#Baffodoro20

Sabato sera ho avuto il piacere di introdurre una band di amici che hanno organizzato una festa per festeggiare il loro compleanno, vent’anni di attività, di canzoni, di concerti, di sbaffini. Prima del loro set ho letto un testo scritto cercando di restituire in parole la loro storia, per come la conosco, cercando di seguire il ritmo della loro musica, in maiuscolo i titoli delle loro canzoni.
Però la cosa più bella, più importante di quanto ho scritto e letto io, l’ho vista durante la festa, mentre cenavo, parlavo, ascoltavo le altre band venute a fare festa, mentre aspettavo con un po’ di tremarella di salire sul palco.
Questa piccola band e i loro amici, non più solo ragazzi ma uomini con figlie e famiglie, in vent’anni hanno non solo suonato ma anche cementato un gruppo di amici e di persone che si trovano e si abbracciano. Si abbracciano da sobri e anche da sbronzi e niente, una serata con così tanti abbracci dati e ricevuti, sinceri, calorosi e lunghi e abbracciosi, era un pezzo che non la vedevo ed è stato molto bello.  

Il sogno era lì, davanti a loro.
Una fotografia 60×40, sovresposta, il charleston chiuso e l’asta che brillava di riflessi argentati in primissimo piano. Dietro, la figura del cantante, sfocata, immersa in una nube di rosso e, cos’era, fumo? Probabile.
Il futuro, in quella foto, in un piccolo locale che adesso non c’è più perché torna tutto ma non tornano i locali dove le band alle prime esperienze potevano esibirsi, esaltandosi, pure vergognandosi.
Era il millenovecentonovantotto e una novità spuntava nel sottobosco della piccola ma florida provincia emiliana che produceva band a tutto spiano, come un’officina delle note.

I BAFFODORO.

Un nome al sapore di birra e ritmiche precise, arpeggi, tre chitarre che si inseguivano lente, a tratti storte, a volte un morbido tappeto e poi lampi, inseguendo inquietudini, in oscure trame strumentali.
Il primo Ep era immerso nella NEVE.
Le basi: una lontana band di Glasgow, un pugno di reminiscenze americane, un tale di nome VEDDER e quelli come lui che a distanze di oceani parevano unire la musica e quella cosa che di solito si chiama amicizia.

La base: due parole, precise, secche, fin troppo ribadite, diventate scontate e inutili come molte definizioni.
Post Rock. Dopo, Rock.
Canzoni lunghe come gestazioni, percorsi DAL COMPARTO VUH, abbaglianti e oscuri, a seconda di come va, di come stai tu, che ascolti, che batti il piede, che ricevi un’immagine dal palco, quel palco che forse non c’è più e poi la rigiri, quell’immagine, magari per arrivare all’ESTASI DI MATHIAS RUST oppure ti fermi, tremolante come dopo avere fatto un bagno nel mare di novembre, aspettando un’AURORA che possa rischiarare tutto.

Ma prima, ricordi? Una conversazione.
Lui disse, “Lo riconosci il futuro? Dove saremo? Quanto durerà? Porteremo ancora questi cappelli? Avremo sempre queste facce? Sopporteremo le nostre rughe?”. L’altro rispose…chissà cosa rispose, probabilmente suonarono qualcosa come risposta a domande troppo impegnative.

E ancora, ricordi?
Quella foto. Tre teste piegate sugli strumenti mentre il sole se ne va, stanco mentre lascia una marmellata arancione all’orizzonte. Sarebbe da fermarsi ad ammirare, forse a pregare qualcosa, ma quelle teste non si fermano, restano, incuranti del buio che le assorbe, tanto le note saliranno, lasciandosi alle spalle molte cose, sottolineando momenti e CHE FELICITÀ NEI GIORNI DI FESTA che sono i concerti, dove la musica a tratti sembra un pretesto per tornare insieme, in gita con accompagnamento di chitarre, mentre fuori LE NUVOLE CORRONO VELOCI.

E ancora, sì, certo, ricordi?
Quante immagini di viaggi che sono stati esplorazione, mentre visitavano luoghi lontani, notti in tenda, in treno, in van ammuffiti, assimilando panorami e lasciandosi ispirare da racconti, leggende, articoli, conoscendo nomi mai sentiti, DAVID HOLM che salvò la sua anima, PHILIP KERKHOF che attaccò lo squalo, anche se le canzoni, senza testo, a volte vorrebbero spiegazioni, sottotitoli, ma poi, perché? Chi l’ha detto? C’è davvero bisogno di istruzioni, oppure, basta la musica e una raffica di fotografie attaccate a un muro a prendere polvere, a indicare una via, una vita comune?

E poi, accaddero PICCOLE RIVOLUZIONI, una voglia di crescita, la matrice sempre quella, canzoni con il cappello di lana, con il vento in faccia, guardando l’oceano, come a MILTON MALBAY. Raffiche distorte, pacata melanconia, momenti astratti come un dipinto di KANDINSKY, una piccola vena culturale, rigore formale ma, suvvia, qualche concessione pop su lunghe trame dove trovare la tua sensazione, dove puoi scegliere il filo con annessa lampadina e vedere dove ti porta, scegliere il battito che ti si addice, prendere la melodia da succhiare all’esplosione di riverberi, da fischiettare il giorno dopo, incollata da qualche parte nella memoria.
Vent’anni, e circa ogni quattro anni, una manciata di canzoni per proseguire quella conversazione partita da lontano.

E piccoli battiti, chitarre che incontravano soluzioni diverse, incontri che rifinivano la proposta, arpeggi e violinismi, FOSCO che disegna la copertina, ‘A VAGG’’, mentre fuori l’autunno era invadente ma non riusciva a vincere, raccolti in un casolare, le canzoni un’accorata preparazione per difendersi dai morsi dell’inverno che stava arrivando.

Tutto questo: un magnete, un mastice. Fatto della sostanza labile eppure solida della musica, del ricordarsi gli intrecci sonori e quelle foto appese ad una parete che non prendono solo polvere. Creare un FLUIDO70, nuotarci dentro, a volte annaspare, come in certe trame musicali, a volte esplodere, ma sempre per tornare, purificati come IL FIGLIO DELLA TEMPESTA.

E adesso: riguardale le foto.
Le vedi ferme, come quella là, quella immersa nel rosso.
Eppure se guardi bene nel corso dei vent’anni, vent’anni, li riconosci, si muovono piano ma si muovono costantemente.
Gambe che ondeggiano con le chitarre, piedi che premono pedali, capelli che svolazzano, ciuffi che cadono, gomiti che si piegano graziosi, bocche contratte, sguardi rapidi in occhi conosciuti, un inchino finale, intrecciati di sudore, applausi e infine, una, facciamo due, birra per tutti.

E, infine.

Le memorie di vent’anni possono confondersi, cambiarsi, modificarsi. Diventare epiche, modeste, sempre le stesse ma trasfigurate, come immerse in una BRUMA, che le rende instabili, incostanti, infine mutevoli.
Quello che conta, in fondo, è che dopo vent’anni, vent’anni, ci sia ancora uno scintillio nell’asta della batteria, un ragazzo davanti a un pubblico, squarci di passione che tracimano dalle chitarre e questi amici, ancora a sognare, ancora a suonare.
Ancora.
E nuovi titoli. E altri chilometri.
Per allontanarsi, per poi non perdersi.
E ritrovarsi. Ancora qua.
Ancora vent’anni e poi altri anni, fino alla BUIA LUCE che ci inghiottirà mentre la musica e tutto il resto, rimarrà.

Signore e Signori, ‘BAFFODORO’.

Baffodoro Bandcamp

#civoti? Civati! (un breviario)

Promemoria.
Svegliarsi presto domenica, prendere il caffè, andare a votare.
(Svegliarsi tardi domenica, fare il brunch – si fa ancora il brunch? – andare a votare)
[Svegliarsi quando ti pare alla domenica, pranzare coi genitori, andare a votare]

Si vota dalle 08 alle 20, prendi la tessera elettorale eh, poi puoi fare quello che vuoi domenica, ma adesso ti dico qualche motivo per cui impegnare una mezz’ora (anche meno) domenica per dire la tua, per dire ‘Oh, daje!’ al Pd e anche un po’ a tutto il mondo politico.
Puoi farlo votando il candidato migliore alla segreteria del Pd.
Pippo Civati.
Perché?

Perché usa il plurale, dice ‘noi‘, non dice ‘ci penso io‘.
Perché vuole andare a votare, presto e con una nuova legge elettorale e lo dice dal primo minuto della sua campagna elettorale, senza attendere la corte costituzionale.
Perché è chiaro e non cambia idea a seconda delle interviste che fa.
Perché di interviste ne ha fatte poche, non è stato invitato da Fazio, ‘Repubblica‘ non se lo è praticamente considerato, solo in questi ultimi giorni i media tradizionali l’hanno scoperto.
Perché ha fatto una campagna elettorale dal basso, partendo dal web, alimentando i volontari che lo hanno aiutato con la speranza, perché ‘le cose cambiano cambiandole’.

Perché dice che la politica può costare meno e lo dimostra, girando senza auto blu, senza scorta, solo con entusiasmo.
Perché ha detto una frase bellissima che è ‘si esce dal ventennio (berlusconiano) con i ventenni’.
Perché nessun potente del Pd lo sostiene e lui nelle liste collegate (servono ad eleggere l’assemblea del Pd) non ne ha presentato nessuno (altri, sì).
Perché Renzi non è il male, ma il rottamatore ha esaurito la spinta, terrorizzato da non riuscire in quello che è il suo destino, diventare premier (e dice cose che non van bene sulla legge elettorale, ma poi cambia idea, vedrai)
Perché Cuperlo è un galantuomo ma rappresenta un partito antico.

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Civati, la birra, il sorriso, lo slogan

Perché Civati non urla.
Perché dice che il welfare ci vuole ma è giusto pensarlo diverso, più equo.
Perché sostiene la laicità dello Stato.
Perché dice che in Italia c’è una questione maschile.
Perché dice che non è questione di pubblico O privato, ma che i due possono stare insieme.
Perché vuole i nomi dei centouno parlamentari Pd hanno voltato le spalle ai loro elettori durante le elezioni del presidente della Repubblica, spianando la strada a un governo di larghe intese che non funziona.
Perché è garbato, paziente, pure bello.
Perché non dice che è facile, non usa slogan improbabili, ma scrive settanta pagine per dire che è difficile ma bisogna iniziare a provarci.

Perché è di sinistra, senza estremismi e senza spaventare nessuno.
Perché ci mette la faccia, sempre (#insultacivati  per esempio e ogni post che scrive sul suo blog)
Perché dice che bisogna confrontarsi col M5S.
Perchè è l’unico che non vuole distruggere nè rottamare, ma sa che bisogna ricostruire, ripartire proprio da un confronto con la base, con le persone che siamo noi, perché dice che ‘La spaccatura fra classe dirigente e popolo dev’essere una fissa dei politici’.

Perché per la prima volta in vita mia sono andato a vedere un happening politico per merito suo e perché per la prima volta in vita mia un politico mi ha acceso una passione che ha portato tutti questi post e chissà, magari altri.
Perché ha baciato la compagna sul palco dell’Estragon dopo il suo intervento.
Perché sarò ingenuo, come mi hanno detto, ma non voglio un leader, di leader o di wannabe-leader, ne abbiamo avuti fin troppi.
Voglio uno, che non abbia paura della gente, che non si nasconde nei palazzi, che scende dal palco con una birra in mano a parlare con uno come me, che non conta niente. E questa scena l’ho vista domenica.

Perché cambiamolo sto partito, cambiamo sto paese stremato.
Perché è un politico nuovo, fresco, libero, che parla col cuore, ci mette passione.
Perché ho provato a far votare sette persone, non so se ce l’ho fatta, gli exit poll son buoni, ma ho scoperto che ho sempre avuto ragione perché i politici non sono tutti uguali.
Uno diverso, di sicuro, te lo dico io, c’è.
Si chiama Giuseppe Civati.
Perché se #civoti #vinceCivati e il panorama politico sarà migliore, fidati.

(altrimenti, ve lo dice lui perché…)

(il vero breviario per votare è qua)

ciwanoi

la decadenza sui ricordi

Chissà quante macchine passano davanti a quell’edificio, soprattutto al mattino presto, per portare i figli a scuola o correndo ad occupare sedie reclinabili.
Chissà in quante di quelle macchine che percorrono quella strada è seduta una persona che è stata dentro l’edificio, che ora giace esanime sul lato della via.
Chissà a quante di quelle persone scappa l’occhio, scatta un pensiero, esplode un ricordo.
In una giornata grigia, l’edificio grigio, lasciato alla deriva, come un’isola del passato, si confonde con l’ambiente. Un camaleonte di cemento, si mimetizza per non farsi trovare, qualche edera che si inerpica sui muri, qualche ciuffo d’erba che ha invaso i marciapiedi. Un vecchio signore decaduto, che non vuole farsi riconoscere, si nasconde. Di notte gli vien facile, se ci passi davanti trovi un muro nero, nessuna luce a illuminare un relitto.
Il nome sbiadito sull’insegna, l’ultimo tentativo di risollevarne le sorti, un guizzo fuori tempo massimo, mentre la grandeur delle discoteche grosse scompariva, le nuove generazioni impegnate in altri divertimenti, il divertimento dislocato presso altri luoghi.
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Quando il passare lungo quella via nelle serate di venerdì e sabato per un pubblico ‘maturo’ e alla domenica pomeriggio ‘per i più giovani’ era una unica lunga fila per parcheggiare, un buttare l’occhio sulla minigonna, un saluto volante da un finestrino, un casco da ancorare alla ruota del motorino con una catena robusta, il locale era un monolite brillante, invitante, le luci fuori e le vetrate che riflettevano allegria.
Dentro, le calze velate, le gonne a palloncino, le spalline esagerate, i giubbotti di montone, i gilet (cazzo, i gilet!), il gel nei capelli, i capelli lunghi, i paninari che erano ancora là, ma se ne stavano andando, le frange sapientemente arrotondate con il phon, gli ombretti perlescenti, la lacca nella borsetta, montagne di fard, la marlboro sempre in tasca, la permanente bisex, le giacche scelte con cura, le scarpe da grandi.
Lampadari esagerati e sfavillanti, velluti imponenti ma che davano un tono. Le scale un punto di osservazione, la mischia al bar una zona di perdizione.
La grammatica discotecara era già formata. Si faceva socialità e il passaggio di una telecamera era un evento, gli sguardi che la sfioravano, facevano finta di schermirsi, seppur ammiccando a chi avrebbe detto ‘sei al notiziario locale’.
La fila fuori non per mostrare che dentro c’è già confusione ma perché i riti delle tribù erano simili, quasi sincronizzati, tutti ci si trovava alla mezza, nell’atrio. Bagarinaggio di biglietti omaggio, richiesta di tagliandini ‘free drink’, piccole contrattazioni concluse con strizzate d’occhio o di spalle. I soprabiti da parcheggiare e poi dentro a buttare lo sguardo per vedere se la geografia era cambiata, ma non cambiava mai.
Vigevano regole ferree di proprietà territoriale. Qualche faccia nuova, sì, ma si poteva fare affidamento sulla presenza degli autoctoni nel bar a destra o nel privée di sopra, mentre a quelli che arrivavano da fuori provincia era riservato il bar dietro la consolle del dj, dove ammassavamo bicchieri di prosecco come piccole luci che brillavano del nostro stordimento serale.
La pista era una zona franca dove ci si esaltava ballando house music con battiti rassicuranti e tutti uguali, alternati a raffiche di successi pop con canzoni che avevano le stesse parole di amore o di voglia di amore che molti pensavano, ambivano, provavano. Nella danza si spiavano le mosse invitanti o ingenue delle ragazze, incrociando sguardi di rivali che non sapevano ballare ma occupavano il territorio. Se eri fortunato finivi su un divanetto, drink e abbracci.
Erano poche ore che a volte sembravano intense, a volte erano il ripetersi di riti necessari. Al termine, si andava, un bilancio presto fatto accompagnava l’ultima sigaretta nel parcheggio.

Chissà se l’hanno spolpato il locale. Se avvoltoi del ricordo si sono buttati dentro e hanno preso un pezzo di tappezzeria, un brandello delle pacchiane colonne da basso impero che circondavano il bar a piano terra. Se imprenditori speranzosi lo hanno smembrato per riconvertirlo in progetti abitativi, se l’impianto luci è stato tolto o se è rimasto lì dov’era, occhi stanchi a ricoprirsi della ruggine degli anni e della polvere dei ricordi.
Magari, dentro c’è un drago enorme, che dorme in attesa, come nello ‘Hobbit’.
Non aspetta niente, se ne sta lì fermo, a proteggere frammenti della nostra gioventù. Spicchi di mirror ball caduti a terra, stanchi di attendere che un dito sposti il selettore su ‘On’, pezzetti di vetro come paillettes ancora luccicanti, ognuno capace di portare alla memoria un’immagine che racconta una storia più grande, fotogrammi che se messi insieme, oplà, sarebbe come tornare vent’anni indietro, quando il sabato sera era il centro del mondo e la solita serata in discoteca il fulcro di una settimana.
Fin quando un cavaliere arriverà brandendo una spada lucente e li libererà per portarli da un’altra parte meno grigia, dove quei luccichii, matrice di come eravamo e di come siamo adesso, riprenderanno a brillare.

 

 

la salvezza, all’ultimo rimpallo

RegiaUn amico dice che il calcio è uno spettacolo come un altro, come andare al cinema.
Mah. Fosse vero, nessuno guarderebbe in streaming a bassa definizione, con commento fra il tifoso e l’inadeguato, da uno stadio brutto e stretto fra montagne e quartieri, una partita fra giocatori che non brillano per controllo palla, precisione nei passaggi, parabole dei cross, in una domenica con uno splendido sole fuori e troppa tensione dentro a una stanza.
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(un post, rock) del perdere

Perdere su campi da calcio dopo essersi spolmonati per novanta minuti più recupero infinito.
Perdere su tavoli di legno di birrerie di vario lignaggio, dove perdere la necessità di compagnia, per preservare lo spirito, per proteggere la propria incorruttibile identità.
Perdere su parquet dopo aver perso pezzi di denti che incontrano gomitate cattive.
Perdere discussioni dove si inciampa per sbaglio, per un capriccio del caso, entrando in un bar per bere caffè, decidendo di perdere per evitare di arrabbiarsi.
Perdere nel segreto delle urne e non capacitarsi di come gli altri, sempre loro, non vedano, perdendo il senso della prospettiva.
Perdere terreno come cani da punta troppo lenti, con troppi chilometri nelle gambe e troppe cose perdute negli occhi.
Perdersi nella quotidianità, cercando un significato che ti fa perdere il momento, ingrossando la fila dei perdenti.
Perdersi in pennate di chitarre che ci riconoscono, ci parlano sempre del perdere, ombelicali ed amorevoli, pizzicori elettrici che scavano terreni conosciuti.
Perdersi in parole e suoni che, basta davvero un momento, e vorresti slacciare la camicia, offrendo a qualunque nemico il petto, urlando, non mi abbatterete mai.

Perdere, forse, è un’arte. Perfettibile e in perdita per non perder la propria bussola.
 
 
 
 
 

New Paesello Orleans (Superbowl Night)

sbDa tempi lontani, circa metà anni ottanta, nel paesello, in una stanza sotto terra, fredda senza camino, un po’ fredda anche col camino, ragazzi indigeni si danno appuntamento per vedere la messa dello sport professionistico americano per eccellenza.
Il Superbowl. Anche questa notte siamo qua, indomiti, entusiasti.
Due hanno visto il basket dalla Wikipedia poche ore prima, uno ha sciato per giorni fino a poche ore prima, l’altro ha avuto una giornata di compleanni e di bambini. Chi dormirà? Chi resisterà sveglio?
E al Superdome di New Orleans cosa succederà?
Come già in passato, un po’ per divertimento, un po’ per restare più sveglio, metto qua una cronachetta live del Superbowl visto nel paesello, mentre fuori non passa una macchina, che domani è lunedì.
Non è che posso stare a spiegare tutta la faccenda, un paio di link li metto, poi Google è a un passo.
In sintesi, si affrontano San Francisco 49ers sempre vincente nei cinque Superbowl giocati, e Baltimore Ravens vincente nell’unico Superbowl giocato. Due fratelli sulle panchine (John, BAL-Jim, SF) storie di quarterback che si incrociano (Kaepernick, il QB che corre- Flacco, il QB col braccione) difese che si faranno male, attacchi che correranno e non solo.
SF favoriti. Nel paesello, il padrone di casa è un tifoso di SF, io pendo per Baltimore (‘In Ray we trust‘) per creare una micro rivalità nel nostro micro cosmo di pochi metri quadrati, rivestito di birre, tazze da caffè, cartoni di pizza vuoti, arachidi, popcorn, un panettone e un camino che vuol tenuto accesso altrimenti viene il gelo siberiano del paesello. Nell’intervallo, halftime show a cura di Beyoncé.
Sono le 00:19, partono gli inni. Apro una birra, aggiornamenti random.
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‘A vàgg’ (una serata, un focolare)

(foto di Paolo Zapparoli)

prendi una sera libera, una sera fuori dalle solite.
prendi una strada che si addentra nel verde lussureggiante delle prime colline. erba ed alberi si prendono felici la pioggia. mostrano il loro vestito migliore. un verde rigoglioso che traccia la strada verso l’interno.
non è più estate c’è una prima nebbiolina. una coperta di umido sotto a nuvole grigie che scrivono in cielo che l’autunno è arrivato. eppure, era estate soltanto ieri.
percorri la striscia d’asfalto che si insinua come una lingua in una gola verde.
stai attento, se incroci un’altra macchina una delle due in un cavalleresco codice comportamentale, deve cedere il passo. agevolare il passaggio.
poi l’asfalto diventa una carraia di buche e sassi grossi e vai piano che altrimenti fai danni.
poi vedi un agriturismo ma è pieno di luci, troppe luci, hai detto che cercavi un posto più intimo e allora vai avanti finchè la strada non si stringe ancora e arrivi in un casolare, uno di quelli di una volta da dove partivano al mattino presto e tornavano prosciugati di fatica alla sera dopo aver modellato la terra.
occhio, c’è una capra, ha le corna. l’hai mai vista una capra con le corna? sembra che ti venga incontro, ma non è pericolosa eh. no, guarda, va a brucare un melo.
sei arrivato, c’è un giardino tutt’intorno, vieni dentro che la pioggia non è amica degli strumenti, dentro dove le luci poi le accendiamo noi, in uno stanzone alto, una volta era un fienile sai.
a una delle finestre è incastonato un dipinto. un nobile di tempi andati, dietro una tenda pare sbirciare per controllare cosa combinano i suoi eredi su quella costruzione sopra ai campi che secoli prima erano di sua proprietà.
è un po’ umido ma va bene, ci stringeremo un po’ per non farlo entrare nelle ossa.
altra gente lentamente arriva, tutti portano qualcosa. una torta con il velo di zucchero, una con la marmellata buona. una bottiglia senza etichetta di vino novello imbottigliato pochi giorni prima, altre bottiglie con etichette di lambrusco. ed erbazzone gnocco ciccioli salame tutte robe che fan male al corpo e bene allo spirito.
c’è una spina che spina, abbelliscono le pareti quadri di artisti per divertimento e passione , si chiacchiera, ci si conosce un po’ o ci si incontra di nuovo. ciao, come ti va? e poi è già sera, fuori piove più forte ed eccoli.
siam qua grazie al loro invito. i padroni di casa, già piazzati su un tappeto rosso fra fili e pedaliere e sei corde e una batteria verde.

(foto di Cristina Malagoli)

il focolare l’han pensato loro, costruendolo con pietre e ceppi che siamo noi tutti, qui presenti, intorno.
la musica è fiamma che si accende e si spande nella stanza, riverbera arrampicandosi sulle pareti spazzando l’umidità per poi piombare addosso a tutti, mantello invisibile di energia pura ed amica.
focolare è a’ vagg, ci sono anche lettori improvvisati che leggono brevi storie ispirate dalla musica.
poi arrivano altri amici, musicanti ed orchestrali anche loro, si passano i microfoni a turno, imbracciano le chitarre e si lasciano andare alla loro passione, alla loro narrazione, fanno ardere il fuoco di altre melodie.
un (per una sera) solitario folkster, antichi vestali grunge, barbuti che tornano a suonare dopo anni, amici di chitarra, post rockers in acustico.
il focolare resta acceso, chi c’era rimane a godersi il tepore, altri arrivano, fuori ha anche smesso di piovere, è una notte amica.
e poi tornano a suonare i padroni di casa, altri racconti in punta di chitarra. e poi non piove più e il focolare non si spegne ancora.

te l’avevo detto sarebbe stato bello.
adesso lo sai. ora il percorso è compiuto, la strada tracciata. ‘A vagg si può ripetere. basta avere due chitarre, un posto dove mettere i microfoni e qualcuno che porta del vino e un po’ di salame.
per rinnovare il patto, rigenerare lo spirito, suonare ancora musica sempre nuova, sempre migliore.
raccontarci altre storie, sentirci più vicini.
altrimenti nessuno lo farà per noi. 

 

(foto di Cristina Malagoli)


29/09/2012, ‘A vàgg’:
Foto, testi del reading e le canzoni dell’EP “‘A vàgg”

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upupa sings when Brad ‘plin plings’

C’è una lunga via all’inizio del paesello appollaiato sulle collline punteggiate da grosse rotoballz di erba secca.
Stasera è chiusa per l’evento della stagione.
C’è una villa che è un monumento, una costruzione dell’ottocento illuminata da luci che la inondando di colori.
Stasera è aperta per fare da sfondo all’evento della stagione.
C’è un prato con sedie di plastica non propriamente comode. Lentamente arrivano appassionati di musica e persone che non possono mancare. C’è dell’allegria nell’aria, molti bei vestiti, qualche gioiello inaccettabile (soprattutto sonagli scampanellanti portati come braccialetti che daranno un lieve fastidio durante il concerto).
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#teamRoger

Al termine dell’incontro di oggi dove RF ha vinto il settimo titolo della sua carriera sull’erba londinese, uno stimato blogger ha scritto su twitter ogni volta che R.Federer vince Wimbledon il mondo è un posto migliore’.
E’ la verità e non serve, anche se fa sempre bene, rileggere le splendide parole di DFW sul grandissimo campione svizzero. Non è solo la nostalgia dei tempi andati, di quando l’erba non cresceva più sul centrale non soltanto a ridosso della riga di fondo ma anche nella linea mezzana perchè si faceva serve & volley e pure a ridosso della rete l’erba diventava sabbiosa, dove i tennisti aspettavano fucilate altezza sterno o si allungavano su passanti.
E’ perchè (e non è certo una novità) le partite sono lunghe di fitti scambi, botte tremende, mazzate muscolari e c’è stato uno scambio, prima ancora dello spettacolare lunghissimo game che probabilmente ha deciso la partita, che conteneva un gesto unico e raro, un momento di verità e di bellezza assoluta.
In questo scambio Federer, correndo all’indietro verso l’esterno del campo, cambiava posizione per difendersi da un siluro di Murray pur non avendo il tempo giusto per colpire col classico dritto.
Qui si è inventato un chop affettando la palla a quaranta centimetri da terra, privandola della potenza con una carezza sul piatto della racchetta e con un taglio basso ed elegante rispedendola nel campo avversario disegnando un arco di altri tempi, una traiettoria verso l’esterno destro fatta di polvere di stelle e di talento infinito.
Colpi che valgono una partita e che fanno ancora innamorare gli appassionati, colpi da preservare, come la fantasia che insieme al resto, capacità atletica, resistenza mentale e quant’altro, rendono un campione memorabile. E il mondo un posto migliore.
Bella Roger, grazie.

Jeff, meet Fabio

Stamattina stavo aspettando della roba in un posto.
Il posto era un magazzino enorme. Una specie di hangar illuminato a notte bianca da file di neon, ricambi di acciaio lucido allineati su strutture metalliche, sirene strozzate sopra a robottini panciuti e agili che si muovevano su corsie di colore giallo intenso, tizi silenziosi col cronometro interno già settato sul venerdì e tizi fischiettanti che spostavano robe. E un piccolo altoparlante da cui usciva una stazione radio. Radio DJ.
C’era un tipo dietro al bancone dell’hangar che parlava a un cellulare con un vocione fortissimo e un accento super siciliano e io ero concentrato su questa vociona che mi chiedeva cose e sui documenti che avevo. Mentre parlavamo parlava anche il dj. Riconoscevo la voce, quella di Fabio Volo. Dopo poco passa un pezzo quasi in simultanea con la partenza del tipo col vocione verso la struttura metallica e il robottino pronto a prelevare il mio pezzo di acciao scintillante.
Un brano dei ‘Wilco’. Gran botta di culo. Mentre fischietto il pezzo cerco di ricordarmi come si intitola ma sto invecchiando forse e comunque ho sempre avuto difficoltà a ricordarmi i titoli dei brani. (guarda, ce l’ho lì eh, sulla punta della tastiera ma niente, non mi viene).
Fabio Volo mi sta più simpatico che antipatico. Mi stan simpatici anche i post che distruggono i suoi libri. Penso siano un po’ eccessivi perché basta frequentare gente – la maggioranza della – che non è usa frequentare blog e rete che non sia quella degli status coi cuoricini di Facebook per settare il suo pubblico.
Fabio Volo è un facile bersaglio, scrive romanzi con le frasine giustamente romantiche, adatte a fare presa sul suo pubblico. Quindi, nessun problema.
Di libri di Fabiuzzo nostro ne ho letti tre, per colpa di una mia fissa che leggo sempre il libro più venduto dell’anno nel paesello. Il (suo) primo mi era pure piaciuto, lo avevo trovato onesto e pure simpatico, il secondo, mmh, il terzo, sciò. Come detto, a me sta benone che la gente legga Volo, che è importante leggere i libri. Certo, mi piacerebbe molto di più se non leggessero solo quello, ma il discorso viene lungo.
Tornando al mio magazzino mattutino, al termine del brano (oh, non mi viene il titolo) Fabio dice questa frase:
Questo ragazzo che canta si chiama Wilco”.
Dalla testa mi esplode un fumetto enorme con scritto a caratteri cubitali “WTF!?!” e anche “NOT“.
Il tizio con l’accento siculo intanto è arrivato col mio bel pezzo di acciaio cromato. Lo guardo con l’aria ferita, come se qualcuno mi avesse appena pugnalato in mezzo alle scapole.

Ora, Caro Fabio, conduci un programma radiofonico che presumo sia molto ascoltato, vendi migliaia di copie di libri, fai i film e piaci alle donne (me l’han detto di un tuo incontro pubblico con signore accaldatissime in sala).
Tutto questo però non ti giustifica dal non essere preparato. Anzi, il contrario. Anche perchè ‘Google’ è lì bello comodo e sempre aperto.
Il cantante dei (è una band) ‘Wilco’ si chiama Jeff Tweedy. E’ un grandissimo, è quel signore che suona all’inizio del post, ha scritto almeno due canzoni che ascolterei fino alla fine del mondo e non puoi dire un’inesattezza del genere, proprio perché sei il conduttore famoso di un programma conosciuto che magari, chissà, un paio di tizi in ascolto che non conoscono Jeff potrebbero dire ‘ah, bello sto brano, chi è? Un tizio che si chiama ‘Wilco’…mh…’ per poi magari confondersi dalla tua descrizione e insomma perdere l’occasione di conoscere una maledettissima grande band che suona da dio (vedi video sotto).
Insomma ci siam capiti. La prossima volta preparati, hai anche degli assistenti lì in studio, quindi è facile.
Si sa mai che ci sia un ascoltatore casuale che per lenire la ferita di una bestialità così, sparata in diretta a migliaia di persone, mentre esce da un hangar di magazzino col suo bel pezzo di acciaio brillante pensa che scriverà un post.

Ps.: suonano in Italia, a Marzo, valli a vedere, ti assicuro, ti piaceranno.
Ps2.: per statistica: su twitter fabio ha 169835 follower, wilco ne hanno 65155.