quegli otto, in settanta millimetri

 

Ah, Tarantino.
Il suo nome è una garanzia, uno dei pochissimi registi che coniuga autorialità e incassi (o, meglio, che piace quasi a tutti). Per questo nuovo lavoro la critica spiccia da social si è spaccata fin da prima che il film uscisse, forse terrorizzata da qualche recensione non propriamente entusiasta. E’ quindi scattata la classica divisione curvaiola con pregiudizio incorporato. ‘Ti piacerà’ vs. ‘ti annoierà, Tarantino non è più lui’.
Gli appartenenti al secondo ‘partito’ portano la t-shirt ‘era meglio quell’altro film‘, uno qualunque della ormai lunga filmografia quentiniana, preso a sproposito in un paragone a caso, oppure si rifugiano in un angolo della sala con un panno con ricamata la scritta ‘è troppo lungo‘ oppure ‘non succede niente‘.
Può non piacere un film di Tarantino, certo, ma sempre, sempre, è manna per chi ama il cinema. In questo mescola i generi, dal giallo (dieci, o otto, piccoli indiani con pistole, non penne) allo splatter-horror con pallottole che fanno esplodere facce, al grottesco (perché mentre il sangue cola non riesci a non ridere o sorridere) per finire, ovviamente, al western con bonus di storia americana. E tutto questo lo vuoi far durare meno di due ore e mezza? Che poi io ho visto la versione più lunga. Quella ‘speciale’, ma ci arrivo dopo, forse sarò prolisso, come Quentin, anche se non sono, ahimè, lui, che scrive dialoghi e caratteri di un film veramente notevole che riempie gli occhi e anche le orecchie.
Capisco le critiche, anche alla durata o ad altro. I dialoghi sono meno brillanti? E’ un film diverso dagli altri. Tarantino fa sempre lo stesso film? In un certo senso sì, questo semplificando è una sorta di  ‘Le iene’ con i cappelli. E’ molto teatrale come impianto, quasi tutto al chiuso di una carrozza diretta verso la fine e dentro un capanno con la porta rotta. Ma siam sempre, lì. E’ Tarantino. Fare la classifica dei suoi film più belli è esercizio mnemonico e da chiacchiera, ma anche questo è un film girato da dio, interpretato alla grande, con il commento sonoro di Morricone che funziona benissimo, panorami anche in interni (quanto è grande l’emporio? A tratti sembra enorme) e con momenti clamorosi. La verbosità di Tarantino è un marchio di fabbrica ma non è fine a se stessa. Tesse la tela e poi fa il maglione di pelliccia con fili di sangue. Ti fa chiedere chi è il colpevole, ti fa tifare per tutti e per nessuno.
‘The Hateful Eight’ è un gran film.

(versione speciale, ti danno anche un libretto)
(versione speciale, ti danno anche un libretto)

Sarebbe da vedere in lingua originale ma non c’è niente da fare. Sto muro culturale, con mastice di pigrizia, non si abbatte. Ne parlavo anche l’altro giorno con un ventitreenne. ‘Eh, ma che fatica leggere i sottotitoli’. Appunto.
In lingua originale non perdi le inflessioni vocali che caratterizzano i personaggi, come l’incredibile accento di Goggins, mio uomo da ‘Justified’, mio preferito del ‘pack’ tarantiniano in mezzo alla tempesta nel Wyoming.
Per vederlo in V.O. sono andato a Bologna. Come andare a un concerto. Autostrada, pedaggio, perdersi un momento nelle vie, parcheggiare, un panino e dentro.
Questa ‘versione speciale’ può essere vista anche come uno sguardo su un possibile futuro della fruizione cinematografica, con film che diventano ‘eventi’, pensati e girati in maniera particolare e sale che diventano contenitori non solo di film. Tarantino ha girato in 70mm come si faceva non solo una volta, ma solo per certe pellicole, di successo quasi annunciato (tipo, ‘Ben Hur’). Purtroppo lo schermo del ‘Lumière’ (complimenti, che bel posticino) non è sufficientemente grande per rendere appropriatamente il ‘formatone’ ma la profondità si coglie bene, ancora di più negli interni. La versione speciale dura di più e c’è la voce narrante del regista in un punto del film (credo sia anche nella versione ‘digitale’ delle sale normali, il momento con la voce ‘off’, fatemelo sapere).
Sì, è un po’ un trip da cinefili, però non solo, a parte che un film così (come ‘Revenant’, per dirne un altro) è da vedere al cinema, non si discute.
E insomma, ne è valsa la pena andare, giudizio personale sul film a parte.
A questo link, qua, c’è un preciso articolo sul futuro di certe sale, sulla tecnica dei 70mm, leggilo, dai.
Andatelo a vedere, comunque. Fate ancora in tempo, ‘Bushwackers!’.
A meno che non abbiate paura che vi si rattrappiscano le chiappe a stare seduti per quasi tre ore. Nel caso: ‘Bang!’’.

Super Bowl (ahimè, in differita)

50Sono quattro anni che, mentre guardo il Super Bowl, per tenermi sveglio, per ridere, ne scrivo una cronaca personalissima, priva di ogni professionalità e capacità di analisi tecnica. Quest’anno, per non arrivare tardi al lavoro, non ho guardato il Super Bowl. Sarò diventato un po’ OLD, oppure mancava il classico posto dove guardarlo, mancavano i classici amici con cui condividere cibo matto american style, birre per rischiare lo svenimento alcoolico e russate in sottofondo (ciao, amici del SB) oppure perché la sveglia è tirannissima.
Oggi, tre persone mi hanno chiesto dov’era il post. Sono quei momenti di gioia, in formato lillipuziano, che ogni tanto, uno che ha un piccolo blog, ha. Pochi, ma buoni, per voi a posteriori, anche se non ha molto senso, ma per me sarà divertente, dopo 24hr circa, il post sul Super Bowl (visto in differita, ora che sono le 2045 del giorno dopo, via, play).
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gennaio, playlist (seconda parte)

 

At the movies

 

dcfsRevenant

Ok, Di Caprio avrà il suo Oscar perché l’Academy premia gli attori che prostrano il loro fisico alla recitazione, per ottenere il premio massimo. Non importa. ‘Revenant’ non è un film indimenticabile. Lo potrebbe essere non fosse concentrato tutto sulla tecnica (incredibile regia a mano, suggestive e spettacolari inquadrature, fotografia che è una roba da restare a bocca aperta). Però, il film dura troppo e perde di presa sullo spettatore nella ripetitività dello schema del ‘sopravvivere contro orsi, betulle, indiani, freddo, gelo, carne cruda’. Dopo un po’ scatta una mezza noia. Poi, oh, bello è bello eh, peccato non rimanga tanto altro oltre a un senso di freddo. Inarritu oltre a piazzare la macchina da presa dove vuole, ci tiene tantissimo a mostrare che è un ‘artista’ mollando un po’ a caso scene di visioni mistiche, vaghi accenni storiografici e l’ultima inquadratura che non spoilero perché se no vien lunga.
Tre stelle e mezza, via che alla fine si gode anche di estetica, combattimenti con la camera in faccia agli attori, bomber Tom Hardy e tomahawk in faccia.
(qua, un pezzo in inglese che giudica il film ‘pain porn’ con una riflessione sulla violenza mostrata nei film che è criticabile o discutibile ma interessante)

Steve Jobs
Flop al botteghino in patria, probabilmente non verrà considerato agli Oscar perché è più giusto premiare il film che viene dal freddo di cui sopra, ma questo film è bellissimo. E lo so con certezza ora che mi trovo a scriverne. Ricordo benissimo i passaggi, la forza del walk and talk di Sorkin (che, pare aver ‘inventato’ lo sganciare argutissimi scambi di parole mentre i suoi personaggi camminano a caso e questo fin da ‘The West Wing’), la regia silenziosa ma sicura di Boyle,  le eccellenti interpretazioni di Fassbender che regala un Jobs perfetto nelle sue profonde imperfezioni e degli altri comprimari con cui si confronta prima di tre keynote, quei momenti in cui Jobs presentava le sue ‘creature’. Tutto questo senza scomodare la frase da smemoranda per quarantenni col trip della mela che ci ammorba ancora e l’agiografia, ma anzi regalando un personaggio che, indubbiamente, ha fatto un pezzetto di storia moderna, che ti sta antipatico e però più simpatico. Può anche essere un film inutile, di sicuro è cinema potente, ben scritto e ben recitato. E avrebbe meritato se non più pubblico, almeno più considerazione mediatica.
Ps.: all’uscita del cinema, l’ho sconsigliato (tanto per farmi i fatti miei) a una coppia di settantenni che scrutava i cartelloni dei film in programmazione. Lei: ‘Questo è quello di quel tizio, l’informatico‘. Lui: ‘Decidi tu‘. Io, non richiesto, dopo avere incrociato lo sguardo della signora: ‘E’ un film molto parlato…‘. La signora fa un tiro di sigaretta col bocchino, mi guarda con vago disprezzo, non mi dice niente e fa al marito ‘Andiamo a vedere ‘La corrispondenza’, và‘.

Creed
Di questo si parla perché Stallone vincerà l’Oscar per migliore attore non protagonista. Premio che non gli darei, perché insomma, che gli frega a Stallone? Però il giorno dopo ci saranno cento .gif e venti video che ci faranno ridere e pure un po’ applaudire. Il film è quello che ti aspetti. Se ti chiedono ‘mi racconti la storia senza averlo visto‘, non la sbagli, la storia. E’ un reboot con tante piccole belle cose di rimandi al primo ‘Rocky’ e anche di bravi attori e scene in palestra che son sempre meglio, senza il gasarsi basico, degli incontri per il titolo. La domanda giusta sarebbe: me lo ricordo ‘Creed’ fra un paio di mesi? La risposta è, credo di sì, per almeno due scene. Può bastare. Tre stelle (quella sul petto, Sly ce l’ha da un pezzo, agli occhi di noi ragazzini che ogni scalinata che vedevamo la correvamo sognando una cintura da champ, senza però lividi in faccia)

Joy
Le cose buone, prima. Jennifer che ha sempre cuoricioni e occhioni e ci prova, fin troppo. La storia della tizia che ha inventato il MOCIO come lo conosciamo non è che sia la storia più interessante di sempre, però lo potrebbe essere, che una volta mi dissero che non importa la storia, quanto come la racconti. La musica, tantissima, bellona.
Le cose che non vanno. La musica, tantissima, bellona e che tappa i buchi di interesse, entusiasmo e script molle per una storia che potrebbe ma non funziona. Non me ne intendo di sceneggiatura ma mi è sembrata proprio raccontata male, priva di alcuna presa sullo spettatore. I mille primi piani che forse dovrebbero dare la famosa ‘intensità’ invece, no. La recitazione eccessiva di Isabella Rossellini (per cortesia, non scritturatela mai più, grazie, ma basta) o la recitazione ‘ho il mutuo’ di De Niro (che avrà tanti mutui da pagare e continua a fare un sacco di filmacci, ma poi, oh Bob, si scherza, dai, sei sempre nei cuori di tutti) e altre scelte narrative che lasciamo perdere. Peccato, perché il team di Davidone O.Russel ci è sempre stato simpatico. Occasione perdutissima.

 

 

Cinque canzoni in cuffia

 

David Bowie – Lazarus
La mattina dell’undici gennaio avevo appena cliccato play sul disco di Bowie. Era un lunedì. Poco dopo leggo una riga di notizia. Uno degli artisti più importanti e influenti del secolo era morto. Lo sapeva e ha lasciato questo disco come lascito. Un disco bellissimo che regala pattern jazz a canzoni pop rock, un testamento, eccetera, che ne avete letti di pezzi sul Duca bianco di gente molto più preparata di me. Non son mai stato suo fan ma enorme rispetto. E chissà che, come ha influenzato decadi di musica, adesso non possa influenzare future produzioni chiamando gente jazz a suonare cose pop rock. (video)

NZCA LINES – Two Hearts
Roba di fine 2015 approdata nel mio piccolissimo dancefloor a inizio mese. Electro pop e you should be dancing e prima o poi qualcuno mi porterà a ballare. (video)

Lewis Del Mar – Malt Liquor
Reminescenze degli Alt-J, coretti, bella robina, consigliata dai boss di ‘Going Solo‘. (video)

Tiggs Da Author – Run
Questo pezzo ve lo trovate in tutte le spiagge fra qualche mese. Credo. E comunque sto tizio prima o poi farà uscire l’album pieno di croccantezza soul e passettini di balletti. (video)

Iggy Pop – Break Into Your Heart
Una rock legend, come si dice, un chitarrista che si avvicina allo stesso status, un batterista che è mio idolo personale perché picchia(va) come un fabbro con le scimmie. Una volta si chiamavano super gruppi. Insomma, non ci si sbaglia. (video)

 

 

Sul comodino

Don Winslow – Il cartello
Il segreto per affrontare un libro di ottocentosettantasei pagine è attaccarlo duramente. Mettersi lì un pomeriggio o una sera e spararsi la cento pagine subito per entrare nel meccanismo e nella sintonia coi personaggi, col linguaggio, con la storia. Farsi venire l’appetito per le restanti pagine che poi seguiranno. Se poi l’autore è abilissimo nel rinserrare le fila della storia, in un libro dove i personaggi non mancano di certo, allora vai tranquillo. Poi, come si diceva da qualche parte, i libri lunghi presentano altra caratteristica. Diventano amici del lettore e quando arrivi alla fine sai già che ti mancheranno. E sì, mancano Keller e Barrera, agente Dea e boss dei narcos. Manca la lunga (e vera, molti fatti del libro sono accaduti e se ti fermi a pensarci vien voglia di abbandonare il mondo e la sua crudeltà, per quanto ti sia sconosciuta, nei suoi aspetti più folli e violenti, come sistemare membra umane ai piedi di una statua) storia della lotta alla droga che diventa qualcosa di più si semplice ‘operazione di polizia’.
Bellissimo, da leggere tutto d’un fiato, con osservazioni intelligenti e mai pedanti su potere, politica, media strategy applicate alla violenza, roba da scriverne paginate. Cinque stelle secche e spietate come un killer di una plaza. Per chi ha amato ‘Narcos’, per uomini che non leggono molto, per chi si vuole avventurare nel gorgo di una narrazione precisa e strabiliante. Plomo o plata, come sempre.

(la sezione ‘Sul divano’ era nella prima parte di gennaio)