tesserati, con noi

E così stamattina ho fatto una cosa nuova. Mi sono iscritto a un partito. A quel partito che negli ultimi due anni, non ne ha presa una, proprio mica una. Il partito che doveva stravincere le elezioni e le ha perse, come un tennista col servizio del match point che fa doppio fallo, si deprime e perde. Quel partito che è in questo governo scellerato nella composizione e poco coraggioso.
Sono andato per votare i candidati alla segreteria provinciale. Per votare è necessario essere iscritti. Sono andato alla sede, ho ignorato la parte di me che faceva resistenza passiva e qua ti dico perchè ci sono andato:

perchè, “Molte forme di governo sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore. Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo ad eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta”. questa l’ha detta Winston Churchill, true story, l’unica cosa possibile da fare è alzare le chiappe, uscire dal web e andare a votare;
perchè è una grandissima stronzata che tutti i politici sono uguali, è una di quelle frasi con cui la gente si sciaqua la bocca pensando di pulirsi il cattivo gusto del disinteresse alla cosa pubblica, che, vedi sopra, ci trova tutti coinvolti;
perchè fra quelli non uguali ce n’è uno che mi piace. ha un blog pacato e serio dove racconta quello che accade evitando fotomontaggi brutti e populismo ‘à la carte‘, lo trovi  qua. uno che si ferma a parlare con la gente e che ha preparato una lunghissima – ma i tempi son complicati, risposte facili che vengono da slogan semplici, spiacente, non esistono – piattaforma di idee e pensieri con la quale si candida alla segreteria del partito;
perchè dietro questo politico serio (perchè a un certo punto tocca fidarsi, altrimenti si sta al famigerato bancone del bar a vomitare ormai insopportabile demagogia, come per esempio berciare ‘fuori dall’euro‘ magari credendoci pure a sta minchiata) ci sono altri politici a livello locale che stanno con lui e stamattina io sono andato a votare per uno di questi. donna, reggiana ovviamente, della quale ho letto una intervista pochi giorni fa (cartaceo, online ho trovato questa) e ho pensato ‘ma toh, bene‘;
perchè a volte basta poco per dire la propria o per interessarsi giusto un briciolo di più alle cose, partendo dal piccolo, dal locale, per provare, con un semplice voto, a cambiarle quelle cose.

E quindi, ho la tessera di un partito.
Probabilmente, Civati non diventerà segretario, il Pd sbaglierà molte altre cose e il bancone del bar rimarrà affollatissimo. Però, intanto, grazie anche al mio voto, nel paesello ha vinto proprio la donna di cui dicevo sopra e questa è già una bella cosa.

(questo post non contiene la parola speranza, contiene la parola blog associata a un politico che non è quello che finisce sempre ai tg, Renzi prenderà il 60% e io resterò combattuto fino al mattino delle future elezioni se votarlo, o meno, tessera in tasca o meno, che tanto non è dalla tessera che si fa una coscienza politica) 

bonghi, AF+DFA, #tuttotorna, bene

(stamattina è uscito lo streaming di ‘Reflektor’, il nuovo album degli Arcade Fire. l’internet già straborda di commenti, giustamente, perché l’internet è lì apposta. però con Cayce l’abbiamo ascoltato in pausa pranzo e, con una leggera sistemata, questa è la chat fatta in diretta durante l’ascolto da parte di due fan della band – che entrambi consideriamo essere fra le tre/quattro band della vita – quindi, qui giocano in casa. contiene armamentario da twit, hashtagz e insomma, play) 

  • Bonghi + falsetto di Winz Butler
  • LOL
  • Reflektor, la canzone, è una bomba, si sa.
  • mammamia, è un album ‘complesso’
  • massè, non dire parole ‘complesse’
  • l’ho sentito solo tre volte
  • svegliata prestino eh.
  • come al solito.
  • commentaria del primo ascolto LIVE dalle cassettine del pc?
  • daje, ce sto
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la decadenza sui ricordi

Chissà quante macchine passano davanti a quell’edificio, soprattutto al mattino presto, per portare i figli a scuola o correndo ad occupare sedie reclinabili.
Chissà in quante di quelle macchine che percorrono quella strada è seduta una persona che è stata dentro l’edificio, che ora giace esanime sul lato della via.
Chissà a quante di quelle persone scappa l’occhio, scatta un pensiero, esplode un ricordo.
In una giornata grigia, l’edificio grigio, lasciato alla deriva, come un’isola del passato, si confonde con l’ambiente. Un camaleonte di cemento, si mimetizza per non farsi trovare, qualche edera che si inerpica sui muri, qualche ciuffo d’erba che ha invaso i marciapiedi. Un vecchio signore decaduto, che non vuole farsi riconoscere, si nasconde. Di notte gli vien facile, se ci passi davanti trovi un muro nero, nessuna luce a illuminare un relitto.
Il nome sbiadito sull’insegna, l’ultimo tentativo di risollevarne le sorti, un guizzo fuori tempo massimo, mentre la grandeur delle discoteche grosse scompariva, le nuove generazioni impegnate in altri divertimenti, il divertimento dislocato presso altri luoghi.
foto

Quando il passare lungo quella via nelle serate di venerdì e sabato per un pubblico ‘maturo’ e alla domenica pomeriggio ‘per i più giovani’ era una unica lunga fila per parcheggiare, un buttare l’occhio sulla minigonna, un saluto volante da un finestrino, un casco da ancorare alla ruota del motorino con una catena robusta, il locale era un monolite brillante, invitante, le luci fuori e le vetrate che riflettevano allegria.
Dentro, le calze velate, le gonne a palloncino, le spalline esagerate, i giubbotti di montone, i gilet (cazzo, i gilet!), il gel nei capelli, i capelli lunghi, i paninari che erano ancora là, ma se ne stavano andando, le frange sapientemente arrotondate con il phon, gli ombretti perlescenti, la lacca nella borsetta, montagne di fard, la marlboro sempre in tasca, la permanente bisex, le giacche scelte con cura, le scarpe da grandi.
Lampadari esagerati e sfavillanti, velluti imponenti ma che davano un tono. Le scale un punto di osservazione, la mischia al bar una zona di perdizione.
La grammatica discotecara era già formata. Si faceva socialità e il passaggio di una telecamera era un evento, gli sguardi che la sfioravano, facevano finta di schermirsi, seppur ammiccando a chi avrebbe detto ‘sei al notiziario locale’.
La fila fuori non per mostrare che dentro c’è già confusione ma perché i riti delle tribù erano simili, quasi sincronizzati, tutti ci si trovava alla mezza, nell’atrio. Bagarinaggio di biglietti omaggio, richiesta di tagliandini ‘free drink’, piccole contrattazioni concluse con strizzate d’occhio o di spalle. I soprabiti da parcheggiare e poi dentro a buttare lo sguardo per vedere se la geografia era cambiata, ma non cambiava mai.
Vigevano regole ferree di proprietà territoriale. Qualche faccia nuova, sì, ma si poteva fare affidamento sulla presenza degli autoctoni nel bar a destra o nel privée di sopra, mentre a quelli che arrivavano da fuori provincia era riservato il bar dietro la consolle del dj, dove ammassavamo bicchieri di prosecco come piccole luci che brillavano del nostro stordimento serale.
La pista era una zona franca dove ci si esaltava ballando house music con battiti rassicuranti e tutti uguali, alternati a raffiche di successi pop con canzoni che avevano le stesse parole di amore o di voglia di amore che molti pensavano, ambivano, provavano. Nella danza si spiavano le mosse invitanti o ingenue delle ragazze, incrociando sguardi di rivali che non sapevano ballare ma occupavano il territorio. Se eri fortunato finivi su un divanetto, drink e abbracci.
Erano poche ore che a volte sembravano intense, a volte erano il ripetersi di riti necessari. Al termine, si andava, un bilancio presto fatto accompagnava l’ultima sigaretta nel parcheggio.

Chissà se l’hanno spolpato il locale. Se avvoltoi del ricordo si sono buttati dentro e hanno preso un pezzo di tappezzeria, un brandello delle pacchiane colonne da basso impero che circondavano il bar a piano terra. Se imprenditori speranzosi lo hanno smembrato per riconvertirlo in progetti abitativi, se l’impianto luci è stato tolto o se è rimasto lì dov’era, occhi stanchi a ricoprirsi della ruggine degli anni e della polvere dei ricordi.
Magari, dentro c’è un drago enorme, che dorme in attesa, come nello ‘Hobbit’.
Non aspetta niente, se ne sta lì fermo, a proteggere frammenti della nostra gioventù. Spicchi di mirror ball caduti a terra, stanchi di attendere che un dito sposti il selettore su ‘On’, pezzetti di vetro come paillettes ancora luccicanti, ognuno capace di portare alla memoria un’immagine che racconta una storia più grande, fotogrammi che se messi insieme, oplà, sarebbe come tornare vent’anni indietro, quando il sabato sera era il centro del mondo e la solita serata in discoteca il fulcro di una settimana.
Fin quando un cavaliere arriverà brandendo una spada lucente e li libererà per portarli da un’altra parte meno grigia, dove quei luccichii, matrice di come eravamo e di come siamo adesso, riprenderanno a brillare.

 

 

(cronache dalla piccionaia) ciao, vi siamo mancati?

1Dopo l’estate, dopo l’Europeo del basket, dopo tutto, rieccoci al palazzetto.
Ripartiamo concedendoci un bicchiere di vino rosso bene augurante pre partita.
La fila all’ingresso è conferma visiva del record di abbonamenti, realizzato sull’onda della bella stagione scorsa e degli acquisti mirati ad acquistare peso specifico, con aggiunta di brillante americano.
Il pubblico si lancia in previsioni posate.
Mi lancio anche io. Arriviamo quarti quest’anno.
Entriamo, i gradoni per la piccionaia lasciano sempre senza fiato, scopro con una punta di rammarico inattesa che il mio vicino di posto è cambiato, oggi c’è un sedicenne alto e timido che non spiccica una parola di fianco al, presumo, padre. Sotto di noi, immancabile, ‘ciao come stai?‘, l’urlatore con classica famiglia. 
L’esordio casaligno è contro i campioni in carica, quelli che non battiamo mai. Siena. Pronti? Alla grande. Via.
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la tendina parasolEEH?!?

Uscire di casa, come sempre in ritardo. Elenco rapido che si srotola in testa, il bzzz delle sinapsi che entrano in contatto attutito dal bel tempo.
Sole e chiavi prese. Temperatura eccellente, bollettino da pagare Enel preso.
Occhiali da sole e fermarsi al bar lungo la strada. Il solito, quello che ospita caffè ingollati con gli occhi cisposi, titoli di giornale sempre simili appoggiati sui tavolini, rassicuranti, la giornata è partita, lo svolgersi degli eventi interrotto da una breve conversazione col tizio incrociato al banco.
Uscire e tornare alla macchina, chiavi in mano, passo lesto, sempre in ritardo, mai rinunciare al caffè al bar.
Vedere un errore nella matrice, una cosa inattesa che scuote i sensi da subito, pur se non è ancora a fuoco.
Mettere a fuoco.

La macchina di fianco è bianca, un modello di qualche anno fa. Posizionato sul vetro posteriore un parasole.
Quattro ventosine ai lati tendono il telo di plastica che protegge la carnagione dei piccoli. Ce l’hanno tanti neo genitori, come se non averlo potesse ustionare il bambino, come se averlo fosse una targa supplementare. ‘Hey, mio figlio è in macchina’. Comunque, non c’è problema. Nero, sobrio, non è un problema. Colorato e disegnato, con la riproduzione degli eroi di un bimbo piccolo, che ne so, l’ape maia, barbapapà, altri personaggi dei cartoni animati che ora mi sfuggono, non è un problema.
Questo.

Ha lo sfondo rosa, un nome scritto in verticale, carattere vagamente gotico bianco, di fianco alla foto, a colori, del viso della bimba.
Sbarro gli occhi, poi vedo che anche sul vetro dall’altra parte c’è un parasole. Sarei arrivato alla mia macchina, ma proseguo, nell’incredulità, per indagare a fondo questo obbrobrio.
Sull’altro vetro posteriore, lato passeggero, il seguito tragico. Un parasole delle stesse dimensioni, sfondo classico rosa, nome sul lato destro della foto a colori del viso del bimbo, maschio, fratello, più piccolo, poverino.
Mi esplode un occhio, tremo, vorrei fare una foto ma non oso, si sa mai che il genitore sia un gorilla di cento chili con la manata agile o una madre col kalashnikov nella borsetta pitonata.
Torno alla mia macchina, reggendo materia oculare dall’occhio esploso e penso che il meteorite lo meriteremmo, uno piccolo, poi penso di esagerare. Mica tutti i genitori piazzano la faccia del figlio sulla tendina parasole della propria macchina.
Rileggo questa frase, il post è finito.

 

miliardissimo me

cm2Non c’è nulla di Cattivissimo, il film veleggia nella prevedibilità assoluta, ma grazie alla nuova agente che fa mossette divertenti, un pollo, un flashback potente, decine di minions che sorreggono la debole storia, ci si diverte per poi dimenticarsene dopo mezz’ora.
Il film sta incassando i triliardi, giusto così.
Il terzo sarà probabilmente inguardabile, ma spero di sbagliarmi.

 

 

 

che faccio signò, lascio? (pt.II)

(rubrica a cadenza random di consigli musicali non richiesti, praticamente cosa passa dalle mie parti con link a spotify, video e nuvole, la prima parte era qua

Smith Westerns – Soft Will: hanno il nome di una pistola o di un serial americano su uno sbirro spaccone e dal grilletto facile, son giovanissimi e snocciolano cosette pop rock da canticchiare in bicicletta anche se uno non va in bicicletta. ci sono arrivato mesi dopo l’uscita ma è uno dei dischi che ascolto più spesso.

Elvis Costello And The Roots – Wise Up Ghost: i Roots come sa chi li segue chez Fallon, sanno suonare tutto. qui si mettono insieme alla voce particolare di Costello, trovando un mix di sonorità a tratti spiazzante, spesso trascinante e sempre interessante.  

Mazzy Star – Seasons of Your Day: una band degli anni novanta, non si sono mai sciolti, lui con pizzicori di chitarra, lei con voce mielosa. dream tutto, slow core di classe. il disco perfetto per guardare le foglie cadere ma anche per limonare sereni.

Volcano Choir – Repave: non è che spiego chi sia Mr.Bon Iver, che qua si mette in mezzo ai suoi amichetti, fa il band leader e spara un album bellissimo, se devi ascoltarne uno di questi, ascolta questo. cioè:

CHVRCHES – The Bones Of What You Believe: non si butta niente, se sei attento ci senti dentro roba di vent’anni fa quando i sintetizzatori vincevano tutto, adesso questa mi sembra roba da giovanissimi, ma anche roba appiccicosa, dance pop imballata di synth, che funzionano incredibilmente bene. lei, una voce bellissima.

Janelle Monáe – The Electric Lady: iper trofico iper prodotto, non bissa il capolavoro dell’album di debutto però, c’è Prince che benedice tutto sto ben di dio non sempre a fuoco, ma con un talento enorme, il funk e tutto il revival della black music frullato da una voce seducente e scattosa.

Justin Timberlake – The 20/20 Experience: è uscita la seconda parte del moloch che punta a riportare justino sul podio del pop. operazione stra riuscita anche con questa seconda parte forse inferiore alla prima ma insomma, siam lì. poppone di produzione sofisticatissima e stratificata e una serie di canzoni che risollevano morale, muovono culi, fan venire voglia di comprare scarpe a punta lucide e fare due passetti di danza sul marciapiede. bounce.

London Grammar – If You Wait: come han scritto tutti quelli che se ne intendono, qui abbiamo le atmosfere ‘The XX’ con la voce simil Florenza. l’incastro funziona, per un pop da classifica d’alto livello. forse lo dimentichiamo fra tre mesi ma i primi ascolti sono da ‘Ohpperò‘.

The Field – Cupid’s Head : elettronica emozionale che non so bene cosa voglia dire e son due parole che messe di fianco fanno schifo o un brutto titolo dei subsonica. sono lunghe suite per grandissimi trip, ma tu premi play qui sotto e se non ti incanti, allora non fa per te, se ti incanti, pagami da bere.
https://soundcloud.com/kompakt/they-wont-see-me?in=kompakt/sets/the-field-cupids-head

UPDATE volante, che ieri sera subito dopo aver postato ho scoperto che è uscito:
Polvo – Siberia: band che affonda le chitarre nei ruggenti anni novanta, tornata in attività qualche anno fa con un disco (‘In Prism’) che avevo divorato. adesso se ne escono con un album nuovo pieno di chitarre stupende che ci vogliono sempre e che spazzano via dopo un solo ascolto decine di rock band attuali senza nerbo. subito bomba.

(poi in Italia c’è un sacco di gente brava a suonare, solo che lo sanno in pochi) 

Three Lakes – War Tales: un amico rilevante mi soffia in un orecchio questo album, dicendomi ‘il bon iver italiano‘. è un inno autunnalissimo alla malinconia, quella bella però. un paio di pezzi sono instant classic e ci sono tutti i suoni che mi piacciono tanto.

Julie’s Haircut – Ashram Equinox: qualcuno dirà che metto sto disco perchè sono amici di amici. mica vero. lo metto perchè l’ho ascoltato tre volte e migliora sempre, una specie di sinfonia psichedelica con dentro influenze di ogni genere. non per tutti, ma appagante. (streaming integrale)

Infine, è uscito il nuovo bellissimo disco dei Massimo Volume che non hanno bisogno di presentazioni, almeno non da me.

(un doveroso ringraziamento alla band di sentireascoltare‘ ottimo sito di cultura musicale con bella scrittura e molti spunti interessanti, mia bussola necessaria, nel mare di pubblicazioni di questi tempi)

di un concerto di inizio ottobre, applausi, capelli bianchi

I ‘Balmorhea‘ vengono da Austin, Texas, un posto assolato, che ospita ogni anno il bengodi americano della musica che possiamo, per fare prima, ancora definire ‘indie’ e dove proprio in questo weekend c’è un festival dove non suona nessuno.
Sono una di quelle band dove tutti suonano tutto (dicesi anche polistrumentisti, tranne il batterista che, per ovvi motivi di ‘stare sul pezzo‘, è molto difficile si sposti dal sediolo) e dove  un paio di loro hanno l’aria perenne di ‘ma cosa ci faccio qui?‘ e un paio di loro sono super fighi e si insinuano con ciuffi e mossette in quella porzione di sogni ancora adolescenziali del pubblico femminile.
Suonano musica strumentale, cinematica, cioè da colonna sonora per viaggi mentali o per vere pellicole. Ad esempio se un pezzo dei Balmorhea finisse nella colonna sonora di un film, tu vedi il film e dici ‘che bel brano, chissà chi lo suona, adesso lo scopro‘ per poi dimenticare di scoprirlo appena accesa la macchina per tornare a casa.
Sono una band che in una sera che è un preludio di un autunno piovoso, finisce per suonare in un piccolo teatro della provincia padana, davanti a centoventi persone che compongono la nicchia di ascolto per una band così. Questo me l’ha detto Giacomo, prode e barbuto organizzatore del concerto, uno di quei valorosi che si impegnano a portare avanti l’organizzazione di concerti simili che fanno solo bene alla terra , all’umore e alla qualità della vita. Che è poi il punto dove volevo arrivare dopo questo lungo preambolo.
Qualità della vita è, anche, uscire una sera, indipendentemente dall’età, dai chilometri, dalla stanchezza, mica sempre eh, ogni tanto, stare attento a non perdersi per le strade, arrivare nel posto, scoprire una non nota band emiliana con belle canzoni di matrice country e cantato sussurrato, ascoltare una a te nota band ed esserne molto contento che, cosa vuoi che ti dica, a me i Balmorhea danno un senso di pace.
Questa cosa magari l’ha pensata anche un signore che, a prima vista, sbirciando fra il pubblico, poteva sembrare nel posto sbagliato. Capello bianco, camicia e pantalone con la piega, signora che sembrava annoiata al fianco, sembrava più adatto a un concerto di musica classica, che poi in fondo i Balmorhea suonano anche con viola, violino e violoncello. Poteva esserci capitato per caso a vedere i Balmorhea, magari abita dall’altra parte della strada e ha pensato ‘andam a seinter chi ragass chè‘. Però, insomma, alla fine del bis, il signore si è alzato in piedi in solitaria, ma non per questo meno sentita, standing ovation, con un sorriso grande così che diceva ‘Bravi!‘ ai ragazzi sul palco e che gli colorava la faccia, facendolo sembrare molto ma molto più giovane dei suoi capelli bianchi e dei probabili acciacchi che avrà oggi, il giorno dopo, che ormai si era fatta una certa tarda ora.
Ecco, bravo signore, grazie, spero di rivederti sotto un altro palco.

bulloni in faccia

grvtyFin dai primi trailerini ‘Gravity‘ sembrava una cosa molto bella, con professionisti del gasamento che urlavano la loro gioia condividendo ovunque sul webz gli stessi trailerini.
Due star del cinema in tuta spaziale a zonzo nel nulla e dietro la terra e roba che esplode.
Quindi si sapeva del vagare nello spazio, ma un’ansia così non era attesa, quanto la percezione della disperazione accoppiata a una ricchezza visiva impressionante.
Il film è stupefacente. Cuaròn è un drago vero, controlla tutto in maniera chirurgica e sbalordendo ma senza dimenticare di appassionare lo spettatore. Chi mi legge sa che odio gli occhialini 3D sopra ai miei occhialoni. Per la prima volta non ho mai pensato di toccarli, spostarli, toglierli un momento per dare sollievo al nasello, preferendo strapparmi gli occhi (disintegrati, il 3D resta il male) al termine della visione che pensare di perdere anche solo un frammento, scusate, frame, del film.
Perfino la Sandra torna bonissima e brava come non ci si aspettava.
Volendo trovare un difettuccio, marginale ma è per scriverne un po’, c’è un momento in cui il film (andatelo a vedere su, non è che abbiate bisogno di me che vi dico ‘Figata!’, sparite da questo post che non spoilera il finale, ci mancherebbe, ma dice la sua su una cosa che, dopo, ripensando a prima, a come mi son sentito durante la visione, non è assolutamente importante, siete andati via? bene) decide di sparare troppi ‘american values‘ narrativi, che poi ci sta, certo, ma non ce n’era bisogno.
Resta un film bellissimo e assolutamente da vedere, mi raccomando.