(appunti di tre concerti diversissimi fra loro, visti nelle ultime due settimane fra esperimenti sonori su base jazz e ‘The Black Keys’)
1. La classica che mutaforma in jazz.
Un pianoforte, due donne, un gioco in musica sui tasti. La prima è una pianista ‘classica’.
Il suo compito è di suonare un brano di musica classica di breve durata. Le composizione scelte abbracciano molto della produzione solistica per pianoforte, partendo da Bach, passando da Rachmaninov, arrivando a Debussy e sono suddivisi in blocchi di tre composizioni l’uno. Esegue con impegno, intensità, brillantezza.
L’altra musicista ascolta il pezzo (lei non sa cosa viene suonato, è questo il giochino e la difficoltà) concentrata, cercando di memorizzare, di imprimere nelle dita il suono, la melodia, i passaggi.
Il brano termina, applausi e rapido cambio di mani sui tasti.
La seconda pianista esegue lo stesso brano, in chiave jazz. Prende la musica, la scompone, ritaglia qualche momento, insiste su una frase, rimbalza un passaggio, trasformando il suono classico, rivisitandolo in maniera ‘free’, una improvvisazione jazz su spartito di Chopin o Beethoven.
Nelle soste fra i blocchi di brani c’è la spiega dell’esperto. Un signore che con fare molto accademico fa quello che noi ignoranti non vorremmo facesse. Ci trasforma in oche e ci imbocca di patè, mettendoci all’ingrasso di nozioni musicali che spesso ci sfuggono. Spiega, diffonde sarebbe il termine esatto, la sua sapienza con parole come mimesi, evanescenza, cromatismi, parafrasi, registri, costruzione ritmica, elemento acquatico. Ok, studieremo, ma per questa volta ci basta la musica e cercheremo di capire dai suoni come mai un pezzo resta stupendo qualunque sia l’interpretazione.
Al termine, l’esperimento di ascolto riesce. All’inizio è complicato come ogni nuovo gioco interessante che si rispetti. Bisogna capire le regole, stare attenti e memorizzare per poi capire, godendone, dei passaggi ‘modificati’. Sembra una cosa da intenditori o da profondi conoscitori della musica. Non lo è, assicura il mio pard di serata che non aveva mai assistito a un concerto per piano solo, figuriamoci per due pianoforti. Certo, conoscere lo strumento aiuta, ma quello aiuta sempre. A volte il risultato è piacevole, a volte azzardato, a volte è un copia incolla vibrante suonato con più accenti ma nel complesso è un’esperimento interessante e piacevole. Tanto che da metà in poi i nostri sono applausoni e al termine ci chiediamo ‘Il prossimo? Quando?’
2.Il jazz che si fa classico.
‘Well..Marc start something or I start something and that’s the next song’
Il duo piano & chitarra composto da due ottimi ed esperti jazzisti dichiara pura improvvisazione. Quasi. L’improvvisazione c’è sempre ma dentro qualche binario. Però i due si cercano con gli sguardi e con le prime note di vari brani, standard o di loro creazione, piccoli magneti che attraggono l’altro elemento che è sempre fraterno in un abbraccio di composizioni soffuse. Propongono molte ballate, a volte spruzzate di blues. Producono un magma di suoni caldi, avvolgenti, mai invasivi, un lirismo semplice anche se renderlo semplice all’ascolto è il difficile. I ‘plin plin‘ degli strumenti palleggiano fra loro, a tratti si uniscono suonando in combo e mostrando grande energia cinematica in questi passaggi.
Il risultato è un jazz classico con gusto ed esperienza da due solisti abilissimi nel dialogare. Gli assoli son sempre equilibrati, tutto è filtrato da una patina che come ha definito un anziano espertone al mio fianco si può chiamare ‘classicismo‘ (e io copio e incollo). Musica rassicurante, perfino riposante, un incontro tenero ma consistente che conforta e massaggia l’anima stanca di un gennaio troppo lungo.
Potrebbe annoiare dopo cinque minuti, me ne rendo conto. Potrebbe risultare il sottofondo per un film dove il protagonista chiude l’hotel del bar dopo la confessione delle sue ansie al barman/bellezza casuale incontrata a banco (toh, è ‘Up in the air’?) e dietro due tizi suonano senza disturbare.
Per me, è stato una piacevole scoperta nel mio casualissimo percorso alla scoperta del jazz e lo stipulare la pace (armata?) con la chitarra jazz.
Ho sempre avuto dei problemi col suono della chitarra jazz (classico esempio: Metheny). Per me la chitarra è (semplificando brutalmente) quella scarna e acustica del folk o quella secca o elettrica del rock con più o meno assoli intorno.
Il suono della chitarra jazz mi è sempre risultato troppo ‘tondo’, una palla di morbida e graziosa melodia che spesso mi risulta indigesta. Invece l’altra sera, complice naturalmente l’amato pianoforte, sempre suggestivo e potente, quando il concerto è finito ho pensato ‘bè, han suonato poco‘. Era passata un’ora e venti, che è un buon minutaggio. Anche perchè i due non sono affatto di primo pelo, anzi. Un altro buon esperimento, un altro passettino in avanti verso non si sa bene quale meta che non c’è.
3. Spaccare in duo.
Milano e l’allerta neve. Io la neve la odio, comunque si va. Solito ‘country boy’ canno magicamente la tangenziale. Poi ci perdiamo in centro un paio di volte. Normale amministrazione. Parcheggio ‘alla milanese’ scavalcando un marciapiede e via a piedi nel gelo. Fila fuori. Inaccettabile. Finalmente dentro. Alcatraz, solito posto, soliti tubi sopra, pieno di gente. Birre al nice price di sei euro cad. Buio in sala, via.
Salgono accompagnati da bassista e tastierista. ‘Howlin’ for you’ e ‘Next girl’. Boom. Da lì e per ottanta minuti vado in simultanea air-drummin’+air-guitar, balletti sul posto, clapclap, headbanging. Loro sono potenti, compatti e generosi nel celebrare la messa del loro scarno ma corposo hard-blues per chitarra tagliente con rimandi a sonorità settanta e batteria potente.
Dopo qualche brano Dan dice che fanno qualche pezzo solo loro due.
Boom-A. Ancora meglio. Suonano ‘I’ll Be mine’. Fuck yeah. Fanno ‘Your Touch’ e tiro un urlo che mi si spezza la gola. Suonano ‘garage’ e sembrano nel garage dietro casa a pestare e graffiare e io sono maledettamente di parte, però mi sembrano credibilissimi anche dopo il successo americano con l’album ‘Brothers’ bissato ovunque con il recente ‘El Camino’. ‘Ten Cent Pistol’ è una carezza nella serie di belle cavalcate e Dan Auerbach è un califfo vero, canta benissimo e quando strappa con la chitarrona è selvaggio e sexy, i tom di Patrick Carney sono pastosi e profondi. Sono bravissimi in quello che fanno, quasi una bandiera da custodire con cura nel panorama rock, sono grintosi e divertenti, rigorosi ma brillanti.
Quando attaccano ‘Lonely Boy’ la gente esplode di gioia e balletti come da copione, mi associo con gusto. si accende una enorme palla da disco per le ultime danze, poi chiudono con ‘I got Mine’. E’ tutto giusto e siamo sudati e bellissimi. Innumerevoli (sempre più) cellulari che riprendono tutto, quindi su you tube il concerto c’è, mancherà il sudore folle di tutti i partecipanti (almeno dov’eravamo noi). La scaletta è qua (con tanta roba dagli ultimi due dischi ovviamente, o due ovviamente, troppo poco del grandissimo ‘Magic Potion’ ma pazienza, pelo nell’uovo)
“I’m a lonely boooyyyyy…”
(Conclusioni ‘forzate’? Circa: il jazz è la curiosità ed è uno spasso, la classica un territorio vastissimo ancora tutto da scoprire. E il rock è il pane. Ci vuole)