Palco n.25 OR.1/D (Pt.II, the piano version)

Programma: il maestro eseguirà per voi un girotondo pianistico che parte dalle stanze con clavicembalo del millesettecento, si mescola a studi moderni, ripassa al romanticismo per pianoforte e qui si scontra con l’impressionismo plin plin mitteleuropeo. (si ringrazia sempre il comodo saggio che viene distribuito prima del concerto. Leggendo, si imparano le cose)

Un uomo solo, sul palco: ha i capelli riccioli, veste in nero integrale, la giacca ha i bottoni nascosti.
Avesse un clavicembalo anziché il solito nerissimo e scintillante ‘Steinway’ parrebbe trasportato dritto dalla metà del diciottesimo secolo. Il viso è una maschera immutabile di intensità. Solo lievi movimenti dei muscoli facciali oppure un sopracciglio inarcato, piccole ombre che attraversano l’espressione, ne mutano l’impassibilità.
Spara accenti potentissimi e incrocia le mani in passaggi funambolici. Nelle esecuzioni dopo l’intervallo, espira forte, ispirato dalla melodia vagamente tenebrosa, tanto che sembra avere un mantice dentro la gola che soffia quando cambia di passo o aumenta l’intensità del brano. Lo sento bene, sono a sette metri in linea d’aria, ai miei orecchi questi leggeri grugniti sembrano uno strumento aggiuntivo. Al termine riceve il tornado di applausi sul finale con sobrietà e compostezza.

Momento del nervoso: Suona un telefono in platea e un lampo d’INCAZZO appare sul volto del pianista.

La gente, guardando il palco: C’è il pianoforte e tutt’intorno il silenzio. Il pubblico è attento all’esecuzione e compie ogni movimento al rallentatore per non disturbare, perfino i respiri sembrano ovattati. Tutti hanno sulle gambe il libretto per seguire meglio l’alternanza di suoni barocchi e studi di frammenti melodici. La musica come strumento per innescare e stimolare la curiosità dello spettatore.
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fra teatri e corone c’è il NO

Le avvisaglie c’erano fin dal primo trailer comparso in rete.
R.Emmerich che affronta una storia sull’autore più importante del sedicesimo secolo = NO.
Sono andato a controllare, nonostante i ‘segnali’ dicessero ‘non farlo’. Però io ho un debole per i film in costume.
Ahimè,  ‘Anonymous’ non mi è piaciuto. Il regista di catastrofismi, mostroni, crolli e inondazioni, alieni e bestie preistoriche prova a fare l’autore ma fa lo sbaglio. Non viene aiutato da una sceneggiatura ipertrofica di personaggi e flashback che mischia la narrazione fin troppo, arrivando a spaccare il film a metà fin quando la storia teatrale diventa un pretesto per intrighi di corte, con l’aggravante che uno dei personaggi principali (tipo, ehm, il bardo) diventa una fastidiosa macchietta.

Cosa mi aspettavo? Un thrilling teatrale con un tocco di corona inglese. Invece il thrilling non c’è, il ‘colpevole’ si scopre subito, il complotto è tanto noioso quanto complesso, le scene d’azione sono piccole e miserrime, non c’è nemmeno del gran LOL involontario. Insomma, robetta.
Si salvano i dolloni su Londra che fan sempre scena, la zona dei teatri ben ricostruita, la recitazione del cast di attori inglesi che appena sentono ‘Shakespeare!’ si impegnano molto, fra tutti Ifans che è molto bravo, eyeliner incluso. Bè, forse è abbastanza, no?

(il mio giudizio non tocca la questione, abbastanza irrilevante forse, del fatto che il film se ne frega della conoscenza storica del periodo del pubblico non inglese e se ne frega pure della veridicità storica. Per approfondire questa questione, lo sguardo ‘londinese’ di Byronic su junkiepop ed il post chez ingressoridotto, dove il film è piaciuto). 

Diciassette anni per dire ‘era ora’

E così è successo.
L’han buttato giù. Non gli avversari politici, inconsistenti, non il popolo, troppo occupato, poco ‘occupy‘, ma i fantomatici ‘mercati’, la fragile Europa, un Presidente più serio di una maggioranza prona e qualche transfuga ora accusato di tradimento dall’ex capo.
Non so se è un bene per la nostra democrazia, il come, so che è un bene che questo sia avvenuto. Perchè ‘pez d’axè an’s pol mia‘, come diceva mia nonna. Peggio di così non si può.
Era il novantaquattro quando arrivò il cerone formato politica, la calza per nascondere le smagliature, finto liberismo e contratti farsa spacciati per novità, quando da sempre, in due parole, prima ha pensato ai cazzi suoi e dei suoi compari.
Non mi è mai piaciuto, non l’ho mai votato.
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Post-drums

Il jazz fusion è un genere musicale piazzato al crocevia fra melodie easy listening avvolgenti e semplici con ritmiche anche funky e struttura e assoli jazz.
In pratica califfi musicisti che scrivono un brano pop e lo trasformano con assoli tecniconi ma anche ispirati in brano jazz basandosi sull’interplay fra musicisti per poi tornare al punto iniziale. I pezzi risultano facili all’ascolto, gingilli strumentali, rimandi al passato e sono buoni per ogni video in cui un’aquila vola sopra a un deserto, immagine che mi è venuta spesso in mente durante un paio di brani.
Sì, troppa videomusic da ragazzino e no, non bazzico molto il genere, anche se non era la mia ‘prima volta‘.
Il titolare del quartetto suona con un’unica chitarra per tutta la sera con (ma potrei sbagliare) un unico effetto utile solo per passare da modalità funky-fusion a modalità rock grosso. Spara assoli iperbolici ma divertenti e pennella onde di note che reggono la melodia quando gli altri ‘assolano’. Con lui un sassofono bravo col quale spesso si lanciano in combinazioni melodiche che fanno volare letteralmente il brano e un bassista potente e profondo.
Dietro di loro c’è il motivo della presenza al concerto e del post. Uno dei migliori batteristi al mondo. Fra i contemporanei, da top ten, sicuro. Maglietta nera attillata, fisico asciutto, doppio rullante, due tom, due floor, sei piatti misti fra crash e ride. Tecnica spaventosa, dinamica impressionante. Sembra anche che non sudi più di tanto nonostante i quaranta gradi del locale e le luci sparate addosso.
Durante il quarto pezzo gli altri lasciano il campo a lui, come già successo nelle precedenti esecuzioni.
E qui…cambia ritmo e rallenta producendosi in un paio di controtempi molto spezzetati, poi fa un giochino col rimshot, torna al ritmo del pezzo per poi lanciarsi in un crescendo torrenziale di terzine fulminanti, fill potentissimi, schiaffi al charlie e ‘avere quattro braccia’.
Penso mi si sia staccata momentaneamente la mandibola. Giusto per dire che ieri sera ho ascoltato il ‘drum solo‘ più bello della mia carriera di spettatore live ed, ormai ex, batterista.
Cosa che non sembra ma vale altro che un post.

(photo credits: dummydonuts)

Fanne meno, falle meglio

La prima cosa che ho pensato uscendo dalla sala è stata ‘irritante.’
Cerco di spiegare perchè (micro spoiler alert).
Sorrentino mette in scena la maschera pesantemente truccata à la Cure, di una ex-stella della musica, con l’occhio cadente di noia repressa e depressione imminente; prende il sempre bravo, qui un po’ (forzatamente) statico Sean Penn, ci gira un po’ intorno, perlustrando il suo piccolo mondo che somiglia a una prigione dorata e piena di rimorsi per un passato ancora opprimente e poi lo porta in giro per l’America alla ricerca di un nuovo senso della sua vita, inseguendo uno scopo e un futuro migliore per tutti, mettendo in scena geometriche visioni on the road in un viaggio che è un susseguirsi di flash di comprimari, panorami e pensieri dellavecchia popstar triste che beve soda con cannuccia.
Semplifico e sintetizzo, tirando al ribasso perchè il film mi ha dato proprio fastidio nella sua ricerca ‘arty‘ di immagini pretestuose per mostrare la già riconosciuta e indubbia bravura del regista nell’inquadratura e nella messa in scena, in un eccesso petulante di dolly gironzolanti e carrelloni che dopo dieci non se ne può più.
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