Il passeggiatore e la profetessa

Questo post ce l’avevo lì da giorni, in quel punto indefinito fra la gola e lo stomaco dove restano i bocconi amari, le sensazioni a cui non riesci a dare un nome esatto, un magone, per dirla in una parola che non va né su né giù come un pezzo di cuoio strappato da un pallone da calcio.
Il post mi è venuto in mente durante Reggiana -Juve Stabia, ottavo di finale dei playoff per assegnare l’ultima promozione in serie B e dopo Siena-Reggiana il magone mi ha impedito di scriverlo.
L’ho finito ma è rimasto nelle bozze che avevo altro per la testa.
Poi, stamattina, la notizia che Mike Piazza abbandonerà la Reggiana.

Presumibilmente, saranno altri tempi amari, per la beneamata Regia.
Poi magari le cose cambiano.  Però il post lo pubblico perché comunque è stato bello inseguire il sogno della promozione tanto attesa, tanto ambita, ed è stato bello – magari poi le cose cambiano – avere avuto un presidente che a me sembrava ci tenesse ai colori granata.

Grazie. 

Questo è un post su due persone che vanno allo stadio.
Il passeggiatore e la profetessa.
Nel settore distinti c’è un camminamento parallelo alla prima fila, quella rasoterra, quella dove vedi quante rughe ha in faccia il guardalinee, ma non vedi niente di quello che accade a centrocampo che sei troppo schiacciato sul manto verde.
Entra la Reggiana per il riscaldamento ed arriva il passeggiatore. Indossa un paio di pantaloni neri così larghi che ci starebbero entrambe le gambe in una e un maglione sempre nero, in contrasto con i capelli completamente bianchi. Avrà più di sessant’anni ma con grande agilità si piazza sulla balaustra divisoria e da lì inizia ad usare una lunga sciarpa di lana come fosse una bandiera, sventolandola ad un ritmo tutto suo, urlando cose ai giocatori. Resta nella sua posizione a sventolare per quasi tutto il riscaldamento, poi sparisce per un po’ per riapparire verso la fine del primo tempo quando incita i giocatori ad attaccare, agitando la sua sciarbandiera da sinistra verso destra, come ad indicare la via per vincere la partita. Sembra urlare molto forte. Torna al suo posto, anche se non abbiamo capito quale fosse, noi, venti file più in alto.
Gli ospiti segnano e il passeggiatore inizia a passeggiare a un ritmo frenetico, amplificando con la sua falcata nervosa ma possente i sentimenti di paura per l’eliminazione che scorrono nel settore. La sciarbandiera ha cambiato direzione visto che le squadre hanno cambiato campo però indica sempre l’area di rigore avversaria. La via, l’attaccare per raddrizzare la partita. C’è un fallo di un centrocampista ospite, la sciarbandiera cambia direzione si agita verso il campo, come a voler indicare il reo del fallo. Il passeggiatore scende, fa qualche passo accompagnando l’azione, poi torna al suo posto, torna ad indicare la via.
Finché la Reggiana segna. Lì, perdiamo le tracce del passeggiatore ma le ritroviamo subito dopo, quando non smetterà di camminare fino al fischio finale, urlando cose ai giocatori di entrambe le squadre, la sciarbandiera sempre sventolata o brandita.
Al termine del match, partecipiamo al rito delle discussioni post partita alla  solita baracchina vicina allo stadio fra un panino con salsiccia e una bibita. E lì, vedo il passeggiatore che arriva verso di noi.
Ha la stessa falcata, i capelli luminosi e bianchissimi, avrà settant’anni, le rughe che sono solchi di preoccupazione come se la partita non fosse finita ma ci fosse un lungo intervallo dove il pubblico è pregato di uscire dall’impianto. Gli chiedo: “E’ stata dura eh…”.
Lui senza smettere di camminare con le sue ampie falcate si gira appena, rallenta appena e mi fa: “Dovevano attaccare prima” e sparisce, la sciarbandiera stretta forte in mano, arrotolata.

La profetessa si manifesta a metà del secondo tempo, allo stadio di Siena, settore ospiti, dieci giorni dopo. Era già lì nel primo tempo, avevamo scambiato un paio di sorrisi cordiali fra sconosciuti appassionati di una squadra di calcio, ascoltando a vicenda le chiacchiere a tinte fosche dell’intervallo. Perché si perdeva, per colpa di un gol abbastanza regalato dalla nostra difesa non nuova a gentili marcature durante azioni offensive apparentemente inoffensive degli avversari, perché il risultato parziale ci estrometteva dai playoff.
Al ventesimo circa, quando i giocatori del Siena iniziavano le loro scenette coi crampi e perdite di tempo magistrali, la profetessa incrocia il mio sguardo. Io le dico, come dirlo a me stesso: “Ce la facciamo, ce la facciamo”.
E lei, enuncia la sua intuizione. “Segneremo al novantaduesimo”.
Il cielo è limpido però mi sembra di sentire come un lampo in fondo alla Toscana, le rispondo un “Sì!” convinto.
La partita procede e io le ricordo la sua profezia ogni cinque minuti circa, come per rafforzarla, per renderla più vera. Cerco la profetessa con lo sguardo, lei sostiene la mia speranza, la mia necessità di credere all’oracolo che indossa jeans stretti, scarpe bianche e una felpa rosa annodata in vita che si sa mai, anche se la temperatura era perfetta, anzi c’era un vago calore forse dovuto all’agitazione o al battere le mani per sostenere i cori di incitamento.
Arriva il novantesimo, sette minuti di recupero. E ancora: “Ce la facciamo, segna al novantaduesimo”.
La profetessa si sbaglia di pochi minuti, ma non si sbaglia. Il gol arriva, è un pallonetto che coglie puntuale l’errore marchiano del portiere avversario e mentre il nostro attaccante parte di corsa verso la nostra curva io mi lancio verso le transenne di sotto, nell’esaltazione pazza dell’entusiasmo. Mi fermo presto, c’è la bolgia di urla e volti scomposti, risalgo le scale per andare dai miei compari, ma incontro la profetessa, sembra attendermi e prontamente la sommergo in un abbraccio, urlandole nell’orecchio “Segnano al novantaduesimo, al novantaduesimo!”.
Lei ride, non dice niente, mi guarda poi guarda l’amica e abbracciamo anche lei, poi abbraccio i miei amici e insomma ci abbracciamo tutti e la profetessa ride ancora, nel giusto.
Poi un fischio. Il furto. Quando l’arbitro si inventa un rigore. Per incompetenza, protagonismo, altri scenari dove un potere innominabile decide chi vince, cose a cui non voglio dedicare manco una riga altrimenti penserei seriamente di non andare più allo stadio. Questo fischio.
Ma il furto non cambia l’essenza di quell’abbraccio con una sconosciuta.
Al termine, sconfitti, ci salutiamo con una punta di amarezza, sappiamo entrambi che quell’abbraccio resterà una firma in calce a una serata maledetta, a questi playoff. 

Le passeggiate del passeggiatore, la profezia della profetessa.
Due piccole storie fra le tante che si possono raccontare dagli spalti di una stagione maledetta, maledetta come questi playoff che poi, cosa vuoi di più se non una passione che porta ricordi, piccole gioie, facce sconosciute che diventano amiche per novanta minuti più recupero beffardo ed enormi delusioni.
Fino alla prossima stagione. 

 

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