Calpestiamo un tappeto di coriandoli neri e quadrati, mentre scimpanzè travestiti da bambini camminano nell’atrio, i profili resi indefiniti da una coltre di soffice nebbia, illuminata da candelabri stanchi, opachi.
Saliamo le scale in una cascata di luce fumosa. Ci avvolgiamo in una patina sulfurea e sognante, un velo che ricopre il teatro come una coperta impalpabile, trasportandolo in una dimensione diversa, asportandolo dalla città, ricreandolo fuori dal tempo. Uomini con maschere di tigri e zebre versano coriandoli al nostro passaggio, benvenuti. Immerso nella nebbia a capo chino, un uomo suona la fisarmonica con lentezza, il mantice dello strumento è il suo respiro profondo, la solitudine lo avvolge, fascinosa, pericolosa.
Dlin Dlin. Briciole di rintocchi di campanelli guidano i nostri passi attraverso le stanze del ridotto. Divani lascivi, candelabri spettrali, due figure di gorilla si passano con movimenti rallentati una palla invisibile ai lati di un grande tavolo scuro.
Dlin Dlin. Un pavimento composto da steli di fiori recisi, altri animali mascherati in questo che pare uno zoo dell’aldilà cercano fra i petali essenze perdute.
Dlin Dlin. Una schiera di sedie, persone del pubblico e maschere di animali sedute in attesa. Aspettano, come giurati di un tribunale. Davanti a loro una sedia solitaria, illuminata da una luce fioca e dai riverberi del soffitto decorato con arabeschi dorati. Dal buio emerge una donna avvolta in un sudario nero. Si siede, intona un pianto per voce baritonale, commovente, quasi a chiedere ammenda, scusandosi per colpe che non ha commesso.
Dlin Dlin. Un’altra donna ammantata di nero, attraversa la stanza guidata da un bambino volpe, sembra una guida cieca oppure un’anima alla ricerca di un posto, eppure siamo noi a seguirne i passi attratti dal suo passaggio, incuriositi di vedere un altro paesaggio di questo labirinto. Scendiamo le scale, tutto diventa buio per un momento poi si spalanca una porta ne esce come se fosse sempre stata lì, una banda. Fiati, grancassa, tamburi.
Fragorosa, intona una marcia, fende la luce nebbiosa, l’atrio si riempie di energia dirompente che spezza il silenzio avvolgente. E’ una parata decisa e drammatica come fosse l’ultima marcia, il suono rimbomba potente, prende energia, per poi disperdersi affievolendosi nei meandri del teatro, sale altre scale, inghiottito da presenze oscure, figure sedute agli angoli, immerse nell’immobilità di una lampada a mettere inquietudine in noi viandanti.
Dlin Dlin. Ci addentriamo nei corridoi, ci infiliamo nei palchi, ci ipnotizziamo davanti allo spettacolo della platea ricoperta da teli a formare una specie di lago plasticoso, un acquitrino nebuloso immerso in un tempo indefinito.
Il teatro appare decadente e fascinoso, l’enorme lampadario a pelo d’acqua, la luce che cambia colore come avesse vita propria in un microcosmo che appartiene e a un’altra dimensione, profonda e lontana, vicina ed inafferrabile.
Suggestioni pure ci attraversano come fantasmi, mentre dal palco che sembra lontanissimo il suono di un flauto solitario interrompe il silenzio, dialoga con un corno invisibile, si scambiano lamenti, sembrano amanti separati dal destino. Sopra il flauto sedie penzolanti, appese per giudizi sommari, mentre un coro nascosto nell’ombra del palco reale interviene, intona una canzone, canta din don dan.
Il tempo dei saluti è finito, i suonatori definitivamente si separano, un boato di luce bianca irrompe, il giudizio è tratto, resta solo polvere di memoria.
Una voce lontana, da altre stanze forse, è tutto quello che resta finchè un applauso solitario, rimbomba nel nuovo buio.
E poi riparte, si riparte, la narrazione può cambiare, altre figure nere ci indicano la fine del percorso, una di queste attende a una scrivania, come se aspettasse in eterno le parole giuste per porre fine a una storia.
Non accadrà, l’attesa è perenne, la narrazione cambia di continuo, si dipana sempre uguale eppure sempre diversa al cambiare degli occhi che guardano. Dlin Dlin. Senti i campanelli. Ricominci il viaggio?
Nous n’aimons pas les visite guidées.
(‘Tant que nous sommes vivants’.
Opera itinerante. Installazione e teatro musicale.
Una cosa intellettualoide, come sprezzantemente l’ho definita prima di entrare. Una cosa bellissima che mi ha profondamente colpito, come non mi sarei aspettato. Quanto sopra è riassunto parziale di quanto ho visto o immaginato di vedere.
Le frasi in francese sono tratte dal libretto che accompagnava l’ingresso a teatro. Le foto non rendono giustizia, ma danno, credo, un’idea.)