il secondo del tuffatore

 

dwnAlla fine lo aveva accontentato. Erano giorni che spingeva. Diceva: “Andiamo via qualche giorno, ci farà bene”. Ripeteva: “Perché restiamo a casa, è tutto chiuso”.
Non aveva torto.
A parte la fila al mattino in uno dei pochi bar che resistevano all’esodo agostano, per il resto la gente era come se fuggisse dai raggi del sole, come fossero proiettili laser da evitare, apparendo per rapidi blitz al supermercato vicino casa per poi sparire a ripararsi dall’afa. Perfino i cani che animavano il parco erano spariti. Li immaginavo sdraiati sulle piastrelle in corridoi casalinghi piuttosto che abbandonati.
I pochi che lavoravano si rifugiavano nell’aria condizionata dei loro uffici.
Perfino la gelateria aveva esposto un cartello, scritto a mano, evidentemente frutto di una scelta dell’ultimo minuto: ‘Si riapre il 19 agosto‘. La gelateria che chiudeva in estate era lo specchio perfetto di un paese che non cambiava mai, che esigeva le vacanze forzate con corollario di file, foto da esibire con il mare all’orizzonte e racconti tutti simili da snocciolare dopo lo stress da rientro.
Mi ero inventata ogni scusa per evitare una vacanza. Avevo portato documenti del lavoro a casa, chiesto comprensione perché ero stanca e “Per quest’anno potremmo risparmiare e inventarci un viaggio a settembre”. Lui era stato paziente, accontentandomi.
I primi giorni, le olimpiadi erano state un buon refrigerio.
La stanza con lo schermo gigante e l’aria condizionata, gli sport di cui non capivo niente, la facilissima retorica olimpica, qualche storia interessante di atleti che brillavano per un paio di settimane per poi scomparire.
Lui spariva per lunghe sessioni di bicicletta o di corsa come in cerca di una medaglia d’oro privata. A volte andava pure a nuotare. “Saremo a casa noi due, perfino la piscina chiude”. Non ci credevo, era impossibile. Mi fece vedere la foto del cartello affisso all’ingresso.
Tornava dalle sue sessioni sportive con un film noleggiato per colmare i buchi delle nostre assenze al cinema, leggeva un giornale dalla prima all’ultima riga, appoggiando commenti sul calcio mercato che lasciavo cadere nel nostro vuoto poi si addormentava pochi minuti dopo il secondo tempo.

Quella sera che concessi una seconda, o forse era l’ennesima, possibilità alla nostra relazione, a cinque ore di fuso orario le tuffatrici si libravano in alto, si avvitavano e pluff! finivano in acqua. Mangiavamo silenziosi, insalata poco condita, una bistecca da dividere un terzo io e due terzi lui, un comodo divano che ospitava poche parole, mentre le ferie passavano stanche, nella placida sicurezza di una relazione che non aveva picchi, ma nemmeno collassi.
Pensai a quel secondo in cui il tuffatore si librava in aria.
Quanto pesava un tuffatore in aria? Apparentemente pochissimo, come se i chili li lasciasse in quell’istante in cui si spingeva in aria, per poi contorcersi, piegarsi, toccarsi, avvitandosi, rapidissimo ed elegante, prima di riprendere il peso perduto e infilarsi dritto come un piombo nell’acqua che diventava un buco accogliente.
In quel secondo di gesti ripetuti mille volte in allenamenti (ma dove si allenava questa gente?) il tuffatore si giocava l’opportunità, a volte la carriera, eppure sembrava così libero mentre si lanciava nel suo secondo di possibile gloria.
Mentre sparecchiavo glielo dissi. “Prenota, facciamo ferragosto via…”.
Lui mi saltò addosso per abbracciarmi. Quella notte facemmo un sesso sudato e ritmico, senza grazia in lenzuola stropicciate.

Andammo. In macchina lui era un continuo commento sullo stile di guida degli altri, insopportabile come un tormentone estivo che la radio proponeva troppe volte. Eppure, a volte aveva ancora una battuta vincente, uno scatto dove trovavo conforto, uno spazio dove andavo alla caccia del nostro oro, ormai irraggiungibile.
Per tre giorni ci provai, mettendo i pensieri sotto la sabbia, lui contentissimo di avere trovato un bell’appartamento. Fortunatamente, qualcuno aveva disdetto all’ultimo minuto. Eppure la consapevolezza era come un serpente strisciante, si annidava negli spazi, pericoloso.
Al mattino lui restava a letto, mentre andavo a vedere l’alba in spiaggia, godendomi la solitudine, soppesandola, per poi fare colazione con un cappuccino al bar. Poi lo trovavo, sbarbato e sorridente pronto a passare ore pigre su uno scomodo lettino.
E poi l’ultima sera.
Aperitivo nella viuzza principale spalmata sul lungomare. Un tramonto commovente, il giallo e il rosso si fondevano provando a formare nuovi colori, sembrava finto tanto era perfetto. Era quello che volevo, colori nuovi. Lui mi scattò una foto, mentre guardavo quello spettacolo.
“Guarda come sei venuta bene”. Gli sorrisi, era vero.
Poi, mi guardai dal di fuori, come un passante annoiato che si immagina la vita delle persone che sfiora durante una passeggiata.
Me lo aveva suggerito un’amica saggia, tempo prima.
“Prova a guardati dal di fuori, pensa se ti vedesse un’altra persona che non sei tu…cosa vedrebbe?”
Vidi stanchezza, che poteva passare, vidi malinconia, che non era caratteriale, oppure sì, forse mi donava pure. Non riuscivo a vedere altro. Non ero mai stata brava in quell’esercizio. Uscire da sé stessi, come fare?
Pensai, mi tuffo. Ma avevo paura di stare per aria in quel secondo, di colare a picco, di non fare il movimento giusto.
Pochi minuti prima, mentre aspettavo che finisse la doccia, avevo visto le immagini di quel tuffatore che nel suo secondo si era perso. Aveva sbagliato il tuffo, atterrando in acqua di pancia, non avevo capito come aveva fatto a fallire, come un novellino che si cimenta in un impresa più grande della sua. Eppure era il campione in carica. Se aveva sbagliato lui, avrei sbagliato anche io.

Guardai il mio compagno che rimirava le sue foto sul cellulare. Ce l’avrebbe fatta, era una persona che riusciva a sostituire i pezzi, una persona rapida e decisa nell’esecuzione, forse sarebbe stato contento di liberarsi di quel peso che non riuscivo a lasciare. Mi avrebbe sostituita, come un pezzo di un motore usurato.
Mi venne in mente una frase del romanzo che stavo leggendo, la trama era insipida ma quella frase l’avevo trascritta.

“Ci si nasconde. In angoli di strade ricoperte di ombra che protegge. In passi traballanti, in conversazioni frenetiche, in sorrisi che sono freschezza. In pezzetti di vite degli altri. In status sul web dove rivendicare il proprio pensiero, anche quando è vago, contorto, parziale, come tutti noi. In brandelli di canzoni. In una foto di un posto dove vorremmo essere ma che non ci appartiene. Ci si nasconde, per respirare”.

Mi immersi nel tramonto, in quel fondale che sembrava messo lì apposta, il premio alla fine di una lunga giornata, il panorama perfetto per un finale difficile.
Presi la rincorsa, un respiro, un saltello immaginario, il rimbalzo sul trampolino e via, aprì la bocca per parlargli, mi lanciai nel mio secondo.
Come un tuffatore, sperando di non entrare male nell’acqua, di non spanciare.