dei fuochi d’artificio che fischiavano la fine della festa erano nel cielo di Modena, la gioia, lo stupore, già il ricordo indelebile veniva socialmente riportato da molti.

Il concerto ha contagiato un sacco di gente, incluso me. La vicinanza, gli amici che sono andati, il martellare su FB nell’attesa e nei giorni successivi.
Erano anni che non ascoltavo più di due canzoni di Vasco in fila. E mi son ritrovato per giorni a fischiettarle, facendo anche qualche remix mentale coi brani, come sempre, facendomi qualche ‘eeeh’ che a me Vasco ha sempre, ma sempre, fatto ridere fin da quando lo imitavo nella tavernetta dell’amico cantando ‘Portatemi Dio’. Secoli fa.
Non cambierò idea su Vasco che ho visto in concerto due volte ma di cui non sono mai stato fan, nonostante abbia scritto canzoni che conosciamo tutti, ma che soprattutto negli ultimi anni di stadi pieni e album vuoti, è diventato un personaggio che trascende discussioni prettamente musicali, trasformandosi in un rito che nel giorno della sua messa più importante ha risvegliato tanti ricordi, innescato la voglia di riascoltare certe canzoni, di cantare quelle frasi che tutti conosciamo a memoria anche senza saperlo, quasi di ritirare fuori diari e zaini Invicta per scriverci sopra una frase adolescenziale, diventata poi generazionale. Scegli tu quale.
Un colpo da maestro, un ricordo che si è esteso anche a chi non c’era e non se ne pente anche se, lo ammetto, è stato un peccato aver rifiutato un biglietto gentilmente offertomi.
Sarà per la prossima volta.

 

Un voto, un perché

3fotoCon questo post provo a spiegare perché voterò per la lista ‘Contini sindaco’ alle elezioni amministrative di domenica 5 giugno.
Lo conosco da quando ho sei anni. E’, penso lui sarà d’accordo, uno dei miei migliori amici. Spesso siamo in disaccordo su tante cose, dal calcio, alla politica ad altro, ma non importa, anche se lui, pensa te, non beve la birra. So che se dovessi avere grossi problemi, sarebbe il primo, massimo il secondo a cui chiedere un parere, una mano, un consiglio, un aiuto.

Quando mi ha parlato mesi fa per la prima volta della sua idea di candidarsi, subito mi sono stupito, ma poi, ascoltando le sue ragioni, gli ho detto ‘Sai dove ti infili, vero? Ma vedo che lo vuoi fare, quindi fallo’.
Perché conoscendolo, appunto, gliel’ho letto negli occhi che aveva dubbi, ma nel profondo era già convinto di buttarsi in un’avventura sconosciuta.
Non è vero che bisogna avere esperienza politica per entrare in politica, altrimenti non ci sarebbe ricambio, altrimenti una cosa come il M5S non esisterebbe. E’ vero che ci sono persone così false che dividono i buoni dai cattivi soltanto perché hanno una idea politica diversa dalla loro. O la cambiano. Gente che dopo che la mia faccia è apparsa su un manifesto elettorale per la campagna di Alberto, fatica a salutarmi. Gente ridicola e risibile.
Perché sarà la prima volta che voto un partito che non aleggia nel campo del centro sinistra. Nonostante le mie convinzioni politiche e sociali non siano cambiate, penso che sia giusto provare a cambiare.
Non ho niente di particolare contro le altre liste, conosco qualche candidato, saluto Giorgio e se capita faccio due chiacchiere con lui sul basket e non penso affatto ci siano persone disoneste nelle altre liste (scusate grillini, di voi ne conosco giusto un paio ma il ragionamento non cambia).
Quello che mi piacerebbe vedere per il paese dove abito è un cambiamento e mi sembra giusto, conoscendo benissimo la persona, dare il mio voto e la mia chance a lui. Non solo perché lo ritengo una persona in gamba, sveglia, tenace, preparata dal punto di vista economico che una laurea e vent’anni di esperienza manageriale credo possano aiutare nella gestione finanziaria del paese, anche se, a differenza di gente che sostiene questo, il Comune non è un’azienda per motivi ovvi che vi risparmio.

Lo voto perché mi sembra che abbia una visione nuova per il paese che, secondo me, ha bisogno di una scossa. Certo, non sarà facile per tanti motivi. La gente digerisce a fatica i cambiamenti, i soldi delle casse comunali sono un problema e il resto mettetelo voi.
Ci tenevo a scriverlo, avere un blog serve anche a questo. A proposito Alberto, porto male eh. Di solito chi voto io non vince. E’ proprio storia, si può cercare qua sopra. Però pazienza.
Questo è il mio voto, spero mi seguano in tanti. Poi, il 6 giugno avremo comunque un nuovo sindaco e una nuova opposizione. Farò comunque il tifo per tutti, perché siamo tutti sotto la Rocchetta, sperando che questo paese possa migliorare.

P.s.: ho un sassolino in una scarpa, lo appoggio qua: la gente che ha una tastiera non è che diventi credibile solo perché la sa usare, spesso male.

Super Bowl (ahimè, in differita)

50Sono quattro anni che, mentre guardo il Super Bowl, per tenermi sveglio, per ridere, ne scrivo una cronaca personalissima, priva di ogni professionalità e capacità di analisi tecnica. Quest’anno, per non arrivare tardi al lavoro, non ho guardato il Super Bowl. Sarò diventato un po’ OLD, oppure mancava il classico posto dove guardarlo, mancavano i classici amici con cui condividere cibo matto american style, birre per rischiare lo svenimento alcoolico e russate in sottofondo (ciao, amici del SB) oppure perché la sveglia è tirannissima.
Oggi, tre persone mi hanno chiesto dov’era il post. Sono quei momenti di gioia, in formato lillipuziano, che ogni tanto, uno che ha un piccolo blog, ha. Pochi, ma buoni, per voi a posteriori, anche se non ha molto senso, ma per me sarà divertente, dopo 24hr circa, il post sul Super Bowl (visto in differita, ora che sono le 2045 del giorno dopo, via, play).
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Fausto

 

fotoArrivò sulla sua Ford station wagon blu scura. Duecentomila chilometri ‘ma tenuta come se fosse uscita ieri d’in concessionaria, eh‘.
Parcheggiò nel solito punto, di fianco agli ombrelloni che d’estate offrivano refrigerio di tela a chi si fermava per il classico panino e via.
Il frigo con le bibite lo nascondeva dalla donna dietro al bancone.
Sotto a uno degli ombrelloni, un tizio fumava una sigaretta, leggendo un giornale sportivo che nel titolo ironizzava sulla disfatta brasiliana ai mondiali. Fausto si ricordò della sera prima nella solitudine della sua casa, davanti alla tv, quando fu contento di addormentarsi dopo il quarto gol tedesco, sicuro, per una volta, che il risultato non sarebbe cambiato.
Estrasse dal portaoggetti una lametta usa e getta di colore azzurro spento e si passò il rasoio sulla pelle rugosa. Si accorse che il tizio lo stava guardano. Lo sfidò con lo sguardo, i suoi occhi chiari a dire ‘Cosa c’è? Non posso sistemarmi la rasatura?’. Il tipo tornò ad interessarsi delle ultime povere notizie sul calcio mercato per poi spegnere la sigaretta e sparire nel parcheggio, fra camion con targhe straniere già fermi per la notte. Fausto si controllò il mento passandoci una mano sopra. Un ultimo colpetto di rasoio sotto un labbro e poi ripose lo strumento nel portaoggetti. Si specchiò nel retrovisore, dandosi una sistemata al ciuffo di capelli bianchissimi, sistemò gli occhiali e uscì nell’umido della sera.
Quattro passi ed entrò in bar.
La donna dietro al bancone lo vide entrare dando una rapida ed esperta occhiata allo specchio sistemato fra la macchina del caffé e lo scaffale dei superalcolici. Impiegò più del dovuto per sbarazzarsi dei fondi di caffé  e si girò con uno scatto della testa.
‘Vé Fausto’
‘Ciao’
‘Come stai? Cosa fai qua quest’ora?’
‘Eh, devo andare a prendere la piccola danzatrice che la mamma è in ritardo al lavoro’
‘Ma che bravo che sei’.
Si guardarono, loro due, soli, nel locale.
‘Cosa ti posso dare?’
Lui esitò per poi ordinare un Campari con poco vino.
‘Non ti fa mica male vé un goccio’ disse lei mentre abbondava nell’aggiungere vino bianco fermo al rosso analcolico. Fausto prese il bicchiere bevve un sorso e disse ‘Tu? Il tuo ginocch…’
La voce rimbombante di un camionista enorme con addosso una canottiera sudata e penzolante riempì il piccolo bar come un vento caldo, interrompendo Fausto. ‘Signoraaaaa, mi dai una coca ghiacciata che sto moreeendo di sete’.
La donna rivolse un sorriso a Fausto e rispose all’omone, alzando il tono della voce. ‘Bé ma cosa urli, son mica sorda vè’.
Fausto squadrò l’uomo che si curvava sopra la pancia prominente per scegliersi un panino con frittata dai fondi di giornata rimasti dietro la vetrina del cibo. L’uomo chiese di scaldare il pane e iniziò a raccontare alla donna la sua giornata. Fausto aveva sempre saputo stare al suo posto, portò il suo bicchiere al banco dei giornali e lesse qualche notizia locale bevendo il suo aperitivo.
Gli arrivò un messaggio sul cellulare. Scorse il visore lentamente e poi finì il suo drink. Tornò al bancone dandosi il cambio con l’omone che stava parcheggiando la sua mole su uno sgabello già biascicando vorace il panino.
Alla smorfia di disgusto sul viso di Fausto, rispose un sorriso della donna.
‘Vai di già?’
‘Sì, vado’
‘E com’è la ballerina? Brava?’
‘Non me ne intendo molto, mi sembra si impegni, quello sì’
‘Dai che i nipoti sono l’unica gioia che ci resta’.
Fausto guardò sopra allo specchio. La foto ritraeva il marito della donna coi tre nipoti, pochi giorni prima dell’infarto finale. Il suo amico, con cui avevano passato troppi venerdì sera a fare tardi in quel bar a bere e giocare a carte. Fausto a casa aveva una foto simile. Ritraeva la moglie con la piccola ballerina, un paio d’anni prima della malattia fulminante. Specchi.
‘Cosa ti devo, che scappo?’
‘Due euro, dai’
Lei si chinò appena sulla cassa per cambiare una banconota e lui riuscì a vedere un fiocchetto bianco, nello spiraglio fra i due bottoncini della camicia senza maniche che stringeva il seno prosperoso per cui aveva perduto la testa tanti anni prima, quando tutti le facevano il filo.
‘Anche passare a trovarti è una gioia’ le disse di corsa.
Lei ebbe un lampo negli occhi che scacciò con un gesto della mano, come una mosca fastidiosa.
‘Ma va là, Fausto!’ disse, controllando l’unico altro cliente nel bar.
Il camionista nemmeno li ascoltava mentre sbriciolava pezzi di pane su un giornale spiegazzato.
‘Torna a trovarmi, dai’.
Fausto riguardò la foto, sorrise.
‘Certo, a presto, buonaserata’.
Salì sulla Ford, sentì in anticipo i morsi della sua poltrona che lo attendevano a casa, pensò al sorriso della nipote, sicuramente troppo sudata in quel tutù bianco troppo stretto, pensò che prima o poi avrebbe trovato il coraggio, che una sera non avrebbe guardato quella foto.
Ci sarebbe stata la festa del paese qualche settimana dopo. Allora sì che avrebbe avuto l’ardire, sì. Fausto avviò la macchina. Buttò uno sguardo alla vetrata esterna del bar, vide la donna parlare col camionista. Per un attimo Fausto pensò che lei lo stesse guardando. Sì, avrebbe trovato il coraggio. Ingranò la marcia, la Ford fece uno scattò e partì.

 

Copa da Cerveja

Ho un rapporto conflittuale con la nazionale di calcio. Per motivi che non sono solo calcistici.
Perché il codice etico ahahah; perché i giocatori della Juve mi stan sempre antipatici, anche con la maglia azzurra; perché la gente che si ricorda dei mondiali e poi sputa sul calcio il resto degli anni, anche no; perché il nazionalismo aperto solo per il football mi sembra uno spreco e altri motivi più o meno importanti.
Però, come ricordava ieri un mio amico, quando poi son davanti alla partita, scatta quel black out della logica da cui nasce il tifo. Lui si ricorda benissimo della mia esplosione di insulti folli verso la tv e i santi e il resto del mondo, dopo la sconfitta con la Slovacchia nel 2010.
Insomma, a me il calcio piace e quando arrivano i mondiali sono, come dice l’ottimo John Oliver nel video qua sotto, both excited and extremely conflicted about it.

Il mondo va così, un po’ di merda, e mentre noi ce ne stiamo a scrivere post di vario genere sui mondiali c’è gente che manifesta e viene menata. Al riguardo, leggetevi anche questo, magari. E anche un pezzo sulla mafia pallonara, magari bis.

Dopo il momento del moralismo da smartphone, inizio questa rubrichina, che avrà cadenza casuale detta anche ‘nonsisacomeoquando‘.
Il titolo è ‘Copa da Cerveja‘, coppa della birra.
Che non sarà l’orrida Bud, sponsor senza scrupoli (vedi, ancora, perché andrebbe visto molte volte, il video di cui sopra) e senza gusto, bensì saranno le birre del bar.
Non ho Sky, non lo faccio e mi guarderò le partite, mica tutte eh, appunto nel bar che frequento di solito.
Due schermi grandi, un frigo grande, con molte birre import formato 50cl.
Chi volesse aggregarsi e scrivere dei post a tema mondiale+birre, ‘Copa da Cerveja‘, è ovviamente libero di farlo, qui (mandatemi una mail) o dove vi pare.
#copadacerveja hashtag ufficiale della manifestazione, per il LOL.
Regole: una foto della birra che stai bevendo mentre guardi una partita, con magari lo schermo tv sullo sfondo e qualche riga più o meno alcoolica sul match, un giocatore o l’ambiente che ti circonda.
Continue reading “Copa da Cerveja”

digital paesello

Il cinema del paesello ha resistito a tutto. Apertura di multisale, crisi economica, diktat della distribuzione, offerte immobiliari, cambi generazionali. Eppure, è sempre al suo posto.
Fuori, la rassicurante scritta al neon, il cartoncino con la scritta rossa su sfondo bianco ‘Questa sera’, attaccato con le puntine sopra alle locandine. Dentro, il velluto che ricopre le pareti della sala e trattiene anni di emozioni cinematografare, di bambini che ridono, ragazze che si commuovono, anziani che passano il tempo, coppie che si tengono per mano, maschi che si esaltano per un paio d’ore.

Il cinema del paesello però non ha resistito alla tecnologia. Digitale. Prendere o lasciare. Fine delle pellicole, delle ‘pizze’, che costano troppo, prendere o lasciare. Per nostra (plurale paesello maiestatis) fortuna il gestore ha detto sì al cambiamento, ok alla rivoluzione digitale.
Il termine rivoluzione non è casuale. ‘X-Men’ è stato il primo film proiettato in digitale nel cinema del paese. Sessantuno anni dopo l’apertura. Il numero me l’ha detto il gestore del cinema, mentre, curioso e grato per la cortesia, ero con lui a vedere la novità.
Alla sala proiezione si accede salendo una stretta scala di cemento che sbuca in una stanza dove al centro ora troneggia il proiettore digitale nuovo di zecca. Una specie di computer da tavolo più grosso, con le ventole che vanno fortissimo e vari led. Sul tavolo, un bloc notes a quadrettoni con gli appunti per lo spegnimento, perché “ho dovuto fare un corso accelerato per imparare come funziona”, perché se accenderlo è un attimo, per spegnerlo occorre raffreddarlo.
Poi, non è che facciamo troppo i sentimentali, che il digitale va bene, i film si vedono ovviamente meglio e il gestore ha anche la comodità di avere un computer di fianco alla cassa, al piano terra. Un gesto del braccio, invio, e voilà, si parte con la proiezione.

Ma mentre diceva sessantuno, quel numero di anni di lavoro in celluloide che è enorme se ci pensi  – e sarebbe ancora più bello sapere il numero dei film proiettati in quella sala, dalle rassegne con cento titoli a poche lire, a ‘Titanic’ che rimase in programmazione un mese e forse più, ai film d’essai con sempre meno pubblico, alle domeniche con la doppia proiezione coi cartoni al pomeriggio e i drammatici alla sera, alla paccottiglia pseudo tv ai Marvel moives –  e, dicevo, mentre sottolineava che “Dopo sessantun anni mi è toccato cambiare tutto qua”, il gestore ha dato uno sguardo, quasi una carezza caritatevole ai due proiettori, parcheggiati ai lati della sala, che sembravano animali da divertimento, ingobbiti sotto il peso degli anni, ma anche un po’ fieri di avere caricato tutti questi rulli, essere stati la colonna portante di un’istituzione.
E mentre diceva quel numero, qualche frammento di tutti quegli anni gli dev’essere passato davanti, la memoria un proiettore in costante aggiornamento e per un attimo avrei voluto abbracciarlo forte e dirgli ‘Grazie’. Grazie, gliel’ho poi detto lo stesso.
Bella Cocco, daje sempre.

 

xIl nuovo ‘X-Men‘, è figo e lo dico senza essere fan dei mutanti. Il giochino dei salti temporali alla base della trama è sempre rischioso, qua viene usato in maniera piuttosto brillante, per prendere il meglio, diciamo pure la figaggine, della saga dei mutanti.
Ci sono tutti i vostri preferiti, una epicità gagliarda e non ci si annoia mai. Già annunciato il prossimo per il 2016, ma visto che questo capitolo mi è sembrato piuttosto… ‘completo‘ diciamo, voglio proprio vedere cosa tirano fuori. La piccola scena in preview post titoli di coda non dice molto, ma insomma, aspettiamo e  vedremo.

 
Imperdibile, anche se non vi piace Tom Cruise, è ‘Edge of tomorrow‘.  La trama comeldr ho letto in giro, mescola ‘Groundhog day’ e ‘Indipendence day’, giorni e battaglie che si ripetono, combattendo l’invasore alieno. Fantascienza da blockbuster, un ritmo impressionante, belle battute, azione d.o.c., alieni con spire e Emily Blunt che ogni volta appare sullo schermo il mio cuoricino sussulta perché poi ho le mie debolezze. Alla fine della proiezione ero entusiasta come veramente poche altre volte negli ultimi anni, è passato qualche giorno e ne scrivo solo ora. Adesso che ci penso lo voglio rivedere.

East Paesello Rutherford, Super Bowl night

BfZQ2-xIAAASoGqIl pronostico sulla partita è fatto. Vince la difesa migliore contro l’attacco migliore. I ragazzi sono presenti. Siamo in tre, quelli più affezionati al gioco, quelli che sono anni che si trovano per il rito. Uno è reduce da una giornata coi figli. Pronostica Broncos. Alla presentazione delle squadre si gasa e cambia idea. L’altro, reduce da una giornata sul divano. Tifoso dei 49ers, ovviamente va con Denver. Io, reduce dalla piccionaia del palazzetto, metto la maglietta da ‘12th man‘ ma se vince Denver, pazienza. Ah, c’è anche un quarto ragazzo, ma dichiara che guarderà due azioni che la sveglia del mattino è implacabile. Nel nostro paesello il Super Bowl si gioca nello stesso posto tutti gli anni, a casa del tifoso 49ers. Abbiamo il camino acceso, la tv mega sintonizzata su Fox Hd, game pass acceso per non perdere un commercial, stiam bevendo un ottimo caffè, abbiamo un sacco di patatine, biscotti, troppa birra, pure del vino. Qui sul blog e non su twitter per non avere il limite dei 140 caratteri (e per tenermi su una sedia scomoda) scriverò un pochetto quello che accade al MetLife Stadium, East Rutherford. Sono le 00:10 Queen Latifah col Moncler canta ‘America the beautiful‘ insieme a un coro di vocine bianche del NJ. Continue reading “East Paesello Rutherford, Super Bowl night”

la decadenza sui ricordi

Chissà quante macchine passano davanti a quell’edificio, soprattutto al mattino presto, per portare i figli a scuola o correndo ad occupare sedie reclinabili.
Chissà in quante di quelle macchine che percorrono quella strada è seduta una persona che è stata dentro l’edificio, che ora giace esanime sul lato della via.
Chissà a quante di quelle persone scappa l’occhio, scatta un pensiero, esplode un ricordo.
In una giornata grigia, l’edificio grigio, lasciato alla deriva, come un’isola del passato, si confonde con l’ambiente. Un camaleonte di cemento, si mimetizza per non farsi trovare, qualche edera che si inerpica sui muri, qualche ciuffo d’erba che ha invaso i marciapiedi. Un vecchio signore decaduto, che non vuole farsi riconoscere, si nasconde. Di notte gli vien facile, se ci passi davanti trovi un muro nero, nessuna luce a illuminare un relitto.
Il nome sbiadito sull’insegna, l’ultimo tentativo di risollevarne le sorti, un guizzo fuori tempo massimo, mentre la grandeur delle discoteche grosse scompariva, le nuove generazioni impegnate in altri divertimenti, il divertimento dislocato presso altri luoghi.
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Quando il passare lungo quella via nelle serate di venerdì e sabato per un pubblico ‘maturo’ e alla domenica pomeriggio ‘per i più giovani’ era una unica lunga fila per parcheggiare, un buttare l’occhio sulla minigonna, un saluto volante da un finestrino, un casco da ancorare alla ruota del motorino con una catena robusta, il locale era un monolite brillante, invitante, le luci fuori e le vetrate che riflettevano allegria.
Dentro, le calze velate, le gonne a palloncino, le spalline esagerate, i giubbotti di montone, i gilet (cazzo, i gilet!), il gel nei capelli, i capelli lunghi, i paninari che erano ancora là, ma se ne stavano andando, le frange sapientemente arrotondate con il phon, gli ombretti perlescenti, la lacca nella borsetta, montagne di fard, la marlboro sempre in tasca, la permanente bisex, le giacche scelte con cura, le scarpe da grandi.
Lampadari esagerati e sfavillanti, velluti imponenti ma che davano un tono. Le scale un punto di osservazione, la mischia al bar una zona di perdizione.
La grammatica discotecara era già formata. Si faceva socialità e il passaggio di una telecamera era un evento, gli sguardi che la sfioravano, facevano finta di schermirsi, seppur ammiccando a chi avrebbe detto ‘sei al notiziario locale’.
La fila fuori non per mostrare che dentro c’è già confusione ma perché i riti delle tribù erano simili, quasi sincronizzati, tutti ci si trovava alla mezza, nell’atrio. Bagarinaggio di biglietti omaggio, richiesta di tagliandini ‘free drink’, piccole contrattazioni concluse con strizzate d’occhio o di spalle. I soprabiti da parcheggiare e poi dentro a buttare lo sguardo per vedere se la geografia era cambiata, ma non cambiava mai.
Vigevano regole ferree di proprietà territoriale. Qualche faccia nuova, sì, ma si poteva fare affidamento sulla presenza degli autoctoni nel bar a destra o nel privée di sopra, mentre a quelli che arrivavano da fuori provincia era riservato il bar dietro la consolle del dj, dove ammassavamo bicchieri di prosecco come piccole luci che brillavano del nostro stordimento serale.
La pista era una zona franca dove ci si esaltava ballando house music con battiti rassicuranti e tutti uguali, alternati a raffiche di successi pop con canzoni che avevano le stesse parole di amore o di voglia di amore che molti pensavano, ambivano, provavano. Nella danza si spiavano le mosse invitanti o ingenue delle ragazze, incrociando sguardi di rivali che non sapevano ballare ma occupavano il territorio. Se eri fortunato finivi su un divanetto, drink e abbracci.
Erano poche ore che a volte sembravano intense, a volte erano il ripetersi di riti necessari. Al termine, si andava, un bilancio presto fatto accompagnava l’ultima sigaretta nel parcheggio.

Chissà se l’hanno spolpato il locale. Se avvoltoi del ricordo si sono buttati dentro e hanno preso un pezzo di tappezzeria, un brandello delle pacchiane colonne da basso impero che circondavano il bar a piano terra. Se imprenditori speranzosi lo hanno smembrato per riconvertirlo in progetti abitativi, se l’impianto luci è stato tolto o se è rimasto lì dov’era, occhi stanchi a ricoprirsi della ruggine degli anni e della polvere dei ricordi.
Magari, dentro c’è un drago enorme, che dorme in attesa, come nello ‘Hobbit’.
Non aspetta niente, se ne sta lì fermo, a proteggere frammenti della nostra gioventù. Spicchi di mirror ball caduti a terra, stanchi di attendere che un dito sposti il selettore su ‘On’, pezzetti di vetro come paillettes ancora luccicanti, ognuno capace di portare alla memoria un’immagine che racconta una storia più grande, fotogrammi che se messi insieme, oplà, sarebbe come tornare vent’anni indietro, quando il sabato sera era il centro del mondo e la solita serata in discoteca il fulcro di una settimana.
Fin quando un cavaliere arriverà brandendo una spada lucente e li libererà per portarli da un’altra parte meno grigia, dove quei luccichii, matrice di come eravamo e di come siamo adesso, riprenderanno a brillare.