Si avvicinò al B&O nero scintillante. Play.
Un pizzicore di chitarra uscì dalle casse piccole ma potenti. Prese una sigaretta dal pacchetto bianco, accese. Nuoce alla salute ma in quel momento poteva. I suoi ospiti avevano fumato e lei poteva starsene davanti alla finestra ad aspirare lente boccate senza aprirla.
Fuori le gocce di una pioggia primaverile e lenta iniziavano a picchiettare il terrazzo davanti ai suoi occhi. Dietro di lei briciole di dolce sulla tovaglia insieme a bottiglie di acqua mezze vuote, briciole di conversazione ancora nell’aria. Erano scappati. Alla partita i figli, in bar per vedere la partita i padri. L’altra madre non era rimasta con lei, fuggita a godersi poche ore di libertà.
Guardava pigramente i contorni conosciuti dello scenario immobile oltre i vetri. Il pino gigante, la villetta simile alla sua, ma con colori e qualche particolare diverso, come quel gioco per enigmisti alle prime armi, ‘trova le differenze’, solo che lei le differenze le conosceva da tempo, così come da tempo quell’angolo ero il suo piccolo rifugio.
Stava sempre nello stesso posto. Sul lato sinistro rispetto alla grande finestra. La spalla che sfiorava il muro come a percepire la sua casa, un braccio sul petto, l’altro dritto a reggere la sigaretta, il fumo che disegnava arabeschi che accarezzavano il vetro, una gamba piegata in avanti, quasi pronta a scattare, comunque.
Come le aveva detto una volta l’amica ‘sembri una lady‘. Da allora, quel soprannome.
Non si era lasciata andare quasi mai nella sua vita. Le era andato bene così. Niente da segnalare, fino all’università dove il bacio accademico era il principio di una brillante carriera. Poi, lui e quella sera dove, sì, si era lasciata andare, verso una vita che non aveva previsto. Pappe, ciucci e senso materno inatteso mentre lui, lui sì, spiccava il volo verso i sogni comuni. Era divenuto lui il professionista, lei era la signora. La Lady.
La Lady, come l’aveva chiamata lui, l’altro, quel pomeriggio che lo aveva, imprevisto, invitato a casa sua. Non se ne capacitava allora come adesso a ripensarci, mentre il primo brano del cd finiva e iniziava la seconda sigaretta. Lui, dopo, in mutande, le aveva scattato quella foto. Gliela inviò dopo mezz’ora, via mail. La dedica. ‘Alla mia Lady‘. Lei, ferma, come in quel momento. La spalla, la sigaretta, il pino nel giardino dei vicini, enorme, a guardarla come un giannizzero.
Guardava fuori mentre la cantante si sforzava di accoppiare lirismo ed entusiasmo. Pioveva piano con calma, come si addice a una domenica pomeriggio. Come le capitava spesso si concentrava sulla fessura, uno spazio di mezzo centimetro, il confine fra il prima e il dopo quello che i professionisti avevano battezzato ‘il progetto’.
Una ristrutturazione dell’appartamento, per un secondo figlio che non era arrivato. L’unica concessione del padrone di casa alla, stando ai libri di studio, donna di casa, fu quella. Un terrazzo più grande, chiese lei. Si concentrò su quello spazio, un rigo nero dove scorrevano ricordi che in quel momento voleva ricordare, spinta dalla voce malinconica della cantante.
I passi troppo veloci e insicuri del figlio che cadeva proprio a metà terrazzo, sbucciandosi un ginocchio, urlando fortissimo mentre lei lo salvava per un pomeriggio, per poi tornare nell’abbraccio paterno, a cui somigliava ogni giorno di più.
Le tante serate estive con il jazz, che lui diceva lo rilassava, a far da colonna sonora a un rumore di noia che, a quanto pareva, sentiva solo lei.
Lui quella sera, quando giocherellando con l’anello lo aveva perso e manco a farlo apposta, era rotolato nella fessura. Poteva restare lì, come un segnale, come un ammonimento. Un tesoro senza Gollum a recuperarlo. Lui le aveva provate tutte, non si era arreso, aveva fatto arrivare un aspiratore industriale che lei aveva temuto potesse danneggiare casa e invece lui l’aveva avuta vinta, come sempre. L’anello era tornato al suo posto, intorno a lui era cambiato tutto da tempo.
E poi, il figlio e il padre, lo stesso sguardo sdoppiato che la inchiodava alle sue responsabilità, che la guardavano distante, mentre preparavano la griglia di tante serate estive a mangiare fuori. Lei, sempre a sfiorare il suo muro come sfocata, come se la vetrata fosse un velo fra due mondi, ormai scomparsi.
E poi l’altro, che fuggiva coi piedi scalzi, la pianta del piede che passava proprio sulla fessura, sorpreso dal rumore della porta che non si apriva, fortunatamente chiusa col lucchetto. L’altro che spariva dal balcone, saltando nel giardino, un piano sotto. E che era ritornato, sempre più spesso, nei mesi successivi.
Era ritornato anche sul tappeto, dove poche ore dopo i loro gemiti erano stati sostituiti dalle urla del padre e dalle ginocchia del figlio. Lei, in piedi, le spalle che sfioravano il muro.
Poche ore prima, mentre aspettava gli invitati, era nella stessa posizione, il grande lampadario di cristallo che riverberava della luce del mattino. Ripensava alla decisione. Era da prendere, sollecitata dalle parole dell’altro, dallo sguardo distratto del marito al quale aveva dato progetti e futuro che lui non aveva raccolto, concentrato sui propri. Il figlio se ne sarebbe fatto una ragione. Aveva dato quello che poteva, aveva lottato per non farne fotocopia maleducata del padre, senza successo apparente. Poteva ancora provarci ma non ne aveva più voglia. Era da prendere, la decisione. Glielo chiedeva la Lady, ferma davanti alla finestra, a guardare l’albero corazziere, a guardare la fessura sul terrazzo dove era caduta la sua giovinezza, a fumare sigarette ormai senza sapore. Si vedeva qualche anno dopo, gli stessi pensieri, la stessa immagine, l’identica figura, un fossato dove la sua spalla poteva appoggiarsi sempre. Sempre più distaccata, sempre più appoggiata al muro fino ad essere tutt’uno con quella casa che non voleva più.
Si staccò dal muro, aprì la finestra, gettò il mozzicone sul balcone, andò allo stereo, spinse stop.
Il silenzio la assalì, come se fosse un agente al soldo del marito, pagato per perturbarla, per trattenerla. Estrasse un vecchio cd. James Brown. Lo ballava da ragazzina. Lo ascoltava con l’altro, le volte che era stata sua ospite. Finì di sparecchiare, accennando una scivolata sulle ciabattine da casa, ogni volta che il buon vecchio James cacciava un urletto. Spalancò la finestra, inspirò il profumo della pioggia, scuotendo la tovaglia di lino. La piegò e la sistemò nel cassetto della cucina. Spazzò per terra, con vigore, a cercare in un gesto ripetuto di scacciare qualcosa che era più sottile della polvere che le setole raccoglievano. Controllò l’orario mentre il funky in levare la sorreggeva. Passettini si diressero verso la camera, la musica un serpente di ritmo che la sospingeva. Infilò scarpe con un tacco basso. Sfilò la borsa già pronta dall’armadio. Firmò la lettera che aveva già scritto, poche parole che spiegavano l’ovvio, che rispondevano a domande, oppure no.
Non resisto più. L.
Era la firma su un saluto, un arrivederci pensava, forse non avrebbero nemmeno pianto. Senza forse.
Spense James mentre i fiati squillavano come a sigillare il momento. Accettò il silenzio, annusando l’aria stantia di sigarette e umidità e tempo immobile da troppo.
Guardò l’angolo della Lady, vide una statua immobile, una figura, un adesivo che si stava staccando, una figurina che un paio di forbici esperte aveva ritagliato, lasciando un buco, un riflesso sulla finestra che spariva. Pensò che era la terza volta che si lasciava andare. Prese il telefono, chiamò.
E la Lady sparì da quella casa.