‘Purtroppo arrivare secondi non è la stessa cosa di arrivare primi’.
Lapalissianamene e tristemente, Max Menetti, il grandissimo allenatore di Reggio Emilia, lascia questa frase in sala stampa, a mò di epitaffio sulla serie finale.
E’ una verità. La sconfitta è una brutta bestia che si può accettare o superare in vari modi. Nello sport e anche nella quotidianità. In fondo, lo sport, può essere visto anche come una metafora dell’esistenza, oltre che spunto per innumerevoli narrazioni che possono, letterariamente ma anche praticamente, aiutare nella vita.
La serata della gara decisiva di questi infiniti playoff, è iniziata con la classica passeggiata verso il palazzo, in compagnia di una fiducia che mi abitava i nervi, fiducia che non leggevo in molti sguardi apprensivi e in qualche parola smozzicata, afferrata per caso mentre consumavo l’ultima sigaretta di vaga tensione pre gara. Come detto in gara uno, il tifoso reggiano sembra avere nel DNA l’attitudine alla sconfitta. Però io non mi rassegno a questa cosa, contro casistica e risultati. Naturalmente non avrò ragione. Quindi, niente, si sale in piccionaia, sapendo che sarà l’ultima volta della stagione, comunque vada.
Si parte. Il nostro urlatore è classicamente a petto nudo. Davanti una scritta ‘Godo’ in biancorosso, che coglie la bellezza di esserci. Sul retro, la riproduzione della #facciacattiva che Della Valle aveva regalato iconicamente a tutti i tifosi reggiani in gara cinque, diventando un instant tormentone sui socialini. La stessa faccia è su un foglio sistemato sui posti numerati, insieme alla scritta rossa ‘Stand up for glory‘. Il mister aveva chiesto in conferenza pre gara di assistere alla partita in piedi, per tifare come una unica grande curva.
Eseguiamo, ligi al dovere, sperando di potere. Ci proviamo. Siamo tutti in piedi in piccionaia, nessuno che si lamenta, per spingere la squadra, che si vede accoglie lo spirito e sprinta sul vantaggio pesante. Di solito prendo qualche appunto volante se so di scrivere un post, ma ieri sera è stato impossibile. Caldo feroce, umidità ottomila, urla matte ovunque, tremendo odore di humus umano che saliva dal basso, i jeans, sempre gli stessi, che la cabala è una cosa importante, incollati al corpo che rendevano difficile l’estrazione del telefono per scrivere notarelle.
E quindi, a memoria, dopo il primo quarto che ci avvicina all’obiettivo, c’è il secondo dove Sassari rientra in partita, dove l’attacco reggiano sembra un deserto sahariano. Si esce per respirare ossigeno e una Camel a più sei. La mia fiducia è incrollabile, il timore di molti pure. Il terzo quarto è una pugna con mani addosso ovunque, è Silins che non ce la fa a restare in campo dopo l’infortunio di gara sei, è Lavrinovic che gioca su una gamba sola e non ce la fa nemmeno lui, è Dalla Valle che ha finito la magia, è un vero bomber del parterre che fa cinque metri, arriva ai margini del campo e chiama il tecnico in faccia a Sosa, i due si scambiano carezze, tecnico per il giocatore, scorta verso l’uscita per il tifoso matto. Per l’episodio, quasi un intermezzo comico, si ride molto in piccionaia. Sudiamo ancora di più all’inizio dell’ultimo quarto, con la certezza che finirà punto a punto. ‘Questa sera muoio‘ dice il pard, già provato da un raffreddore colossale. Andrà così, punto a punto, con Diener che ci fa impazzire con un tiro difficile, con Logan inguardabile per metà partita che entra nel match sganciando micidiali botte da tre punti, con un paio di fischi che vengono accolti con boati di insulti, bestemmie, basso cospirazionismo, con Kaukenas fuori per cinque falli, con Dyson che entra sigillando il match, con un instant replay a tre secondi dalla fine, con l’ultima possibilità, un tiro di Diener triplicato, che non entra, perché deve finire così. Con un momento in cui tutti gli occhi reggiani sono fermi in un oceano di delusione.
73-75 dice il tabellone, sancendo la fine.
E allora bastano gli elogi, la certezza di avere espresso la pallacanestro migliore nel senso di squadra, di collettivo che va oltre le difficoltà compattandosi nelle stesse?
No. Non bastano. È la squadra con le individualità che esplodono in siluri da tre, in penetrazioni acrobatiche e che possiede un certo killer instinct nei momenti decisivi, che alza la coppa, ma io non la voglio vedere la premiazione degli altri, mi spello le mani per applaudire i nostri, vedo Max che piange ringraziando i distinti, poi sono già fuori dal palazzetto che cerco di trattenere due lacrime di delusione che poi scappano anche alla mia veneranda età. Due gocce cadono dagli occhi, mi rigano le guance, su una c’è scritto peccato, nell’altra delusione, ma sono giuste, sono luccicanti della luce gialla dei lampioni che impedisce di vedere le stelle, dove volevamo tutti scrivere quelle tre parole che chissà, forse, non scriverò mai. Non me ne vergogno, anzi.
E’ passato un giorno dove le immagini del match, mi sono tornate in mente, insieme ad apprezzati messaggi di amici, dispiaciuti per il risultato, anche un po’ per me.
E allora, va bene lo stesso. A chi vuoi dare la colpa? Ai giocatori? Impossibile. Han dato tutto, in serie lunghissime con poco riposo fra un match e l’altro e vari infortuni ad accorciare rotazioni e possibilità di gioco. (a proposito, mio MVP, Polonara, strepitoso. Uno che diventerà un campione grosso). A Menetti? Massé, fantastico lui e i suoi assistenti nel gestire tutto il gestibile. Agli arbitri? Qualche fischio ha favorito Sassari, per me, ma siam di campagna e siam signori. Reggio ha avuto la possibilità di vincere tutte e sette le partite, ne ha vinte ‘solo’ tre. Sarebbe più semplice ci fosse qualcuno a cui dare la colpa, come sempre.
Il basket è quello sport fantastico dove spesso l’equilibrio è sovrano, dove una partita, la finale scudetto, si perde di due punti. Per un tiro che entra e poi esce, per un antisportivo dubbio, per ferri che accolgono tiri liberi, per infortuni assortiti, per stanchezza, per un avversario che va ‘on fire‘. E via così. Un equilibrio delicato che non ha preso la direzione che speravo. Una delle delusioni più cocenti della mia carriera di tifoso di squadre di provincia.
E allora è andata così.
‘Purtroppo arrivare secondi non è la stessa cosa di arrivare primi’.
Purtroppo certe occasioni vanno prese, non perse. Però, banale e semplice, non me li dimenticherò mai questi playoff. Perché, è sempre uno sport, ma viverlo intensamente è una bella parte di vita, sia che si pratichi sia che si segua con passione.
E’ stato bellissimo, divertente, gasante, emozionante, infine un po’ triste.
Ma, a ottobre si ricomincia. Ci vediamo in piccionaia, a tifare, a tirare dei cancheri, a gioire e a volte, capita, a piangere un po’.
#daicandom
Ps.: la foto sopra è ‘rubata’ dal profilo IG del club
(le ‘mie’ altre gare scudetto)
(tutti i post dalla PICCIO)