Palco n.25 OR.1/D (S04E01, a new beginning)

fotoE’ fra le ultime persone ad entrare nel foyer.
Il passo lento ma sicuro. La testa fresca di bigodini. Sembra quella di una tartaruga. Rugosa e insaccata in un rigido cappotto nero troppo largo.
Fa un sorriso alla maschera che le augura buona serata mentre timbra il biglietto. Entra in platea e la luce del lampadario le cattura lo sguardo. Stringe gli occhi abbagliata dalla classica bellezza della sala. Il vociare degli altri spettatori, i saluti, inizia una nuova stagione, persone che non trovano il posto. Il suo è il solito, da qualche anno. Non deve chiedere permesso per infilarsi nella fila, gli uomini che son sempre alla sua sinistra, sono in giro a stringere mani. L’abituale socialità pre concerto.
Si toglie il cappotto, facendolo scivolare dalle braccia sottili. Lo appoggia nella poltrona alla sua destra, sa che non sarà occupata. Si sistema la stola di visone bianco, annodata con un grosso laccio di seta all’altezza dello sterno. Si siede, già sorride. Il suo amato Mozart. Un piccolo compagno di viaggio da una sessantina d’anni. Da quando piccola ne studiava le veloci partiture a scuola, bacchettate sulle dita che non stavano ferme sulla tastiera, fino a pochi giorni fa. Aveva portato a casa dell’amica un cd. Lo avevano ascoltato insieme per anticipare la serata, questa serata, a cui l’amica sarebbe mancata. Caduta in bagno. Frattura di un polso. Un classico dell’età. L’ inquietante segnale di un corpo provato da troppi anni. I suoi figli, subito preoccupati, l’accadimento come un campanello d’allarme, avevano subito provveduto a sistemarle appoggi e sottili ringhiere in ogni punto della casa. Lei, le mani piccole e sottili, le gambe malferme, ne era stata grata, anche se nessuno di loro aveva voluto accompagnarla stasera. Non era un problema, sarebbe bastata la musica a farle da compagnia.

Una mano sulla spalla. La gentile signora, altra habitué della platea che la saluta, si informa dell’amica. Le voci corrono in una piccola città. Il signore con gli occhiali fumé saluta anche lui, gentile e distaccato come sempre. Una ragazza alta e coi capelli lunghissimi fa un cenno all’uomo e lui cambia espressione, mentre le luci si abbassano. Un’occhiata ai palchi. Ragazzi giovani che aspettano impazienti, una famiglia assiepata nell’attesa.
L’orchestra l’ha già potuta ammirare sul palco del suo teatro. Il pianista, mai. Lui è storia che cammina. E’ più anziano di lei. Ottantenne, alcuni dicono novantenne. Sul libretto come ad alimentare il mistero, la data di nascita non c’è. Nel ’49 vinceva il suo primo concorso internazionale. Sale sul palco col passo lento, sorretto da un bastone e dal braccio del direttore. Ha una camicia nera che sembra un velo sopra a un corpo stanco. Radi fili bianchi in testa, la pelle come carta velina pallida. Magrissimo, si inchina al pubblico con un gesto leggero del capo, i bottoni della camicia sembrano piccoli brillanti, risplendono alle luci, agli applausi.
Il pianista si siede, appoggia un fazzoletto sul pianoforte. Il direttore sorride, si volta e inizia. Mozart.
Lei non se ne accorge, la tecnica le è sempre sfuggita, si è sempre affidata alle sensazioni. Ci fosse la sua amica, lei si accorgerebbe se il solista non è in giornata, non è preciso. Lei è semplicemente dentro la musica. L’agile inizio, cantabile, come le suggerisce sempre l’amica assente. Il commovente bel finale. Applaude convinta. Applaudono tutti. Il pianista si alza a fatica, prende il bastone, se ne va, sempre accompagnato dal direttore. Se lo immagina dietro le quinte, seduto su una sedia di legno, le mani lunghe ma ancora agili immerse in una bacinella d’acqua fredda. Si chiede se fa bene l’acqua alle mani. L’amica saprebbe rispondere. Prende un appunto mentale, glielo chiederà il giorno dopo.

Spostano il pianoforte, l’orchestra resta da sola.
La sinfonia è gradevole, agile, melodiosa, a tratti carezzevole, spesso agitata con gusto. Lei ascolta immobile, le mani in grembo, una sopra l’altra. Durante l’intervallo, si alza una volta, si sistema la stola, scambio poche parole di apprezzamento con la signora dietro di lei, poi torna a sedersi. Vede un ragazzo con un ciuffo ribaldo scrivere su un cellulare. Sapesse usarlo, scriverebbe un messaggio all’amica. Una cosa semplice. ‘E’ un bel concerto’. Pensa sia banale, sposta lo sguardo verso le persone che si fanno passare a vicenda nel corridoio compiendo piccoli passi. Sembrano danzare. Pensa che sarebbe bello ogni tanto vedere un balletto, è tanto tempo che non ne vede uno.
Si abbassano le luci, i ritardatari corricchiano verso i posti. Torna il pianista. La scena dell’ingresso si ripete. Due secondi di silenzio e comincia.

Uno dei suoi pezzi preferiti. L’amica le avrebbe toccato un braccio, chinato la testa, fatto notare, ma lo nota anche lei, o le sembra. Lui appare più sciolto in questa esecuzione. L’allegria della melodia iniziale, una leggera commozione che riesce a gestire bene nello struggente adagio del secondo movimento, il bel finale. Uno sguardo del direttore, l’ultima nota sparata con inattesa energia dal pianista.
Il teatro trema di emozione e di applausi. Qualcuno si alza. A lei esplode un sorriso in viso. Guardalo. Ottantenne, novantenne. Un inno alla vecchiaia, al fare, al resistere, alla passione di stare curvo sui tasti. Occhi chiusi nelle pause, concentrazione, nessuno spartito, ci mancherebbe. Lei a volte dimentica le poche cose che deve comprare al mercato. Disattenta. La sua amica glielo rinfaccia sempre. Come le sarebbe piaciuto, pensa.
Inatteso, un bis.

Per la prima volta durante la musica, si muove. Sposta una mano verso il posto libero alla sua destra. La apre, non trova altro che aria, ma la richiude lo stesso. Chiude anche gli occhi, pensa a domani, quando farà sentire alla sua amica quel brano. Brahms vero? Sì. E le potrà stringere la mano.

Programma di serata

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guerre interstellari

intrstllr(anziché scrivere millemila battute, ecco una raffica di cose a caso, il mattino dopo, su ‘Interstellar’, prima di fiondarmi a leggerne in giro che non ho letto nulla, ovviamente, prima di entrare al cinema. occhio agli spoiler eh..)

Erano anni che non uscivo dalla sala grattandomi la testa.
Mi è sembrato che a un certo il film gli sfugga di mano a Nolan, ma non so dirti bene perché.
Quando si stacca il modulo, la mia ragione si è separata dal sentimento.
Questo trip delle scale e delle dimensioni eh, Christopher. Un bel chiodo fisso.
Peccato il doppiaggio di Matthew.
A proposito, Matthew McCounaghey!
Villain surprise!
Pianti a nastro!
Signora durante l’intervallo: ‘Eh, bisognerebbe essere un po’ ingegneri per capire bene sto film‘. Signora, ci sta.
Per un ignorante di leggi fisiche basiche un paio (per dire) di cose restano un enorme  ‘Come? Prego? Puoi ripetere?’. 
Nonostante ciò, se uno mi viene a fare una rivelazione su tesi scientifiche sballate tradotte per lo schermo, o uno spiegone sul fatto che si possa o meno entrare in un un buco nero (sì, se me lo chiedi, anche oggi, te lo spiego malissimo cos’è un buco mero) si prende un ‘Sì, ok, ciao eh‘.
Onde, non montagne. ‘Boom’.
Oh, Jessica. Oh.
Oh Anne, mi ridici la spiega sull’amore? Appiccicata con lo sputo, ma puccissima.
Avrei puntato molto sul TARS. Ottima scelta, Chris (sai altrimenti che noia con i paragoni su Kubrick?)
Che figata il TARS, ne voglio uno.
Dura tre ore e non ti annoi mai. (pregio, pregione!)
L’organo dopo un pochetto, come si dice, rompercazzo.
Tanta roba‘ è un modo di dire odioso, però in questo caso, sì, tanta tanta.
Nolan è uno dei pochi per cui vale la pena andare, sempre (sì, #teamnolan e a spada tratta, manco spiego perché, suvvia).
Quante volte mi è venuto in mente ‘Gravity‘ (scena finale inclusa).
A proposito di finale, poteva finire con l’orologio e bon.
Come mi manca la cineblogger connection, dopo certi film.
Bisogna dare retta alle donne, la salvezza.
Imperfetto, ambiziosissimo, da vedere.
Non è un capolavoro, lasciate stare ‘sta maledetta parola.
Avrei finito. E mi sa che potrei pure rivederlo.
Poi mi illustri le tue teorie. Sul film, non sulla gravità.

quello che ci è rimasto

fotoE poi, provammo a tornare.
Parcheggiammo sulla strada, una domenica pomeriggio di un novembre sbocciato in un sole alto.
La lunga strada con ai lati pini sfrontati era deserta, il bordo punteggiato da cartacce. Un vento tagliente ci salutò. Il cartello ‘Chiuso’ era ben visibile all’ingresso della piazzola di sosta con distributore un centinaio di metri avanti a noi. Facemmo commenti su frammenti di film che ci venivano alla mente.
Un motorino con la marmitta urlante ci svegliò dai pensieri. Alla guida un ragazzo nero, il viso teso, quasi ibernato dal vento freddo sotto un casco nero, senza visiera. Un paio di fogli di giornale si sollevarono al passare del mezzo, come fantasmi svegliatisi dal loro torpore. Ci guardammo, andammo.
Entrammo nel corridoio stretto che portava al nostro posto preferito. Le assi del passaggio che entrava nella pineta, ai lati marcite dall’umido, rosicchiate da muschio aggrappato al legno.
Protetti dagli alberi, il freddo cessò. Percorremmo cento metri.
La casetta che fungeva da bar sembrava l’ingresso in un tutorial, ‘Paesaggi di film western’. Era giallastra, evidentemente ammalata, senza che nessuno avesse pensato a un colpo di grazia, abbatterla per risparmiarle la fatica di sentirsi distruggere lentamente.

Calpestammo un vetro già in frantumi. Lo scricchiolio ci fece quasi saltare per lo spavento, come un avvertimento che non ascoltammo.
Ci addentrammo in quello che era stato il nostro stabilimento balneare. Controllammo l’assenza di cartelli vuotamente minacciosi, senza trovarne. Il passaggio era aperto ma sembrava non fosse percorso da anima viva da tempo. Eppure l’estate non era così lontana.
Superammo la casetta e ci trovammo a rabbrividire guardando le ombre alle nostre spalle, disegnate da un sole che si abbassava. Figurine disegnata dalla sabbia, noi qualche anno prima.

La condensa dei nostri respiri si fece più spessa, zaffate di fiato che si facevano ritmiche come un martellare. Respiravamo ed espiravamo, affascinati da quello che vedevamo. Espiravamo e respiravamo veloci, il ritmo che aumentava al crescere dei ricordi, di piccoli rimpianti, delle nostre facce impresse nella cartolina in cui eravamo entrati. In lontananza, dietro a una lunga duna grumosa di sabbia umida e arbusti secchi, il mare, nascosto, fischiettava il suo tempo di onde rombanti.
Eravamo rimasti solo noi.
Ci prendemmo per mano mentre i nostri occhi puntavano un cartello. Troneggiava sulla destra, sopra alla collina dove anni prima avevamo assaporato tramonti e cocktail con nomi esotici e ingredienti da supermercato, in mezzo a erbacce che lo avviluppavano dal basso cercando di mangiarselo.
Anche quello.
Era bianco, la pittura azzurra che andava sbiadendo nel tempo. Qualche macchia nera, forse traccia di violenti uccelli senza rispetto per nulla sotto di loro.
‘Mini market-bar’. Più in basso, a caratteri più piccoli: ‘Tutto per la spiaggia’. Un’altra scritta, resa illeggibile dal vento, dal sale del tempo, stava sotto. Probabilmente altre parole che oggi non avevano senso.

Ci guardammo. Davanti a noi la duna sembrava un guard rail naturale, come se dietro vi fosse caduto un sasso pesante, atterrata un’astronave o chissà cosa, che aveva alzato di botto quel muro. Nessuna impronta che avesse provato a superarlo, come uno scoglio insormontabile.
Avanzai di un passo per avviarci al di là. Lei mi trattenne con uno sguardo. Sapeva che non avrebbe dovuto attraversare quella collinetta grigia. L’aveva sempre fatto le altre volte, qualche passo incerto e se la breve salita era veramente ripida, magari puntellarsi con le mani e poi di là scoprire che non c’erano sassi o astronavi ma l’orizzonte sgombro e piatto del mare che li aspettava. Magari si sarebbe soffermata sulla sommità della collinetta, per sentirsi padrona della spiaggia, spiare altri che avevano sfidato il mare autunnale, cani a passeggio, uccelli che banchettavano indisturbati misteriosi pranzetti, lunghi e nodosi pezzi di legno come tavole abbandonate da naufraghi che ce l’avevano fatta ad approdare a riva.
Questa volta, no. Non voleva togliersi le scarpe, levarsi i calzini, appoggiare i piedi. Sapeva che avrebbe trovato una sabbia fredda, inospitale, malata. Non v’era cura per quel posto abbandonato, se non restare un poco lì a rimirare un paesaggio alieno che nascondeva ricordi che nessuna incuria avrebbe potuto cancellare. Forse dire una preghiera per come sapevamo pregare noi.
Non parlammo. Lei guardava il lato sinistro dell’ex stabilimento, la siepe ribelle che divideva il nostro angolo di spiaggia da quello vicino. Poco oltre, alberi e la pineta che proseguiva. Provai a immaginare i suoi pensieri, sentendoli nell’aria umida. Stava pensando alle parole da usare. Per scrivere un pezzo, come quando teneva il suo blog che avevo avidamente spiato poche ore dopo averla conosciuta. Scriveva dei concerti che vedeva, del sudore che portava a casa dopo una serata a mezzo metro dalle transenne. Scriveva anche arzigogoli di parole che provavano ad avere un senso, a raccontare una storia per immagini, a creare una piccola suggestione che i pochi che la leggevano potessero apprezzare, anche se probabilmente il senso sfuggiva, raggomitolato dentro a troppe parole. Probabilmente dopo avrebbe preso il cellulare in mano, buttando giù proprio quelle parole che ora le attraversavano lo sguardo, parole che sarebbero rimaste nella cartella ‘Note’ per poi venire cancellate una sera qualsiasi.
Io, canticchiavo mentalmente un brano, qualcosa di lento, forse già sentito. Lunghe pennate di chitarra, leggermente ‘slide’. Una batteria con poche battute che avanzava, un piatto colpito lentamente, il suono  che rimbalzava lungo, come un’onda. Poche note di pianoforte forse. Oppure una cosa ancora più scarna. Un pezzo folk, cos’altro? Palesemente triste, disincantato. Come quei brani che quella sera fecero da colonna sonora ai nostri sguardi. Lei che sembrava annoiata, invece era interessata.
Restammo così, ognuno con le sue cose in testa. Poi, mi strinse la mano. Andiamo.
Ci guardammo intorno per imprimerci per bene le immagini, per rivederci dentro quel posto, anni prima.
No, aspetta. Lei estrasse il cellulare, fece una foto al cartello, stirò un sorriso, poi sorrise davvero.
Andammo via, senza voltarci. Calpestammo ancora il vetro, sorridemmo di quel suono. Arrivammo sulla strada, in lontananza ci parve di sentire ancora il rumore di quel motorino.
Improvvisamente, era tardi.

 

(grazie, per foto e ‘ispirazione’: Attimo)