Cartonati sugli spalti, anche no

Il calcio è poca cosa rispetto all’enormità di quanto sta succedendo, a me manca e mancherà molto andare allo stadio, anche solo pensare di poterci andare, però tutto questo parlare di riaperture, campionati decisi in assemblee, di probabili ricorsi, è inaccettabile.
In Corea del Sud hanno ripreso la settimana scorsa. Vietato sputare per terra, vietato esultare troppo per un gol. E un calciatore se non sputa per terra, che calciatore è, un calciatore che non può festeggiare a dovere causa divieto di abbraccio, che calciatore è, che immagine può dare – con che spirito scenderà in campo, poi – ma soprattutto, senza la gente sugli spalti, che calcio è?
In Germania, ripartono oggi, con tante piccole regole e il rischio di doversi fermare ancora per nuove positività. I dirigenti dicono che bisogna ripartire per il business eppure il calcio è un business piuttosto particolare, senza tifosi sugli spalti non ha molto senso, tifosi che comprano biglietti e birre e ricambiano con la passione che dovrebbe essere il motore di tutto. Chiaramente ci sono tante persone che lavorano nel calcio, per queste persone e per i calciatori che non hanno contratti da sei cifre in su, andrebbero previsti aiuti economici, ci mancherebbe e proprio per loro dovrà ripartire l’industria calcio. Solo, non adesso.
In Italia sono settimane che si parla fin troppo, di ripartire, fra dubbi, ripensamenti e manfrine. Media ovviamente interessati dicono che il calcio deve ripartire per portare allegria e quella distrazione che serve durante questo periodo di convivenza forzata con la pandemia. Allegria.
Allegria in stadi deserti con il rischio di assembramenti al di fuori degli impianti? In bar semi vuoti dove vedere le partite a una discutibile (e irrealizzabile) distanza di sicurezza? Allegria in cartoni piazzati sui seggiolini, con le facce degli abbonati per una falsa sensazione di normalità? Oppure replicata in genuini cori pre registrati da sparare negli altoparlanti? Allegria in serate in casa a commentare su whatsapp o sui social, partite probabilmente con pochi tackle, la voce del telecronista a coprire il silenzio di un irreale stadio vuoto? Che amarezza.
Si leggono pochi pareri dei calciatori (che me li immagino a saltare di testa senza il timore di una gocciolina che vola insieme all’avversario) e ancora meno pareri di tifosi, eppure a Roma e Bergamo le curve hanno fatto sapere con chiarezza il loro pensiero. Non ripartite. Anche per una forma di rispetto.
Nel mio piccolo, parlandone brevemente con altri amici appassionati, ho notato che questa eventuale ripartenza interessa a pochissimi, perfino gli amanti del calcio in tv sono solo preoccupati di vedere uno spettacolo triste, tanti over senza pathos nel gioco.
Nel mio piccolo poi, dal mio posto allo stadio in abbonamento da anni, mai, riscrivo, mai, vorrei essere a casa una sera e scoprire che la Reggiana è stata promossa in serie B a tavolino. Spegnerei il telefono, direi ‘ah, ok’ e la cosa si chiuderebbe lì. Che mestizia.
I campionati si fanno e si vincono, o si perdono, sul campo. Se arriva una cosa enorme, imprevista, si annulla tutto e va bene così. L’hanno fatto in altri sport, spostato un’Olimpiade, insomma. Capisco i tifosi della mia squadra che sui social si battono per il ‘diritto sportivo’ (abbastanza contestabile se i campionati si vincono sul campo) e capisco bene il Presidente e la società che devono fare il loro lavoro, tutelare squadra e investimenti, ma no. La promozione la vorrei guadagnare e vedere sul campo, magari in trasferta, magari dopo la fine della partita, occupando autogrill a imbruttirsi di gioia oppure vedere la promozione tanto sognata nel nostro stadio e dopo fare i cortei come quando eravamo ragazzini, andare in centro e fermarsi in tutti i locali a cantare e gioire con la città. Non a tavolino, non con un comunicato, non adesso che anche la nostra provincia è stata molto colpita dal virus e non così, non decisa in assemblee dove la voce, sì, vuol detta questa parola, del popolo, non può esprimersi.
Quindi. Fermate tutto. Non ripartite adesso, senza gioia, dopo mesi di amarezze. Aspettate settembre quando i protocolli di sicurezza saranno migliori, quando se ne saprà di più di questo virus, quando sperabilmente ci saranno tamponi per tutti, evitando quei commenti sui privilegi dei calciatori oppure ci sarà un farmaco che sarà distribuito prima alle società di calcio alimentando nuove polemiche.
Siate saggi. Siate svegli e svelti, lassù ai ‘piani alti’. È anche una opportunità questa, per essere migliori e vicini alla gente che, secondo me, non capirebbe. Siate vicini a chi vi segue e il famoso “Pil del calcio” aspetterà come aspetteremo tutti tempi migliori, impegnandoci tutti in tempi difficili. Siate creativi. Fermarsi adesso per pensare al futuro, pochi mesi in cui pensare a soluzioni nuove, per esempio, abbonamenti da sostenitore anche a porte chiuse, mi sa lo faremmo, abbinamenti dedicati per singole squadre, ovviamente a costo ridotto, possibilità di avere un esiguo pubblico sugli spalti, a distanza e in sicurezza, anche rifarli, questi benedetti stadi, eccetera.
Dai. Una sola assemblea. Tutto finito, per ora. Lo slogan è facile, è già scritto in tutte le lingue, ripetuto in tutti i paesi. Ripartiremo insieme.

Chiusure

Sorrideva spesso quando sentiva il rumore del portone dell’ufficio chiudersi. Un doppio suono. Boom, e poi clack. Il legno pesante della porta che sbatteva sullo stipite e uno scatto come se ci fosse una chiusura incorporata. Forse c’era ma non importava, importava il suono. Boom, e poi clack.
Le sembrava sempre una canzone nota. Quella che ‘We will rock you” e forse un’altra, meno famosa, di cui non ricordava il titolo.
A volte la canticchiava, canticchiava a ritmo, anzi ritmava. Ripeteva il suono in testa, boom e poi clack, a volte scuotendo i capelli, spesso legati in una coda morbida.
Quella sera però accolse quel suono con irritazione. E non era nemmeno sera, le sembrava ma erano solo le sei del pomeriggio. Quasi due mesi nel suo appartamento, stretto fra profili di altri caseggiati e ringhiere interne, le avevano fatto perdere il rapporto fra luminosità e lo scorrere delle ore del giorno. Anche perché metà di quel tempo lo aveva passato in penombra. Coperta, nascosta.

Adesso era il primo lunedì dopo la fine del lockdown. Erano passati quasi due mesi, forse serviva una parola nuova che sostituisse quarantena, lei ci aveva pensato, non l’aveva trovata, così come non trovava una definizione esatta per quel periodo. Erano le sei del pomeriggio e nel primo giorno di riapertura dell’ufficio lei era già fuori. Boom, e poi clack.
Il titolare l’aveva convocata perché “certe cose preferisco dirle di persona”. Le aveva confermato che il suo lavoro sarebbe proseguito da casa per almeno un altro mese, le aveva fatto firmare le carte della privacy e l’aveva poi congedata con una frase.
“Mi aspetto collaborazione e disponibilità, dobbiamo immaginare un nuovo futuro, tieniti pronta”.
Lei non era stata pronta. Forse meglio così, magari sarebbe crollata. La frase era un’anticipazione di licenziamento o una di quelle frasi motivazionali che piacevano al suo capo?
Scelse la seconda opzione, era più comoda. Si sarebbe informata con la collega, lei sapeva sempre tutto.

Indossò la mascherina, con precisione, guardò nella borsa dove c’erano novità. Un piccolo kit di prevenzione, un pacchettino di salviette alcoliche, boccettina di gel lavamani. Decise di andare a piedi, di non prendere i mezzi, di guardare gli alberi di un verde sorprendente e ascoltare gli uccellini che ancora, per poco pensava, dominavano i suoni della città. Decise di rischiare un eventuale controllo. Avrebbe camminato per tornare a casa, avrebbe cercato le parole per chiudere l’esilio forzato.
Trovarle, era parte del suo lavoro, il suo compito ora che era uscita. Non contava come uscite le mezz’ore in cui con il viso sciolto dalla tristezza, si imponeva di andare all’edicola all’angolo per prendere un giornale che avrebbe fatto massa nel sacchetto dell’indifferenziata. Non calcolava i quarti d’ora, sempre a ridosso dell’orario di chiusura, in cui andava nelle due botteghe vicino casa per prendere qualcosa da mangiare, sempre attenta a guardare in basso per non vedere la sua paura riflessa negli occhi sopra la mascherina degli altri.
Ecco, le protezioni. Quella era una parola che apprezzava, come mancanza. Lei non aveva avuto abbastanza protezioni per ripararsi da una mancanza.

Anche quel sabato, prima che chiudesse tutto, nonostante la parola contagio fosse già tristemente sulle labbra di tutti, aveva fatto progetti. Vedere quella mostra, un giro al parco che le ispirava la primavera. Aveva già immaginato una foto da mettere sul suo profilo, i rami degli alberi come fili immersi nel tramonto arancione che da qualche giorno firmava le giornate, finiva sugli schermi, tante copie con leggere differenze di una piccola emozione cromatica. Invece era rimasta in casa tutto il giorno, spossata, ligia alle restrizioni, aveva spento il telefono e si era nascosta sotto al piumone. Dopo un sonno frammentato e nervoso, aveva riacceso e lo schermo si era riempito di notifiche. Pagine Facebook che debordavano di informazioni, previsioni, commenti. Si salvava Instagram dove la processione degli account che seguiva per lavoro e per piacere la consolò un poco. Chat whatsapp cariche di notizie, meme, preoccupazioni, battutine, foto, previsioni ma anche “come stai”, “ho saputo”, “tutto bene”. Non rispose, non commentò.
Di lui nessuna traccia, nessun messaggio: fu in quel momento che ne ebbe consapevolezza. Non si preoccupò dei genitori lontani, dei conoscenti che avevano provato a fuggire da quelle due parole.
Zona-rossa.
Si preoccupò di capire come avrebbe fatto a sopravvivere.
Due giorni prima si erano sentiti. Lei già organizzata per lavorare da casa, efficiente, una piantina di fianco al pc, una playlist nuova di zecca per concentrarsi, le cuffie acquistate da poco. Lui ancora al lavoro, allo sportello in banca, preoccupato dei contatti, dell’attesa per istruzioni della direzione. E poi, la botta. Non che prima andasse benissimo, lo sapeva, ma sentirlo fu come un’esplosione. Boom, senza clack.
Ho conosciuto un’altra. Non sapevo come dirtelo. Non so quando ci potremo vedere.
E poi una conversazione fatta di domande sciocche e risposte titubanti finché un lampo di consapevolezza generò un’offesa sibilante e poi silenzio, un pianto sommesso, un velo di stanchezza. Era successo solo due giorni prima, già le sembrava un’enormità di tempo incalcolabile con i vecchi strumenti.

Dopo, di quei giorni ricordava il lavoro, le conversazioni, ma allo stesso tempo non riusciva a mettere i ricordi in fila: avevano assunto la consistenza di una marmellata spalmata sul suo corpo inerte.
Passò davanti a un cartellone che riportava l’annuncio di uno spettacolo teatrale in programma per il 25 marzo che era ancora lì, leggermente sbiadito, una specie di monumento a un tempo che si era fermato, due mesi che sembravano anni e lei non aveva idea di cosa avesse fatto quel giorno, di come stava, tutto mischiato in un bolo dove l’amarezza si sovrapponeva alla rabbia per le ore sprecate in pensieri inutili, il lavoro diviso tra mail e chat dove nascondersi per non mostrare gli occhi gonfi e serate a guardare film per occupare la testa, storie di cui dimenticava la trama in fretta per poi scivolare in un sonno teso mentre fuori il mondo era costretto a cambiare nell’apparente immobilità.
Ci pensò su mentre si accorgeva di avere sbagliato strada, non aveva svoltato a destra, avrebbe recuperato dopo. Guardava i balconi dove ancora c’era gente che fumava, che telefonava, come se non potessero abbandonare le loro postazioni in cui avevano resistito per settimane. Una macchina suonò il clacson, pensò di mettersi le cuffie ma decise che avrebbe ascoltato i rumori della città che riapriva, che si stirava come un grande corpaccione, la città che l’aveva accolta con le sue promesse e nel giro di due mesi che sembravano anni l’aveva lasciata lì, tramortita a guardarsi intorno, cercando una cronologia.

I primi giorni, non lo aveva detto a nessuno. Era troppo difficile ammettere l’errore, affrontare i commenti. Telefonava ai genitori a cui risparmiava la preoccupazione, li sapeva al sicuro nella casa in campagna sperando solo non avessero bisogno di un ospedale, di un medico. Ai colleghi niente, ci mancherebbe.
Poi un giorno lo disse alla sua vicina. Una donnina piccola con le braccia magrissime e le sopracciglia folte che le aveva sempre fatto un po’ paura. Quel giorno le prestò un po’ di caffè, come si faceva una volta.
Avevano cominciato a parlare e la signora col monociglio si era rivelata simpatica. Le aveva raccontato: “Il fidanzato dopo tre anni e mezzo mi ha lasciata per un’altra, due giorni prima della quarantena”.
La frase fece come un tonfo negli occhi della signora che si prese i suoi bei secondi per esprimere poi il suo disappunto con colorite espressioni nei confronti del genere maschile e con un paio di torte alla ricotta nei giorni successivi.
Da lì quasi tutti i giorni cercava la signora, un parafulmine con le sue occhiate preoccupate, le lamentele sulle mancanze del marito e le rassicurazioni su come fosse fortunata a vivere da sola, di non sposarsi mai che gli uomini sono tutti uguali e tutti inutili. La signora le parlava e non la giudicava mai, questa era una consolazione.

Decise di non dirigersi in centro, anche se all’improvviso le era venuta la curiosità di vedere se ci fossero ancora i piccioni senza turisti a cui camminare tra i piedi oppure di rivedere un paio di monumenti che aveva visto nelle lunghe notti ripresi da brillanti fotografi, immagini potenti che fissavano quello strano periodo di cui lei aveva informazioni basilari. Stare in casa, lavorare al meglio, mangiare e non chiamarlo mai.
Ricordava che aveva imparato nuove parole. In italiano. Asintomatico. E in inglese. Droplet.
Lei stava attenta alle parole. Facevano parte del suo lavoro ma le piacevano proprio, ogni tanto ne scopriva una nuova e se la rigirava sulla lingua come per testarla assaggiandola. Il suo ormai ex glielo rimproverava sempre di essere troppo attenta alle parole. Forse avrebbe dovuto essere più attenta agli indizi, chissà. Adesso lei si rimproverava di non trovare una parola giusta per definirlo.
Ex era utile solo per tenere in piedi un’immagine che si allontanava sempre più con il passare della quarantena mentre una città intera era ferma, spaventata, immobile, ansiosa poi speranzosa, fatalista e sempre piena di giga che scrivevano, postavano, chattavano, leggevano.
Ex le sembrava una parola pigra, però abbastanza neutra per non lasciare traccia, abbastanza secca per recidere, eppure vuota, insufficiente, breve. Eppure era l’unica che usava. Al resto provvedevano le offese per suo conto della signora del balcone, parole non eleganti e lei aveva deciso di mantenere, seppure a fatica, un certo contegno, come una distanza.

Davanti a un palazzo con un bar ancora chiuso si fermò, in strada un taxi bianco girava silenzioso come un cacciatore in preda di clienti che non esistevano. Ricordava con esattezza che in quel bar, seduta da sola a guardare il traffico dentro un dehor affacciato sulla strada, aveva sentito che la città l’aveva accolta. Immaginò di vedere proiettato sulla facciata del palazzo il trailer della sua vita.
Il suono della mail con la conferma che irrompeva nella sua stanza a chilometri da lì, il trasferimento frettoloso, l’affannosa ricerca di un appartamento, la scoperta di una vita che era difficile e intensa come non era riuscita ad immaginare, il primo bacio a notte fonda davanti a una statua imponente e seria, la prima rottura, la Gianna, la sua prima e forse unica amica, con quel nome antico, lei che la scortava nei weekend, le faceva conoscere posti e persone, incluso lui che aveva scosso il suo mondo, prima così presente, poi palesemente inadatto, infine sfuggente. E tre anni.
La città forse non la accettava più?

Tre anni, e adesso. Con Gianna si era poi confidata, aveva accettato la sua comprensione, addirittura le sue scuse per averglielo presentato, le aveva raccontato le sue paure, prima con cautela poi avevano trovato il modo, il terreno comune per cementare il loro rapporto.
Aveva anche digerito l’informazione, l’amica glielo aveva raccontato piena di imbarazzo, che la persona che l’aveva sostituita era una collega dell’ex e che si vedevano tutti i giorni.
Avevano fatto progetti, si sarebbero viste nel fine settimana, un modo lo avrebbero trovato. La Gianna glielo aveva imposto, lei aveva sorriso e assaporato una cosa simile alla leggerezza. Quasi non si era accorta di essere arrivata nel suo parco preferito, di essersi seduta su una panchina. Pensò che nessuno le avrebbe restituito quella primavera ormai perduta. Una signora a spasso con un cane le rivolse uno sguardo, lei si alzò e proseguì.

Ora era sera, passò davanti al muro provvisorio che nascondeva un cantiere aperto da mesi vicino al suo palazzo. Vide un murales nero sullo sfondo grigio, si fermò, si allontanò di un passo. Venne colpita da un faro sopra a una gru che illuminava il cantiere, si chiese se fosse a scopo precauzionale oppure se stessero ancora lavorando a quell’ora per recuperare il tempo perduto per decreto.
I contorni del murales erano netti e definiti, con un uomo sulla destra che teneva in braccio un bambino che portava un berretto, alla sinistra una donna con una borsa, i capelli coperti da uno hijab, che teneva per mano una bambina con un ciuffo di capelli mosso da un vento immaginario. Tutti erano raffigurati di spalle, la coppia di maschi ferma a guardare oltre quella luce accecante, le femmine che avanzavano di un passo verso il futuro.
Rimase a contemplare il murales a lungo, pensò di scattare una foto ma sapeva che non sarebbe servito, avrebbe ricordato quel momento.
Un merlo fischiò, poi percepì un borbottare, una coppia le passò davanti, anche loro si tenevano per mano guardando per terra da sopra le loro mascherine, poi una macchina, un ragazzo che correva.
La città tornava ad impossessarsi dei suoi spazi mentre lei si chiedeva come sarebbe stato quel palazzo. Pieno di uffici o pieno di famiglie? Chissà come sarebbe cambiata la città, dopo la quarantena. Avrebbe immaginato insieme a lei un nuovo futuro? Erano domande nuove per lei, fresche.
Un colpo di vento improvviso, mentre frugava nella borsa in cerca delle chiavi. Aprì il portone e lo seppe.
La città l’avrebbe accolta nuovamente. Il portone si chiuse alle sue spalle.
Boom, clack. E sorrise.

il mio isolamento, declinato in film (parte seconda)

La prima parte di questo resoconto dal mio divano si era chiusa a Pasqua.
Che giorno era Pasqua? Mah, un giorno, a caso, di questi giorni un po’ tutti uguali che ho passato fra tanta informazione, qualche telefonata (è stato bello riscoprire le telefonate lunghe, a raccontarsi poche cose, a mancarsi) un pizzico di scrittura e molti film, circa cinquanta film per una quarantena.
Dopo Pasqua (era il 12 Aprile, sembra siano passati tre mesi) si inizia ad avvertire nell’aria dominata dal cinguettare degli uccellini un senso di ribellione verso le misure restrittive. C’è voglia di uscire. Incappo per caso nell’intervista di un primario di pneumologia che dice ‘Calma regaz’ e mi chiudo in un sarcofago aspettando che venga a ripescarmi un vecchio amico (‘Indiana Jones e l’ultima crociata‘ forse il migliore della serie, sicuramente un film divertentissimo).
Si inizia a parlare di tracciamento. Si innalzano le bandiere dei liberisti a comando, in marcia contro la privacy lesa, anche se il dibattito è giusto e la visione di ‘Minority report‘ ne è ovvia conseguenza. E se sapessimo chi si infetterà, lo metteremmo in quarantena preventiva?
Sempre caldo è il tema del confronto con gli altri paesi. Si passa in scioltezza a lodare la Germania, tranne quando siede al consiglio europeo, all’avanguardismo sociale svedese, alla lungimiranza della Nuova Zelanda seppure questa sia in altro emisfero ma si prende tutto. Cosa fanno gli altri è una litania, nella confusione fra numeri e giorni e curve e plateau e riaperture, scelgo un film degli altri, per esempio, i francesi. Bé, fanno grandi piccoli colossal, noi li sappiamo fare? (‘The wolf call‘, sottomarino e allerta nucleare, antichi terrori ma film di bella tensione e solidità).

Scattano dibattiti in libertà. Qualcuno ha scritto che il Covid agisce come una livella sociale, tutti uguali di fronte alla malattia, eppure la visione di ‘Barry Lyndon‘ (stupendo) conferma l’ovvietà di come sia meglio diventare ricchi e vivere in un castello piuttosto che stretti in una tenda. Oppure c’è la questione se si debba privilegiare l’aspetto sanitario o quello economico nella scelta delle date di parziale riapertura e mentre nei laboratori si va a caccia di risposte, le teorie si moltiplicano, come in ‘Zodiac‘ classico di caccia all’uomo e teorie, sperando che il finale sia diverso, l’assassino dovrà essere catturato.
A proposito di potenti, uno ricco e potente ha detto che se ti inietti il disinfettante dopo sei a posto e anziché sminuire questa sciocchezzuola, bisognerebbe ricordarsela perché insomma, mica vero che tutti sono uguali e che uno vale uno, vero invece che un ignorante misogino può diventare capo dello stato e a me scatta il momento de ‘L’odio‘ (un film invecchiato un po’ male eppure sempre potente) ma lo scaccio subito andando a trovare un vecchio amico che mi ricorda che i presidenti degli US non sempre sono stati all’altezza (‘1997: fuga da NY‘).

Che poi in questo 2020 avevo deciso due cose: tornare in piscina con costanza da inizio marzo – certo, credo abbiano chiuso proprio quella settimana le piscine – e limonare il più possibile e stendiamo un velo pietoso. Un giorno però mi sono accorto che mi mancavano le donne, niente di particolare, anzi, proprio solo vederle in giro, guardare una scarpa, un vestito, un movimento con la mano sui capelli. Così mi butto su ‘Bombshell‘ che a parte le bellezze, è un buon (e nuovo di zecca!) film.
Qualche sera è rimasta buia nonostante le tante stelle in cielo e una luna brillante che è stato un vero peccato sprecare. Per rimediare  ho ripescato un paio di gioielli Pixar trovandomi a strofinarmi gli occhi con il carico di romance di ‘Up‘ e la madeleine di ‘Ratatouille‘.
Sono mancate anche le conversazioni sugli amorazzi, le storie, gli appuntamenti. Leggo che perfino Tinder sta fallendo rapidamente e per consolarsi resta un film romantico, letterario ma leggero e bello pastelloso (‘Emma.‘ pure questo un titolo nuovo) oppure la favola musicarella di ‘Begin again‘, un titolo che è tutto un programma.

Fra le tante mancanze, il calcio, andare allo stadio. Dicono che vogliono ripartire ma penso sia un errore perché senza pubblico non c’è passione. Prendo una panacea dall’assenza di sport, ‘The Way Back – Tornare a vincere’ è un drama nuovo di zecca con Sad Ben Affleck pieno di birra che trova una via di riscatto sedendosi sulla panchina di una squadra di perdenti del liceo. Classico film di redenzione o quasi che scorre su binari già visti però a me piace il basket e quindi me lo son gustato.

E insomma, con la cultura non si mangia (infatti viene poco citata nei documenti istituzionali, mentre mi intristisco cancellando i vari appuntamenti già segnati in agenda a teatro e non, ma sorvoliamo) e con la scienza? Ho visto l’ultimo capitolo di  ‘Smetto quando voglio‘ dove nella scena finale della trilogia un paio di studenti si chiedono a cosa serve la laurea che stanno prendendo e questa dovrebbe essere una delle domande importanti per questo paese che pensa troppo ai vescovi e poco ai laureati. E questa è una botta di facile populismo? Mi sa che uscirò da questi giorni con meno risposte e più domande e forse non è un male.

Infine, eccola annunciata, polemizzata, finalmente arrivata. La Fase Due.
Una mia statistica a caso dopo un giro sui social mi dice che il 70% delle persone che dicono la loro, pensi che la fase due sia una fase 1.2 e qua han tutti ragione e tutti torto simultaneamente, si chiama democrazia e pluralismo mi pare, mi stanco presto del dibattito che diventa immediatamente troppo urlato e vado con Thor a menare gente in ‘Tyler Rake‘.
Eleggo come congiunto Baby Yoda (‘The Mandalorian‘ è un trionfo di passatismo per amanti delle guerre stellari, promosso) e dopo c’è giusto il tempo di guardare i capitoli disponibili dell’ultima danza di Jordan & Co. (favoloso) e la storia dei miei amici di una vita, i Beastie Boys (cuori) ed eccoci.
Domani è il 4 Maggio, scatta la ‘fase due’ dove saremo tutti prudenti e rispetteremo le distanze. Non so se sono pronto oppure se ho la sindrome di Stoccolma acquisita. So che andrò a lavorare, all’ingresso mi misureranno la febbre e mi si appanneranno gli occhiali causa mascherina. Poi, verso sera andrò al parco vicino casa, dovrebbe essere aperto, infilerò le cuffie, avrò la mascherina in tasca che non si sa mai, sceglierò una playlist, farò un gran sospirone e farò attività motoria, come si dice adesso, finché le gambe mi faranno male.

(“When this is all over, what should change? Everything”)

Ps.: per sapere dove puoi guardare i film sopra citati o quelli che ti piacciono, questo sito ti sarà utile

 

 

il mio isolamento, declinato in film

I primi giorni dopo essere rimasto a casa dall’ufficio ho letto qualche libro,  invidiando chi lavora da casa e leggendo anche molti articoli sul virus. A volte ho pensato di scrivere una mia inutile opinione, poi ho sempre evitato, contribuendo a una salutare economia della parola che già ci sono troppe voci, spesso stridule, che si sono levate in questi giorni in cui sarebbe meglio leggere pochi, saggi o competenti, ed evitare risse sui social.
Poi una sera, non ricordo quale, i giorni sembrano tutti piuttosto uguali, hanno la forma del silenzio e di speranze, ho visto che ero stato on line per una quantità di tempo, che non rivelerò, veramente eccessiva e quindi ho deciso di prescrivermi una dieta particolare. Due film al giorno, storie, la cura per tanti mali, per evitare le preoccupazioni come si schiva un fendente di spada samurai in ‘Kill Bill‘ (un giorno farò la lista dei film di Tarantino più fighi, non oggi).
Ho continuato a informarmi, come tutti, prima vedendo che i numeri non diminuivano, in quell’appuntamento nazionale delle diciotto precise e poi leggendo che i numeri non sono giusti per difetto e allora mi son chiuso in stanze buie con gente mattissima con  pistole nelle mani (‘Guns Akimbo‘) o che corre dietro a bufali indiani (‘Jallikattu‘, un film incredibile) e dopo non è che l’ansia passava perché a scegliere non son sempre bravo.
E allora magari ci stava un riposino, da cui mi svegliavo non con un kick durante una ‘Inception‘ ma più spesso con un senso di straniamento come fossi bloccato in una cella cinque metri per cinque e non sapessi il motivo, come in ‘Old Boy‘ ma senza voglia di impugnare un martello per vendicarmi, anche perché il virus con un martello non si sconfigge, si sconfigge con la scienza, come provano a fare per salvare il pianeta in ‘Interstellar‘ film molto consigliabile in questi giorni perché lascia un sentimento che servirà alla riapertura molto più di tanti consigli di economisti da tastiera.
In silenzio, mi son fatto anche io varie domande, su questi giorni e sul futuro ma poi devo avere esagerato e mi son chiesto insieme a Kubrick dove andiamo, da dove veniamo, riguardando dopo secoli ‘2001 odissea nello spazio‘. Poi mi son fermato all’alt dei poliziotti annoiati poi esaltati di ‘Hot Fuzz‘ (che è sempre un mezzo capolavoro), non sono andato in visita nelle lande di Mordor anche se la tentazione è stata potente, però visto che mi mancavano le chiacchiere da bar le ho sostituite con personaggi chiacchieroni come i vari Mr. con i nomi colorati di ‘Le iene‘ e poi con ‘Quei bravi ragazzi‘ insieme alle mogli cotonate ed ancora nei locali bui e fumosi con i primi amici di Scorsese in mezzo alle ‘Mean Streets‘ di Little Italy.
A proposito di NYC, a inizio febbraio avevo fatto un pensierino di tornarci dopo tanti anni, uno dei tanti progetti che tutti abbiamo per il momento messo in un cassetto per questo 2020 – che era un bel numero a vederlo da gennaio –  e forse per compensare son rimasto in città a vederne la sua nascita dai Five Points delle ‘Gangs of New York‘ e poi ancora lungo le sporche vie anni settanta dove ‘Serpico‘ provava a combattere la corruzione. E a proposito di viaggi ho anche cancellato una prenotazione già fatta per Stoccolma, dove gli svedesi hanno provato a tenere tutto aperto poi non è andata benissimo neppure a loro purtroppo e per consolarmi mi sono rivisto l’indagine nel profondo nord di ‘The girl with the dragon tattoo
Poi avevo un languorino e mi sono seduto in una cucina di una baracca a Seul, dove fanno il tracciamento e film molto belli, da cui ho seguito le vicende di una famiglia che non è propriamente una famiglia ma è più famiglia, nel senso amorevole del termine, di tante famiglie che si ritengono famiglie (‘Shoplifters‘, bellissimo).
Ci sono state (e forse ci saranno) serate in cui un abbraccio, una pacca o un whisky in compagnia ci sarebbero voluti e allora mi son consolato rivedendo una delle love story più belle (‘Her‘) e un’altra storia di romance che non avevo mai visto, la ‘Trilogia dei Before‘ con Celine e Jesse che si incontrano e parlano, si ritrovano e parlano, sono in vacanza e parlano e nel mezzo delle parole si amano come meglio possono.
Per recuperare punti di mascolinità ho rivisto film di menare duro, nei deserti apocalittici con chitarre che sputano fiamme (‘Mad Max-Fury Road‘) o dentro a hotel per criminali (‘John Wick‘) e dentro a palazzi che pullulano di gente armata di machete o che non ha problemi a farsi spaccare letteralmente le ossa (‘The Raid‘).
Ho anche letto che forse il cinema (previsione fornita dal ‘team pessimismo’) non sarà più lo stesso e allora mi son rattristato che a me manca molto il cinema, per poi sollevarmi guardando qualche film nuovo di zecca, come ‘The invisible man‘ che mi è piaciuto molto o ‘The Hunt‘ che è belloccio.
Ho visto pochissime cose su Netflix perché non funziona benissimo lo streaming, forse per il sovraccarico delle moltitudini che come me hanno cercato in questi giorni conforto nei film, però una cosa l’ho vista ed è stata ‘Il buco‘ che ha una bella idea ma non la ciambella intorno.
Infine, ho anche ascoltato musica, il Boss e la sua saggezza che salvano il protagonista in ‘Blinded by the light‘, i Simple Minds di quando avevo l’acne e volevo far parte anche io di un ‘Breakfast Club‘ e poi Mozart, riguardando quel totem che è ‘Amadeus‘ nella versione da tre ore del ‘director’s cut’ che tanto di tempo ce n’è.
La Pasqua è finita – questo post doveva uscire ieri ma sono sempre lento – il lockdown no, domani guarderò un altro film, magari non ne scriverò ma questo elenco forse, un giorno, fra un anno magari, lo riprenderò e proverò a sorridere di queste settimane.

2019, di stelline #atthemovies

Come tutti gli anni anche questo 2019 termina con una bella ondata di classificone che sono sempre interessanti da leggere, soprattutto perché permettono di segnare pellicole per futuri recuperoni.
In molte di queste classifiche ci sono tre film che evidentemente sono piaciuti molto, a me un po’ meno.

Il primo è ‘Joker’ a cui ho dedicato l’ultimo post sul blog. Il giorno dopo la visione aprendo l’internet dei commenti ho visto decine di persone entusiaste e di inni al #filmdellavita. Sentendomi un po’ scemo sono tornato a vederlo per verificare se non avevo capito qualcosa. La seconda visione ha semplicemente confermato le mie sensazioni ossia un film discreto, a tratti buono, derivativo anni ’70, Joaquin bravo ma fisso in overacting (come si dice overacting in italiano? e comunque le prove le aveva fatte in questo film) non sta parabola messa in scena del mondo moderno, anzi, soprattutto il finale mi è sembrato abbastanza posticcio giusto per dare una patina di attualità socio politica a una storia molto più semplice e meno pretenziosa, perché alla fine, spesso, i sensi ai film li mette il pubblico. E questo, è un discorso un po’ più complesso anche se interessante, lo facciamo un’altra volta. Comunque ho messo tre stelline, ecco. 

Il secondo film è ‘The Irishman’. Visto un sabato sera che mi ero tenuto libere quelle comode tre orette e mezza sul divano (purtroppo non sono riuscito a vederlo al cinema, forse avrebbe cambiato il giudizio, anche questa è una bella discussione da fare su Netflix e la politica da divano, sulla fruibilità dei film, ma si fa una certa, andiamo avanti) e con tutto il rispetto e l’amore per Mr.Scorsese (che ha scritto film pazzeschi e uno dei pezzi più importanti di quest’anno sullo stato dell’arte cinematografara, a prescindere se si sia d’accordo con lui o meno, lo leggi qui) il film mi ha annoiato a lunghi tratti. Troppo lungo, troppo parlato e tutto già visto, oltre agli effetti sul lifting facciale (brutti e fastidiosi) di DeNiro. Il finale, di classe con la bellissima riflessione sulla morte, lo risolleva però mi è sembrato un omaggio fuori tempo massimo a un genere che lo stesso Scorsese aveva inventato. Leggendo le critiche dopo la visione mi son chiesto se per rispetto (certamente dovuto) in tanti che contano non hanno avuto il coraggio di dire ‘oh, noiosetto, eh‘. Comunque ho messo tre stelline ecco. 

Terzo film della serie ‘avere dubbi‘ è ‘The farewell’. Finita la visione apro il Letterboxd, ormai indispensabile guida e commento ai film, e mi trovo una pioggia di stelle e una carrellata di giudizi esaltanti. Il film parla dei gradi di separazione culturali fra la Cina e l’America, raccontando il ritorno a casa di una trentenne per un matrimonio fasullo organizzato come scusa per dare una specie di estremo saluto alla nonna ammalata, nonna tentua all’oscuro della malattia. La protagonista attraversa il film, girato in una palette di grigi, con un’espressione fissa tra l’annoiato e il dubbioso, incastrata in questo mondo di mezzo fra Oriente e Occidente, il retaggio familiare e il futuro in cerca di risposte. Tutto giusto se non che personalmente non mi sono né appassionato, né mi sono divertito (nonostante qualche gag sia apprezzabile) né mi sono commosso. Un film abbastanza monotono e pure un po’ mono tono. A questo ho dato due stelline e mezzo perché non ci siamo proprio amati o capiti, come due emisferi diversi, forse.

Già che ci sono due righe su un film a sorpresa e molto bello che ho visto giusto ieri sera.
‘Ritratto di una giovane donna in fiamme’ è la pellicola meno considerata nelle classifiche di questo fine anno. L’ho trovato un film magnifico, pittorico, sensuale, delicato ma potente nel raccontare la storia della passione fra la pittrice incaricata di fare un ritratto da mostrare al marito scelto per corrispondenza e la giovane donna, promessa sposa e soggetto del ritratto. Cinema d’essai, però anche gran cinema con due attrici perfette e un finale da ricordare.

Per finire questa carrellata: cinque film che ricorderò del 2019:
‘Dolor y Gloria’  perché è bellissimo e commoventissimo e forse è il mio film pref dell’anno insieme a ‘Parasite’ dove c’è della brillantezza e del senso profondo e la sequenza della stanza nascosta che ti spacca la faccia;
poi ‘Once upon a time in Hollywood’ perché in una stagione di tanti film, molti belli o piacevoli, altrettanti troppo lunghi, questo sarei rimasto altre due ore a guardare Brad Pitt scorrazzare guidando o la Margot guardare suoi film in una sala, quindi piedi nudi e via;
‘Booksmart’ perché adoro le commedie ben fatte e qua c’è tanta bravura;
e ‘Rocketman’ perché sono uscito dal cinema volando di gioia.
Bonus, un film del ’18 ma visto a gennaio ’19: ‘La favorita’, un film meraviglioso
.
Il mio ‘Letterboxd’ 2019 con le stelline di cui sopra e qualche commento è qua. E speriamo che anche il 2020 orti tanti film belloni bellò.

Put on a – 1/2 – happy face

Mi viene veramente difficile trovare un altro film così oggettivamente bello e così soggettivamente imperfetto.
Provo a spiegarmi. La origin story del nemico numero uno di Batman è girata benissimo in una Gotham City che riprende letteralmente lo spirito, le tensioni sociali e la decadenza cittadina della NYC di fine anni settanta in un palese fin dai titoli di testa, anzi, fin dall’apparire del logo WB, omaggio al cinema che la rappresentò, cominciando da De Niro e dall’ombra di quel personaggio che ‘you talking to me?’ per arrivare alla metropolitana dei guerrieri, passando ovviamente per ‘Re per una notte’. Il regista si diverte a citare un periodo storico con una sceneggiatura affidata a un istrionico, stupefacente attore.
Joaquin Phoenix prende il personaggio e lo divora, in purissimo stile ‘Actor’s studio’ diventando Arthur, clown fallito e con problemi mentali/sociali.
Gioacchino è sempre stato uno dei pref. da queste parti e ovviamente vincerà ogni premio possibile perché è palesemente clamoroso, così come la colonna sonora è eccellente, accompagnamento profondo dei passi di danza o di mestizia di Arthur verso il suo irredimibile destino. Quindi, tutto bene?
Eh, no. “Joker” è come un quadro bellissimo che però ti tiene a distanza. Non saprei dirla meglio. Non sono mai entrato nel film perché mi è sembrato privo di una cosa fondamentale. Una sorta di cuore, di anima, di pathos. Ci sono parecchie scene molto belle, innanzitutto la prima sulla metro che è girata benissimo e merita da sola il prezzo del biglietto, eppure si resta ad ammirare il quadro, non si ‘vive’ mai il film che sembra troppo costruito, troppo furbo forse, incluso il finale. Non si tifa per il cattivo che anzi mi è sembrato giustamente respingente. Non si parteggia per i comprimari che svaniscono sotto l’enormità dell’overacting di Gioacchino, a tratti davvero strabordante, e nemmeno per le vittime, utili solo a scoprire l’essenza dell’assassino psicopatico. Si assiste alla creazione di un gigantesco villain, senza mai davvero entrare nella pellicola. Manco c’è un plot twist, ad agganciare, cioè si sa che Arthur diventa Joker, su questo non ci sono spoiler. Si arriva fino all’orlo della follia, viene da dire, ma si fa, fortunatamente, un passo indietro, come prendere una medicina, sempre che ci siano i soldi della sanità…
Insomma, mi è piaciuto ma non mi ha entusiasmato, né convinto del tutto. Consiglio comunque la visione perché è il film del momento e per vedere un clinic di recitazione, oppure, tranquilli, è piaciuto a tantissime persone che gridano al capolavoro. Ci sta, ci mancherebbe. Però mi sa che ci sia da dire una cosa. In questi tempi ci si divide un po’ troppo, un po’ su tutto, si fa sempre troppo il tifo, ci si esaspera e si esasperano le conversazioni. Un film può essere una schifezza o un capolavoro ma non solo una schifezza o un capolavoro. Può anche essere un film che colpisce per come è fatto, con decine di immagini da .gif o da bacheche di tumblr (esistono ancora) ma che non lascia molti ricordi ‘emotivi’. Possono esistere i film belli e i film discreti, i film mah e i film così così. Le scale di grigio in celluloide, insomma. E non c’è nulla di male.
You ever dance with the devil in the pale moonlight?
(dovevo metterci questa frase…)

Ps.: ieri sera nei lunedì in versione originale del beneamato cinema con una cassa all’ingresso sotto alla ghirlandeina, c’era la filona per entrare. Anni che la meno con sta versione originale e finalmente il popolo giunge. Oppure è perché c’era il film che bisogna vedere?
La risposta al prossimo lunedì. (per esempio: la settimana scorsa a vedere ‘Yesterday’ – a proposito, andate a vedere ‘Yesterday’ super film top romance – eravamo in venti in sala, ieri sera invece il film è iniziato mezz’ora dopo per fare entrare tutte le genti)

Seguendo le favole di Hollywood, indossando stivaletti scamosciati

Quentin Tarantino fa quello che vuole. Si prende tempo, quello che vuole, per fare conoscere tre personaggi, per mostrare lo sfondo, la Hollywood del ’69 e quello che rappresenta(va) che è poi il punto.
Si prende tempo, per mostrare capelli bellissimi al vento di decappottabili o di macchine con i finestrini perennemente abbassati, tempo per carrellate orizzontali, per mostrare tanti piedi e alcune calzature, mettendo dentro i suoi feticismi, facendo il suo film più personale (l’ha anche detto lui).
Si prende tempo, in totale controllo artistico, una cosa abbastanza rara nella Hollywood ’19 in un panorama di ‘filmoni’ dominato da eroi e sequel/prequel e con una storia originale, seppur appoggiandosi alla storia vera. Non dico niente di personaggi e della, esilissima, trama. Sarà un piacere per chi vedrà il film andare poi a leggere (finalmente, il film è uscito nei paesi culturalmente civilizzati a luglio, massimo a metà agosto, solo qui adesso ma, hey, non siamo gli ultimi, in Corea del Sud esce la prossima settimana!) del mix fra realtà e finzione di vari personaggi che il film mostra più o meno a fondo, in una marea, seppur controllata, di citazionismo tarantiniano.
Il regista si prende soprattutto tempo per portare lo spettatore al finale che, senza dire niente, è il tutto.
E’ l’approdo di una favola, come recita il titolo, dove si arriva con tantissime cose viste, con una sequenza in cui Di Caprio dimostra di essere il migliore attore della sua generazione, un’altra che è puro amore per il cinema e gli occhialoni.

Piacerà meno degli incassi, secondo me, al di là del pop, del fashion (Brad Pitt non fa solo l’indossatore, ci mancherebbe, non l’ha mai fatto, c’è una scena straordinaria, quasi sospesa nel caldo e nella polvere, in cui è perfetto, però quando fa il modello, cadono mascelle pure maschili) non è un film per tutti. Piacerà a chi ama il cinema, non solo l’atto di andare al cinema, proprio chi si fa i viaggi con il cinema, ci ripensa, ne legge, ne parla, chi si alza il mattino dopo una visione con gli occhi ancora pieni delle vie di Los Angeles, di sole, piedi sporchi, polvere, sigarette, cocktail, ville, capelli al vento e cappelli, locandine e ranch sentendo quell’effetto che solo il cinema può ricreare, quella sensazione fra malinconia e magia che pochi film sanno rendere e questo lascia, dopo un lungo viaggio che poi sembra troppo breve, volando nella notte di Los Angeles.

 

Ps.: complimenti sempre a chi proietta in versione originale, ieri sera alla “anteprima” era pieno di giovani fra l’altro, bel segnale, spero;
Ps2.: bisognerebbe sapere qualcosa della cultura americana di quel periodo, sarebbe meglio per capire tutto, anche se non è fondamentale, soprattutto un passaggio, un nome, che mi è stato spiegato prima del film da bravi ragazzi che hanno fatto una presentazione dello stesso;
Ps3.: ho scoperto una cosa. Al cinema se uno ha al polso quei robi collegati al cellulare che ricevono gli avvisi e se il tipo/a è gettonatissimo, il robo al polso si accende cento volte durante la visione e solo perché ho abbracciato la via della pace non ho preso la mannaia tagliandogli il polso, al tipo col robo al polso, anche perché Quentin non fa più certi film, quindi sarebbe stato troppo tarantinesque, la scena della mannaia e del polso che cade sul pavimento della sala, il robo ancora acceso.
Ps4.: lo stivaletto mocassinato che indossa Boothe/Brad nel film lo puoi comprare qua

Un twit al Pd (peinsa te)

L’altra sera mentre scrivevo l’ultimo post sulle squadre di calcio con l’SPQR dentro avevo anche buttato giù una bozza di altro. Poco fa, prima di spegnere il pc dell’ufficio, sono andato a rileggerla, così, mi son detto, in macchina verso casa mi costruivo un mezzo racconto. Entrando in WP ho visto che negli ultimi giorni due visitatori hanno aperto un post di anni fa. ‘Una lettera al PD’. E allora mi son detto, ohibò, che coincidenza, ma neanche tanto poi, che oggi ci sono le consultazioni dopo la crisi di governo innescata dalla trucida Lega ad agosto e dopo ho pensato anche a chissà cos’avevo di così importante da dire, dieci anni fa, al Pd e mi sono riletto il post.
C’è un passaggio così:
”Signori del PD, o la capite o non la capite. E sarebbe molto meglio se la capite.
Perché qua la Lega e le mandrie berlusconiane si mangiano tutto. Perché seppure battano soltanto su due tasti, la sicurezza e “la sinistra ha fatto danni” sono sufficienti. Sapete perché? Perché davvero la sinistra ha fatto danni. A se stessa. Non sapendo rinnovarsi, fermata nell’immobilismo che ha permesso cose inconcepibili fino a pochi MESI, non anni, fa.”.

Addirittura avevo scritto parole in maiuscolo. Dovevo essere proprio arrabbiato. E, sicuramente, seguivo molto di più la politica nazionale. Comunque dopo mi sono ricordato che giusto ieri, per fare una gag fra me e me, che suvvia, non ha senso scrivere a un politico, ho mandato un twit al segretario del Pd. L’ho fatto davvero, peinsa te, anche se non voto Pd da un bel pezzo, forse, adesso che ci penso, da quel post del giugno 2009.
Il twit dice:
“I 3 bar della provincia di MO in cui son stato in due giorni dicono che sbagliate duro. Il Truce ci sguazzerà se vi accordate e alzerà ancora di più la sua retorica contro la sx e il mov. non è affidabile. Meglio fare opposizione e creare nuovo consenso. Fidatevi dei bar” perché nei primi due giorni di lavoro fra un pranzo e un paio di caffè avevo origliato conversazioni di politica e insomma l’ho scritto. Ovvio che nessuno, ci mancherebbe, l’ha letto e dopo essere arrivato a casa leggerò se il Presidente ha dato l’incarico per fare il governo M5S e Pd. E fra qualche mese questo governo salterà e, ancora, la Lega e i rimasugli di Berlusconi si mangeranno altri voti con una facilità disarmante, sempre battendo sull’emergenza inesistente della sicurezza e sui danni della sinistra che non è poi così di sinistra.
Perché non c’è peggior sordo di chi non ascolta, dice così la massima, circa? Una cosa simile.
Intanto, pubblico questo post, così fra dieci anni, vediamo se è cambiato qualcosa, magari il Pd non esisterà più, magari avrò chiuso il blog, chissà.

L’anno che verrà delle mie squadre con la SPQR dentro

In breve: tifo la Reggiana, simpatizzo moltissimo per la Roma.
Nel weekend sono iniziati i campionati e ho visto entrambi gli esordi delle due squadre che, casualmente?, entrambe iniziano con la lettera R, come romanzo, per dire, e tutte e due le città di cui sono simbolo calcistico, hanno SPQR nel, appunto, simbolo cittadino.
Detto ciò, vediamo cosa mi aspetto dalla stagione, dopo i primi novanta minuti più recupero, come si dice.

La Regia:
dopo un anno di terribile serie D, con un nome diverso e una nuova società dopo il fallimento e noi in tribuna, riecco la maglia granata in serie C, la categoria che è simile all’inferno, luogo di partite orrende e di grandi slanci, di centrali difensivi grossi e giocatori di tecnica superiore che sono come pepite in un fiume. Ci arriva dopo un riassetto della proprietà, con un nuovo allenatore e una batteria di giocatori appena arrivati. Per l’esordio, torniamo nei distinti per il test contro quella che gli esperti pronosticano come una delle favorite, la Feralpi Salò che ogni volta che passa da Reggio sembra giocare per la vita e che spesso ci ha fatto soffrire in questi millemila anni di inferno della C. Finisce 4-1 con una delle più belle prestazioni a tinte granata degli ultimi anni. Poco per avere certezze, più che sufficiente per gonfiare un piccolo palloncino di speranze, abbastanza per dire con una certa sicurezza che, sì, quest’anno ci divertiremo allo stadio.
Il mister è uno che parla di principi di gioco, sceglie la panchina più vicina alla curva e io mi esalto. Ed è uno che dopo un mesetto di lavoro li mette in mostra questi principi. Centrocampisti che giocano a due tocchi, poi vanno a dettare il passaggio o provano il lancio in verticale, palla bassa, aggressione a palla persa. In mezzo un giocatorino scuola Giuvens che è un piacere vedere librarsi per il campo, al suo fianco un armadio a due ante e mezzo che andrà anche in gol con una cannonata da tre quarti campo su punizione, ai lati due laterali che fanno buona impressione, sopratutto Favale. L’uno del modulo base (3412) è Staiti, uno dei pochi in rosa dalla stagione scorsa, un giocatore a cui l’innalzamento del livello tecnico giova al suo rendimento. Corsa, legnate e affondi con una perla come primo gol della stagione, una sassata al volo da fuori aerea che gonfia la porta e il nostro entusiasmo dopo appena cinque minuti.
In attacco, Scappini, un centravanti che si vede subito che è uno che sa come si interpreta il ruolo e sa come si segna anche di testa. Ad accompagnarlo, una seconda punta, Marchi, di gamba e tigna per il primo pressing  seppur con tecnica che non pare raffinata ma non importa, i gol li faranno gli altri. A difendere il tutto, il consolidato duo Rozzio-Spanò e un nuovo giocatore che entra fra i miei preferiti nel giro di pochi minuti, nome gasante, fisico giusto, cazzimm’ quanto basta e un errore strepitoso a metà secondo tempo con un retropassaggio azzardatissimo ma senza conseguenze. Dai Espeche, voglio la tua maglia. In porta un giovane portiere che mostra sicurezza, aspettando il rientro dello sfortunato titolare.
Sugli spalti, noi al solito posto di cabala di due anni fa e una fila sotto un signore che avrà novant’anni, pelle lucida, macchie in testa ma occhi attenti, mani giunte e dei sussurrati ‘dai..dai...’ quando la squadra attacca. All’intervallo mette un golfino perché c’è umidità al 98% ma anche qualche colpo di vento perché piove. Il figlio, identico a lui, lo guarda sorridente dopo i gol, io guardo ammirato.
Il nostro piccolo discepolo di reggianità, figlio del mio socio di spalti, otto anni e già un veterano con quattro stagioni di stadio, non dorme al rientro in macchina, perché ‘è stata una partita troppo bella‘. E allora, ne sono certo, quest’anno allo stadio ci divertiremo.
Obiettivo playoff, sperando in un finale migliore di due anni fa (cit.) perché sognare è bello e andiamo allo stadio per quello.
(qui: video IG con i gol della prima granata)

La Magica: 
come da amichevoli estive, tanto bene in attacco, i brividoni dietro. Stamattina ho letto critiche eccessive ma la difesa non era quasi mai piazzata male, solo che i centrali non sono abbastanza capaci. Giovanni Gesù disgraziato sempre (il rigore causato è una roba da seconda categoria) e Fazio forse è troppo abituato ad avere Manolas di fianco. Serve un rinforzo (Mancini nel terzo gol, sbaglia pure lui, ma crescerà) serve più pressing a palla persa (e Veretout aiuterà) e più equilibro. Forse serve ripensare il centrocampo, Pellegrini e Zaniolo insieme sono un lusso, seppur coi piedi buoni si gioca meglio? Sicuramente occorre trovare una contromisura allo schema banale ma efficace con cui il Genoa ha segnato due gol (palla al centrocampista centrale avversario, lancione a scavalcare la difesa giallorossa).
Seguirò con grande attenzione Fonseca perché mi piace molto come si propone, pure come look. In attacco, nel palleggio, la squadra è già bella e pure divertente. La qualità c’è, peccato il derby subito che è sempre un rischio, però, daje. Bello lo striscione della Sud per il capitano romano Florenzi e quello col nove proverò a riprenderlo al fantacalcio che quest’anno è a rischio ventello e il turco Cengiz farà un sacco di gol.
Stagione di dubbi e di fiducia, difficilmente di equilibri. Anzi, stagione a caccia di equilibri, perché quando riparte questa squadra può fare danni a tutte. Quarto posto? Chissà, difficile forse ma una prima serata da ventitré tiri contro sei, è un dato a cui mi aggrappo con fiducia. Di sicuro, ci si divertirà, bis e over.
(qui: sintesi della partita)

E a maggio, tornerò a leggere questo post…

Thom Thom Club

Mentre guidavo verso la piazza coi ciottoli mi sono chiesto quanti concerti avessi già visto lì, a ballare sui ciottoli rischiando le caviglie. Da un calcolo a memoria, probabilmente per difetto, dieci. E ho ripensato a quella cosa bellissima che facemmo per i National e alle altre sere in cui sono andato. Ho pensato che poteva essere un’ottima occasione per chiudere con la faccenda di andare a vedere concerti che a dicembre farò mezzo secolo e il primo concerto che ho visto ne avevo sedici, quindi fanno trentaquattro anni di giù dal palco e non parlo di teatri, comodi e seduti con la temperatura giusta tutto l’anno, parlo di palazzetti grigi, arene più o meno vaste, locali di varie forme e dimensioni.
Questo pensiero me lo sono portato dentro mentre trovavo un posto dove piazzarmi per vedere Thom Yorke, uno dei personaggi più importanti degli ultimi vent’anni di rock. Sarebbe perfetto come pietra tombale sulla carriera concertistica. Pensieri non esattamente lietissimi ma comunque concreti, in un giovedì lavorativo infrasettimanale, dopo nove ore in ufficio e una e mezza in macchina e un McDonald buttato giù al volo per non svenire, così tanto che nei primi venti minuti di concerto ho notato con una punta di stizza due cose dell’andare ai concerti, oggi.
(qui è dove metto le mani dietro la schiena, stile ‘umarell’ e guardo la gente)
La prima riguarda i cellulari. Entra Thom accompagnato dallo storico produttore Nigel Godrich e da un tizio che si occuperà dei visuals e attaccano con un brano lento per pianoforte ed effetti che non riconosco, e oplà, si alza un’onda di schermi bianchi a riprendere. Lo scrivo ben sapendo che anche io fatto un mezzo video durante la serata, una storia da postare su IG, tanto per dire al mondo che non ascolta o dimentica che ero al concerto. Colpevole, però secondo me non ha senso fare in continuazione video di solito brutti solo per dire ‘io c’ero’, video che credo non verrano rivisti spesso se non mai, che riempiranno la memoria del telefono e non resteranno. La ragazza che è piombata a metà set davanti al tizio di fianco a me aveva uno zaino che pareva dovesse andare in montagna per tre mesi anziché a un concerto ed è rimasta per minuti con le braccia tese a fare un video orrendo perché essendo bassa, che ovviamente non è una colpa, arrivava con le braccia tese manco all’altezza dei miei occhi che erano attratti da questo schermo a mezzo metro da me e dove la tizia riprendeva teste, braccia, altri cellulare in modalità video, piccole frazioni di Thom Yorke che ballava e la parte superiore del grande schermo. Per me non c’è problema, foto, video, ok, però forse si esagera e hanno ragione gli artisti che s’arrabbiano sempre più, perché si dovrebbe essere lì per la musica – sorprattutto ieri sera, un concerto non certo facile, musicalmente parlando anche se Thom ha la giusta accortezza di limare certe asperità o pesantezze che su disco si sentono – inoltre perché per vedere un bel video di un live esiste You Tube ed è gratis e la qualità è migliore del cellulare.
E poi il chiacchiericcio. Se devi parlare con la vicina (avevo due ragazze che per la prima mezz’ora hanno parlato ed erano alle mie spalle, discretamente brave perché modulavano la chiacchiera in base al volume del pezzo, parlavano di lavori da accettare e poi di un tipo che non si capisce se ci fa o ci è, in sintesi) e io sono buonista vero e non dico mai niente, però non capisco proprio. Spendi cinquanta euro per vedere un concerto in mezzo a zaffate di sudore stantio, zanzare che sembrano calabroni, birra scadente, gente che ti spinge e stai a parlare durante lo spettacolo, forse sarebbe meglio spendere cinquanta euro in una buona bottiglia e scolarsela a un tavolo di una bella piazza. O no?

(qui è dove tolgo le mani da dietro la schiena)
Poi però ho sentito un odore di marijuana fortissimo e buonissimo, mi sono ricordato dei tanti concerti dove ero io quello che fumava e ho pensato che un paio di tiri sarebbero stati perfetti per entrare ancora meglio nel mood sonoro del Tommaso nostro. Manco a farlo apposta dall’altra parte mi è arrivata una zaffata di pakistano e allora anziché chiedere un tiro, cosa che non si fa con saggezza da anni, ho chiuso gli occhi e mi sono ascoltato qualche secondo così, al buio, senza vedere i visual a volte pop e colorati, altre  volte a formare intrecci di forme o zampilli di grigio come sogni (incubi?) non a fuoco, ballicchiando il loop dei bassi sul posto, scuotendo un po’ la testa, mettendo le braccia non dietro alla schiena ma in aria, in alto e lì ho capito che non sarebbe stato l’ultimo concerto perché alla fine mi piace ancora andarci, alla fine restano momenti che ricorderò, anche la ragazza con lo zaino da scalatrice, i chiacchieroni, le zanzarone che per fortuna avevo una camicia e pantaloni lunghi, Thom Yorke che è un fenomeno – ha fatto due ore dove ha suonato strumenti con pulsanti e cavi matti che facevano pin pin, wuoom wuoom, plon plon, taktictakk, la chitarra per riempire vuoti, il pianoforte per cantare in solo ‘Down Chorus’ gettando nello sconforto dell’amarezza il pubblico che all’inizio del pezzo (ascoltalo) fa ‘sshhhh’ per zittire i chiacchieroni e alla fine si lancia in un applauso caloroso,  ha ballato come un folletto come ha urlato un tipo che ne cercava di imitare le movenze vicino a me – e prima di entrare la bellezza delle merlettature ferraresi al tramonto e una volta uscito la stanchezza dolce e meritata fra le vie del centro, andando verso casa con i pensieri sciolti nella calura, lavati via con una secchiata di musica.
Alla prossima, piazza coi ciottoli.