Le profezie di Cidindon (Oscar Edition)

L’amico da oriente ricorda che c’è il classico gioco dei pronostici. Non mi sottraggo anche se mai come quest’anno mi disinteresso del risultato ancora più da quando, pochi giorni fa, ho letto questo articolo molto istruttivo sui giurati che spiega due cose in più sul meccanismo con cui vengono dati i premi, praticamente scelti da uomini bianchi e over 40 che non hanno mai calcato il tappeto rosso. Tzè.
Comunque si gioca lo stesso, quindi ecco qua.

Best Picture: The Tree of Life‘ filmone però non può vincere che ‘The Artist‘ mio ‘film del cuore 2011‘. Ogni altro risultato è il LOL.
Actor in a Leading Role: sarebbe giusto vincesse Gary Oldman, bello vincesse il mio amichetto Brad. Sarà un testa a testa di facce da sorrisone Clooney-Dujardin. Vince il francese perchè nemo propheta in patria.
Actor in a Supporting Role: Nick Nolte tutta la vita per il gran ruolo in ‘Warrior‘, bel riderone se vince Jonah Hill mio protetto in ‘Moneyball‘. Invece lo prenderà un vecchietto (diciamo Plummer, via) perchè agli Oscar è il primo premio e iniziare con i lagrimoni fa bene all’audience.
Actress in a Leading Role: Meryl la spunta su Viola al fotofinish nel torpore generale. Rooney Mara vince l’Oscar dei reblog su tumblr.
Actress in a Supporting Role: tifo sfrenato per la bellissima Bérénice ma la spunta la Chastain per compensare il cast di ‘The Help‘.
Animated Feature Film: se non vince ‘Rango‘, abbattete l’Academy.
Directing: come da manuale dell’Oscar, film e regista in abbinata. Chissà se Malick sa che c’è un premio chiamato Oscar. Allen sul red carpet si imbarazza e vince il premio ‘pucci‘.
Cinematography: vince ‘War Horse’ e rido per sei mesi ripetendomi ‘pastelli al tramonto‘ in testa. (no, ‘The Artist‘ anche qua).
Art Direction: il film muto fa filotto e piglia pure questo che invece io darei alla stazione e al cinema nel cinema di ‘Hugo‘.
Film Editing: lo darei a ‘Millennium‘ ma vedi sopra, c’è il filotto che l’Academy si scopre ‘vintage‘.
Foreign Language Film: ancora mi manca ma a leggere i miei cineblogger è un plebiscito per ‘A Separation‘.
Music (Original Score): dovrebbe vincerlo Alberto Iglesias che ha scritto un commento sonoro stupendo e di gran classe, Williams BASTA, vedi alla voce ‘filotto’. (canzoni: solo due, non sentite, amen)

Evitiamo gli Oscar ‘tecnici’ se no vien la noia, poi magari ‘Transformers‘ ne vince un paio ed è tutto ‘clang clang’. ‘Drive‘ è nominato in una categoria tecnica, ‘Sound editing‘. Se vince questo Oscar, martellate e calcagnate in faccia ai giurati per avere evitato di nominare perfino per sbaglio il film più fico dell’anno.

Writing (Adapted Screenplay): Menzione d’onore per le spie, vince ‘Moneyball‘ e Sorkin torna sul palco, evviva (poi probabilmente vincerà ‘The Descendants‘)
Writing (Original Screenplay): anche qua vince ‘The Artist‘ però chissà, magari è questo l’Oscar soprendente della serata. Allen? Iraniani? Wiig?!?! Mh, no.

Quindi facile pronosticare il dominio del film in B/N. Così si ripresenta la discussione filosofica sul ‘che bello quando si stava peggio‘ (no, è solo che ‘The Artist‘ è un bel film e qui è tutto spiegato meglio e son d’accordissimo). Delusione totale per Payne & Clooney, Spielberg & Scorsese se la ridono lo stesso e via, tutti a spiare il red carpet. 

occhi azzurri per sogni di celluloide

Nell’ultima mezz’ora di ‘Hugo Cabret‘ io ho avuto un magone che non ci credevo e un pizzicore nell’occhio sinistro che pensavo si fosse infilata una bestiolina e invece era Martin Scorsese (in alto i calici) che mi aveva per le palle, per la carotide, per le vie lacrimali, per tutta la vita.
Avevo appena finito di dire che ho il cuore di pietra e di ghiaccio e invece bastano due ragazzini e la voglia di un cineasta di rendere un omaggio enorme al suo lavoro e ai suoi sogni, forse alla sua vita, e amen, spaccata la pietra, sciolto il ghiaccio.
E’ una favola per famiglie con l’orfano (ovviamente imballato di quel problema tipico di molto cinema americano, il rapporto, mancante, col padre) che eredita la passione famigliare per i meccanismi e la trasporterà molto oltre la torre di orologi e di solitudine in cui vive.
La stazione ferroviaria in cui si svolge gran parte del film è spettacolare, tanto che mi son pentito un po’ per non averlo visto in 3D, ma pazienza, l’editto personale ‘3D, sciò‘ non si tocca e di occhiali me ne bastano un paio. Non tutto nella storia funziona perfettamente, ci sono piccole forzature ma tutto risulta piacevole grazie a una messa in scena di grande qualità finchè gli occhioni blu del protagonista ci portano nel meccanismo che Scorsese ha costruito dentro al film, aprendolo con la chiave dell’amore per il cinema, in un’ esplosione di citazionismo toccante e sentimentalismo in celluloide.
Una classica favola arricchita di buoni comprimari e resa vincente da un altissimo omaggio alla settima arte.
Sipario, applausi.

Ps.: grazie ai lungimiranti distributori italiani per non avere fatto uscire questo film a Natale, come in Us o in Francia o UK, presumo per salvaguardare l’incasso lordoso e lardoso del nostro cinema di commedie italiane con le locandine colorate e i font ciccioni che fanno tanta allegria e tanto cagare il cazzo.
Ps2.: sbrigatevi a vederlo. d’accordo che era prima visione delle diciottoetrenta ma in sala c’ero solo io, il che è molto bello e porta il classico sogno ad occhi aperti, sul nulla nelle file sopra e sotto, di possedere una sala cinematografica privata. tzk. però mi sa che lo tolgono presto eh… 

cuore di ghiaccio, cuore di pietra

Nel weekend ho visto due film diversissimi fra loro, accomunati però dalla nomination per miglior film e da alti coefficienti di pianto e ricatto per gli spettatori.  Spoiler: non mi sono piaciuti.

In ‘The Descendants‘ un marito si trova con la moglie in coma, due figlie con cui ricostruire un rapporto, un genero incazzato, un’eredità da gestire e una sorpresina lasciatagli dalla moglie. Segue percorso di risoluzione puzzle della sua vita e non solo.
Il film piacerà a molti. Perché c’è George che è molto brizzolato e molto bravo e in generale tutto il cast funziona. Si scopre che le Hawaii, non sono solo un posto da cartolina ma anche un posto duro e grigio, letteralmente e visivamente. Ci sono i buoni sentimenti di una commedia annegata nella malinconia, o un film drammatico puntellato di scene umanamente divertenti per non pensare sempre al fazzoletto pronto all’uso.
Agrodolce’ come mi suggeriscono. Il tutto è avvolto nell’estetica colta e sensibile che guida negli ultimi anni molto cinema americano ‘indie-pendente’.
A me non è piaciuto perchè non mi ha mai interessato, la mia empatia coi personaggi non c’è mai stata, la sceneggiatura non affonda mai il colpo (e il rapporto con le figlie è semplicistico) cercando evidentemente di mantenere quell’equilibrio ricercatissimo e ruffianissimo fra drama e commedia che mi è sembrato troppo costruito.
Inoltre, ho il cuore di pietra (nonostante l’ovvio magone a una scena fatta apposta per il magone)  e il commento sonoro dell’ukulele è fastidiosissimo.
Grado di sentimentalismo + coefficiente di ricatto emotivo: coma+ sguardi di uomini in difficoltà = otto(mila).
Italia no: il titolo italiano è una schifezza che mi rifiuto perfino di trascrivere.


Spielberg è l’unico al mondo (anche giustamente, certo) a poter telefonare ai suoi collaboratori e dire ‘Bella raga, facciamo un film su un cavallo.’
Di ‘War Horse’ se sei attento vedi tutto dalla locandina. Sguardo fiero del cavallo, sguardo fiero (e un po’ assente) del ragazzo, PASTELLI nel cielo.
Racconta (spoiler! ma suvvia, non sapete già come finisce?) di un ragazzo che incontra un cavallo molto atletico, molto bello. Cavallo arerà e correrà per cinquanta minuti interminabili. Poi proprietario di cavallo in bolletta lo venderà ai militari, cavallo andrà in guerra (prima, mondiale) dove girerà le trincee fra peripezie varie, per poi ritrovare il ragazzo.
E’ una specie di film a episodi con al centro questo bellissimo animale e una tonnellata di melassa intorno e cieli color pastello sopra.
Il film piacerà a molti per l’aurea old Hollywood di cui il film è strapieno risultando curiosamente retrò, come i western che passano al pomeriggio d’estate. Pastelli, lunghe scene, sentimenti a presa rapida, fazzoletti a portata di lacrima, l’ovvia professionale capacità di Spileberg e soci di costruire un film simile. E la parte sulla guerra, bella e dura. E Benedict.
A me il film ha lasciato quasi indifferente, perché nel finale ci sono tanti elementi melassosi che per poco non crolla lo schermo sotto il peso di un sentimentalismo davvero eccessivo che ho trovato fastidioso, perchè è lunghissimo, perché i primi piani intensi del cavallo mi facevano ridere e perché ho il cuore di ghiaccio (nonostante l’ovvio magone a una scena fatta apposta per il magone) e due ore di commento sonoro di J.Williams son fastidiosissime.
Grado di sentimentalismo + coefficiente di ricatto emotivo: film con animali, Spileberg al top della melassa = dieci(mila).
Italia, no: il film è uscito a Natale negli Us e questo giustifica e passa un pezzo di melassa, da noi esce adesso, a Natale c’erano altri film sicuramente più importanti in uscita. Certo.

Attenzione: non mi sono piaciuti ma non sono brutti film, ci tengo a scriverlo, sarà il buonismo che mi è colato addosso. Non fidatevi di me, è colpa mia. Il primo fa 84 su ‘Metacritic‘, quello col cavallo fa 72, quindi, in generale son piaciuti.
(naturalmente però se uno dei due vince l’Oscar, c’è da ridere) 

M&M (o dei film con Robin Wright dentro)

Tratto da: quello sul general manager dietro la scrivania da un libro e da una storia vera, quello sugli ‘uomini svedesi con aziende e storia oscura alle spalle‘ da una serie di romanzi famosissimi lassù e pure quaggiù che io non ho letto e dai successivi film sempre svedesi che non ho visto.

Il bello: il manager della squadra pro di baseball, coraggioso, romantico, col mascellone e la bellezza quasi imbarazzante di Brad Pitt che per me è sempre stato bravo e lo conferma pure qua.
Il giornalista detective ha lo sguardo curiosamente fra il lesso e il ghiaccioso di Daniel Craig. Che recita come sempre coi muscoli e stavolta anche con collezione inverno/invernissimo per maschi urbani molto attenti al look. Fa quel che deve, bene.

La spalla (*) : il matematico applicato al batti&corri e al supporto del manager è Jonas Hill in giustissima fuoriuscita dal genere teen e mi è piaciuto moltissimo. La scena del licenziamento è ottima al riguardo.
La darkettona-hacker piena di piercing in supporto al giornalista è la bella e piuttosto brava Rooney Mara. Signora in pelliccia all’uscita dice che ‘è proprio identica a quella del libro’. Un punto in più. (* lo so che è nominata best actress, pazienza)

L’altro: sulla panca del diamante, Mr.PSH al minimo sindacale di apparizione ed espressioni, nonostante ciò sempre perfetto; fra le ombre scure degli isolotti di famiglie svedesi quell’attorone svedese col cognome ostico e il casting di Hollywood lo ha fatto per il branding.

Robin factor: è una delle mie preferite di sempre  su schermo ed è in entrambi i film. Ogni volta che appare, caccio un urletto, anche perchè non è mai la protagonista e io non lo so mai che è nel film. Quindi lei arriva, io faccio ‘OMG!‘ e questo è bello.
Nel film sportivo il ‘Robin factor’ è basso. Nella sua unica scena (che spreco) sta quasi sempre su un divano. Però ‘Awww‘ a manetta lo stesso. Invece è ottimamente buono (più scene, incluso spogliarello dietro paratia nascondente) nel secondo dov’è l’editrice/amante del nostro eroe.

Giudizio:
Moneyball: bello, poteva essere bellissimo. Da calcolare un po’ di tara che a me i film sportivi piacciono sempre un po’ più di quanto dovrebbero, ma è un bel tentativo di fare un film sportivo senza concentrarsi sul campo di gioco. Bei dialoghi, ottimi attori, un paio di scene bellissime. Difetto: è troppo lungo, disperde un po’ il capitale di passione per il gioco e di rischio nella ‘sabermetrica‘ che si era costruito. C’è qualche momento dove un filo di gas al ritmo in più ci stava. Bel finale però con grossa metafora di vita. E ‘Come si fa a non essere romantici col baseball‘.
Millennium: soddisfacente thrillerone con tutte le cosine al suo posto. La lavagna per gli spiegoni del caso, i personaggi abbozzati ma puliti, due colpi di scena che non lo sono. Tutto molto professionale ma anche poco core, soprattutto nel rapporto fra i due che d’accordo la presunta ‘freddezza’ dei personaggi però così forse è troppo. Sicuramente ha un bel ritmo, peccato per il finale che ha dieci minuti praticamente inutili che vanificano la suspence costruita durante la visione (applausi al montaggio) ma forse spiegabili con i contratti già firmati (credo, non ho controllato) per il secondo film. A Fincher piacciono le scene d’azione (in tutti, pure i brutti, sensi) con lei, per il resto va di tranquillità e pilota automatico.

Chiusa e più film con Robin Wright per tutti:
Moneyball‘ da vedere, meglio se con un appassionato di baseball, da evitare se tutta la retorica Usa sulle opportunità e le vittorie e gli stadi e le metafore sportive non piacciono (e, bellissima locandina quella sopra e pessimo titolo in italiano).
Millennium‘: avessi letto il libro o visto i precedenti forse avrei abbandonato che il troppo, si sa, stroppia. così va bene. poi, quasi quasi mi leggo il secondo libro.

Palco n.25 OR.1/D (Pt.VI, the Ice and Fire chapter)

Programma: concerto ‘contemporaneo’ per violino ed orchestra scortato da ‘classiche’ ouverture e ‘Sogni d’inverno‘.

Orchestra: sono sessantasei musicisti, a cui si aggiungono quattro percussionisti e arpa per la sinfonia di P.Glass.
Arrivo al posto palco e alcuni musicisti son già sul palcoscenico, presumo siano arrivati tardi causa ghiaccio e neve, gli altri li raggiungono lentamente. Prendere posto con il sottofondo confuso di accordi random è molto bello, ti prepara all’ascolto e crea una specie di ‘classical hype‘.
E’ l”orchestra più bella come presenza fisica che abbia mai visto. Signori affascinanti (fra cui un violinista che pare uscito dritto dalla stanza di Schumann nel milleottocentocinquanta, con notevole pizzetto, occhialini tondi e ciuffo riccio impomatato), donne di classe in lungo nero, ressa per il violino dell’amore, aitanti giovanotti. All in black naturalmente. Il palcoscenico si riempie, la platea no. Freddo, strade scivolose, l’inverno che è arrivato pesantemente e ci sono dei vuoti, metà palchi son deserti. Peccato per i comprensibili assenti, si sarebbero riscaldati al calore delle note.
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a piccoli passi

Capita quando hai un blog di conoscere persone senza averle mai incontrate. Ci si legge, ci si annusa via parole e link e ci si piace. Con il Vinx è capitato così. Lui fa belle foto come questa sopra, video a band fichissime e altro ancora.
Ha anche un blog personale dove racconta di viaggi, dove ‘viaggi‘ è una parola che si allunga e si estende abbracciando più significati.

Lui ci mette le foto, l’idea e ospita anche altra gente che si mette lì e racconta dei suoi ‘viaggi’. Come un albergo, senza porte, con molte stanze piene di parole.
Qualche settimana fa mi ha chiesto se volevo partecipare. Così, ho scritto un raccontino di piccoli passi su strada.

Lo puoi leggere cliccando QUI o sulla foto sopra.

E grazie.

IndyPaesello (la notte del Super Bowl)

Biglietti a quattromila dollah, pubblicità (che non vedremo live ma abbiamo già quasi visto) a 3/4 milioni di dollah, squadre con storia e blasone, rivincita del superbowl 2008 (the miracle), la sfida fra quarterback con lo sfidante teoricamente sfavorito che però avrà il tifo del pubblico di casa e del fratello che gioca nella squadra di casa, i tight end più forti, un paio di wide receiver con le mani educate.
La messa di quello sport che quaggiù in the paesello pochi conoscono se non perchè in questi giorni si è parlato di Madonna e dell’halftime show.
Si scrive Super Bowl e non Superbowl, quest’anno si gioca a Indianapolis. Noi lo amiamo, l’evento e il gioco.
Il kickoff a mezzanote e mezza circa e poi corse, fumble, punt, blitz, placcaggi, ricezioni, ginocchia a terra, replay, lancioni, misurazioni, cifre, omoni ed emozioni e domani crepe negli occhi.
Le finali di conference han visto le squadre per cui tifavo sconfitte, quindi non ho favoriti, anche perchè sarà una bella lotta, almeno spero. Scelgo però NY Giants, per fare un minimo sindacale di tifo in diretta, perchè credo sarà una gara dominata dalle difese e quella di NY mi esalterà e perchè Tom Brady è troppo bravo/bello/ricco e la più bella del mondo saprà consolarlo dalla sconfitta.
Il nostro paesello è a letto, frizzato in un gelo peso e ricoperto di neve. Siamo solo in due. Uno va a lavorare troppo presto, uno viaggia, uno è disperso, uno ha tirato il pacco. Abbiamo pocket coffee, biscotti, patatine, vino & birra per ingrassare e cercare di stare svegli.
Anche l’anno scorso l’avevo fatto, here we go back. Coperta per il freddo, speriamo di non addormentarci che oggi fra spalata e passeggiata nella neve mi son spezzato le gambe e non ho dormito un secondo, live twit o qui se centoquaranta parole non bastano, adesso vediamo come va, domani comunque riporto tutto bene quassù.
Pronti. ‘Oh, entrano in campo!‘.

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concertistica

(appunti di tre concerti diversissimi fra loro, visti nelle ultime due settimane fra esperimenti sonori su base jazz e ‘The Black Keys’)

1. La classica che mutaforma in jazz.
Un pianoforte, due donne, un gioco in musica sui tasti. La prima è una pianista ‘classica’.
Il suo compito è di suonare un brano di musica classica di breve durata. Le composizione scelte abbracciano molto della produzione solistica per pianoforte, partendo da Bach, passando da Rachmaninov, arrivando a Debussy e sono suddivisi in blocchi di tre composizioni l’uno. Esegue con impegno, intensità, brillantezza.
L’altra musicista ascolta il pezzo (lei non sa cosa viene suonato, è questo il giochino e la difficoltà) concentrata, cercando di memorizzare, di imprimere nelle dita il suono, la melodia, i passaggi.
Il brano termina, applausi e rapido cambio di mani sui tasti.
La seconda pianista esegue lo stesso brano, in chiave jazz. Prende la musica, la scompone, ritaglia qualche momento, insiste su una frase, rimbalza un passaggio, trasformando il suono classico, rivisitandolo in maniera ‘free’, una improvvisazione jazz su spartito di Chopin o Beethoven.
Nelle soste fra i blocchi di brani c’è la spiega dell’esperto. Un signore che con fare molto accademico fa quello che noi ignoranti non vorremmo facesse. Ci trasforma in oche e ci imbocca di patè, mettendoci all’ingrasso di nozioni musicali che spesso ci sfuggono. Spiega, diffonde sarebbe il termine esatto, la sua sapienza con parole come mimesi, evanescenza, cromatismi, parafrasi, registri, costruzione ritmica, elemento acquatico. Ok, studieremo, ma per questa volta ci basta la musica e cercheremo di capire dai suoni come mai un pezzo resta stupendo qualunque sia l’interpretazione.
Al termine, l’esperimento di ascolto riesce. All’inizio è complicato come ogni nuovo gioco interessante che si rispetti. Bisogna capire le regole, stare attenti e memorizzare per poi capire, godendone, dei passaggi ‘modificati’.  Sembra una cosa da intenditori o da profondi conoscitori della musica. Non lo è, assicura il mio pard di serata che non aveva mai assistito a un concerto per piano solo, figuriamoci per due pianoforti.  Certo, conoscere lo strumento aiuta, ma quello aiuta sempre. A volte il risultato è piacevole, a volte azzardato, a volte è un copia incolla vibrante suonato con più accenti ma nel complesso è un’esperimento interessante e piacevole. Tanto che da metà in poi i nostri sono applausoni e al termine ci chiediamo ‘Il prossimo? Quando?

2.Il jazz che si fa classico.
‘Well..Marc start something or I start something and that’s the next song’
Il duo piano & chitarra composto da due ottimi ed esperti jazzisti dichiara pura improvvisazione. Quasi. L’improvvisazione c’è sempre ma dentro qualche binario. Però i due si cercano con gli sguardi e con le prime note di vari brani, standard o di loro creazione, piccoli magneti che attraggono l’altro elemento che è sempre fraterno in un abbraccio di composizioni soffuse. Propongono molte ballate, a volte spruzzate di blues. Producono un magma di suoni caldi, avvolgenti, mai invasivi, un lirismo semplice anche se renderlo semplice all’ascolto è il difficile. I ‘plin plin‘ degli strumenti palleggiano fra loro, a tratti si uniscono suonando in combo e mostrando grande energia cinematica in questi passaggi.
Il risultato è un jazz classico con gusto ed esperienza da due solisti abilissimi nel dialogare. Gli assoli son sempre equilibrati, tutto è filtrato da una patina che come ha definito un anziano espertone al mio fianco si può chiamare ‘classicismo‘ (e io copio e incollo). Musica rassicurante, perfino riposante, un incontro tenero ma consistente che conforta e massaggia l’anima stanca di un gennaio troppo lungo.
Potrebbe annoiare dopo cinque minuti, me ne rendo conto. Potrebbe risultare il sottofondo per un film dove il protagonista chiude l’hotel del bar dopo la confessione delle sue ansie al barman/bellezza casuale incontrata a banco (toh, è ‘Up in the air’?) e dietro due tizi suonano senza disturbare.
Per me, è stato una piacevole scoperta nel mio casualissimo percorso alla scoperta del jazz e lo stipulare la pace (armata?) con la chitarra jazz.
Ho sempre avuto dei problemi col suono della chitarra jazz (classico esempio: Metheny). Per me la chitarra è (semplificando brutalmente) quella scarna e acustica del folk o quella secca o elettrica del rock con più o meno assoli intorno.
Il suono della chitarra jazz mi è sempre risultato troppo ‘tondo’, una palla di morbida e graziosa melodia che spesso mi risulta indigesta. Invece l’altra sera, complice naturalmente l’amato pianoforte, sempre suggestivo e potente, quando il concerto è finito ho pensato ‘bè, han suonato poco‘. Era passata un’ora e venti, che è un buon minutaggio. Anche perchè i due non sono affatto di primo pelo, anzi. Un altro buon esperimento, un altro passettino in avanti verso non si sa bene quale meta che non c’è.

3. Spaccare in duo.
Milano e l’allerta neve. Io la neve la odio, comunque si va. Solito ‘country boy’ canno magicamente la tangenziale. Poi ci perdiamo in centro un paio di volte. Normale amministrazione. Parcheggio ‘alla milanese’ scavalcando un marciapiede e via a piedi nel gelo. Fila fuori. Inaccettabile. Finalmente dentro. Alcatraz, solito posto, soliti tubi sopra, pieno di gente. Birre al nice price di sei euro cad. Buio in sala, via.
Salgono accompagnati da bassista e tastierista. ‘Howlin’ for you’ e ‘Next girl’. Boom. Da lì e per ottanta minuti vado in simultanea air-drummin’+air-guitar, balletti sul posto, clapclap, headbanging. Loro sono potenti, compatti e generosi nel celebrare la messa del loro scarno ma corposo hard-blues per chitarra tagliente con rimandi a sonorità settanta e batteria potente.
Dopo qualche brano Dan dice che fanno qualche pezzo solo loro due.
Boom-A. Ancora meglio. Suonano ‘I’ll Be mine’. Fuck yeah. Fanno ‘Your Touch’ e tiro un urlo che mi si spezza la gola. Suonano ‘garage’ e sembrano nel garage dietro casa a pestare e graffiare e io sono maledettamente di parte, però mi sembrano credibilissimi anche dopo il successo americano con l’album ‘Brothers’ bissato ovunque con il recente ‘El Camino’. ‘Ten Cent Pistol’ è una carezza nella serie di belle cavalcate e Dan Auerbach è un califfo vero, canta benissimo e quando strappa con la chitarrona è selvaggio e sexy, i tom di Patrick Carney sono pastosi e profondi. Sono bravissimi in quello che fanno, quasi una bandiera da custodire con cura nel panorama rock, sono grintosi e divertenti, rigorosi ma brillanti.
Quando attaccano ‘Lonely Boy’ la gente esplode di gioia e balletti come da copione, mi associo con gusto. si accende una enorme palla da disco per le ultime danze, poi chiudono con ‘I got Mine’. E’ tutto giusto e siamo sudati e bellissimi. Innumerevoli (sempre più) cellulari che riprendono tutto, quindi su you tube il concerto c’è, mancherà il sudore folle di tutti i partecipanti (almeno dov’eravamo noi). La scaletta è qua (con tanta roba dagli ultimi due dischi ovviamente, o due ovviamente, troppo poco del grandissimo ‘Magic Potion’ ma pazienza, pelo nell’uovo)
“I’m a lonely boooyyyyy…”

(Conclusioni ‘forzate’? Circa: il jazz è la curiosità ed è uno spasso, la classica un territorio vastissimo ancora tutto da scoprire. E il rock è il pane. Ci vuole)