Le canzoni pref.

Qualche settimana fa un’amica per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai suoi ‘followers’ di inviarle una playlist contenente le loro ‘canzoni preferite’. E così, mi son messo lì a pensare alle mie canzoni preferite perché mi sembrava una bella richiesta e perché la cosa aveva il profumo digitale degli anni dei blog musicali, delle discussioni infinite su Friendfeed, del web quello con le liste, le classifiche, i post a punti.
All’inizio ho avuto molti dubbi. Come si scelgono le canzoni preferite?
Se sei una persona per cui la musica ha un ruolo nella vita che non sia solo sottofondo ma qualcosa di più, è una domanda impegnativa perché le canzoni preferite sono un argomento quasi definitivo e pure scegliere certe canzoni ti definisce proprio. (certo, stiamo sempre parlando di musica, ma minimo minimo, parlare di musica è una delle cose più belle che ci sia anche perché, parlando di musica, si finisce sempre, ma sempre eh, a parlare di qualcos’altro, spesso di noi stessi).
Quindi come si fa? Si pensa alle band della vita e si va a scegliere un disco e da lì una canzone? Si calcola, seguendo tabelle personali e mutabili, l’importanza di certi pezzi? Si mettono le canzoni con cui sei cresciuto?  Si punta ad essere fighi o diversi o alternativi, mettendo canzoni di un certo, diciamo, spessore? Si ponderano canzoni che hanno racchiuse nelle loro note momenti della gioventù o momenti importanti?
Troppo difficile, credo che nei momenti importanti la musica non ci sia, oppure si aggiunga dopo, come una colonna sonora applicabile alla memoria, ma questo è un tema magari da affrontare in separata sede, comunque mi sembrava tropo impegnativo. E poi, ho capito.
Era facile.
Le canzoni preferite sono semplicemente quelle che si ascoltano sempre. Da sempre. O sempre da quando le hai ascoltate per la prima volta. Non sono obbligatoriamente legate a momenti, viaggi, cose e mari o monti.
Metti tu le cose sopra a quelle canzoni, o sotto, o sopra a quelle che scegli a lavorare quando ti serve una spinta e selezioni quel brano, a quella che ti tira fuori da un pensiero opprimente quando esci da un ospedale o quella che ti ricorda una persona speciale. Metti un insieme di ricordi e sensazioni. Metti quelle che porteresti su un isola deserta, anziché i canonici tre album di parecchie chiacchierate (per neofiti, la domanda è: ‘Quali sono i tre dischi che porteresti su un’isola deserta?’).
Unica regola che mi sono dato è stato il numero. Dieci sono troppo poche, trenta sono troppe e poi ho scelto una canzone per artista, altrimenti magari dei Police ne mettevo tre, per dire.  Vale mettere un pezzo di Mehldau in solo e uno in trio perché Brad è il re e quindi vale. Poi non è stato facile sceglierne una, solo una, dei PJ, per esempio.
Però alla fine è stato più facile del previsto perché ogni tanto queste le devo proprio ascoltare per recuperare una sensazione, un equilibrio, anche solo per fare un sorriso.
Poi, se la faccio fra dieci giorni magari cambia. Ed è giusto così.
Se vuoi, fai la tua playlist delle canzoni pref.
Poi ne parliamo, oppure la ascoltiamo.

Serialismi, giugno

La parola capolavoro è usata spesso a sproposito, soprattutto a causa dell’entusiasmo con cui ci si fionda sui social dopo aver terminato la visione di un film o una serie tv. L’entusiasmo va bene, però conserverei il termine (piuttosto impegnativo anche per chi lo ha scritto, il capolavoro) per poche cose, magari quelle che cambiano davvero le carte in tavola, arrivano dove gli altri non hanno osato (come le aquile, circa) lasciano qualcosa nel tempo.
Chernobyl” non è il capolavoro di cui ho spesso letto in giro in questi giorni. Manco ci si avvicina a un capolavoro ma è su Sky, va a coprire il fresco vuoto lasciato dalla fine di GOT – il titolo che tutti o quasi hanno guardato e commentato, sigh – tratta un argomento noto e lo fa in maniera giusta, appena didascalica (e didattica) e con tre attoroni perfettamente in parte anche se, per chi la guarda in inglese, a volte fa sorridere l’accento british nelle stanze del Cremlino o in mezzo alla polvere dei minatori.
“Chernobyl” è una buona serie, dura come un nocciolo (ops) e ben orchestrata con una narrazione piuttosto classica. Una specie di horror con il male che letteralmente fluttua nell’aria e nelle stanze dei segreti in salsa russa e sì, confermiamolo, le bugie si pagano sempre.
Si avvicina di più al capolavoro un’altra serie che mette sempre piuttosto a disagio dove la paura non la vedi ma è dietro l’angolo, basta essere nel posto sbagliato nel momento giusto e se non è proprio il momento giusto, magari se non hai il colore giusto, chi dovrebbe proteggerti inizia a metterti paura, ad usarti, a rovinarti. Anche questa serie è basata su una storia vera, è su Netflix, se ne parla molto meno purtroppo ma è bellissima.
When they see us” è divisa in quattro parti di poco più di un’ora, ognuna può essere vista come un piccolo film e ogni parte ti prende e ti strizza forte, lasciandoti terrorizzato, arrabbiato, commosso.  C’entra anche Donald Trump, sempre a proposito di raccontare bugie, tutto piuttosto contemporaneo.
Però, c’è qualcosa che  sì, si avvicina parecchio alla definizione di capolavoro.
Fleabag” su Prime Video.
Sono sei puntate da mezz’oretta, una serie (questa seconda, la prima parlava di altro ma tanto, se vi fidate, le guardate tutte e due, in fila eh) che parla di speranza, in Dio, nell’amore, dipende, tutto visto con lo sguardo acutissimo di una scrittrice/attrice fenomenale, che ti guarda (letteralmente, coff coff) e ti sfida a guardare bene, mentre ride e sorride, mentre dentro si rompe oppure rompe cose mentre fuori le riaggiusta.
E’ divertente eppure è un mega drama e la fusione dei registri, spesso non si nota. E’ probabilmente la cosa più intelligente che ho visto in tv da anni. E il primo episodio della seconda stagione è un bignami di scrittura che lancia in cielo la storia in venticinque minuti. Peccato che l’autrice/attrice, essendo una grande, sappia anche quando smettere e non ci sarà una terza stagione. Applausi e ai prossimi serialismi.

 

Ps.: un interessante articolo riguardo a Chernobyl, oggi

Dieci per il capitano, otto da capopopolo, dirigente niente

E’ da ieri pomeriggio che vorrei scrivere qualcosa sulla faccenda di Francesco. Poi mi è passata la voglia, un po’ per l’amarezza, un po’ perché gente più capace, romani e romanisti, ne avevano scritto meglio. (non metto i link altrimenti non lo scrivo più, non che importi se non a me, ovvio).
Poi, poco fa un tipo al telefono per questioni di lavoro mi ha raccontato che ha cambiato ditta.
‘Ho cambiato maglia’ mi ha detto prima di salutarmi.
E allora, ecco il post.
Per Francesco, non si fosse capito, intendo quel Francesco, l’unico che è stato (e che per molti tifosi è ancora) ‘Re’?. Perché, versione breve per chi non ha tempo o per chi difende a spada tratta il soggetto del post, adesso Francesco, per me, non è più ‘Re’.
Per essere Re, secondo me che sono un romantico dei peggiori, bisogna essere giusti, equi, spietati solo quando serve.
Invece questo Re è letteralmente entrato nel salone (sulla questione, CONI, Malagò, poteri romani, rimando altrove ma ce ne sarebbe) con la mazza ferrata colpendo i nemici e terrorizzando, in prospettiva, eventuali amici (vedi la frase su Fonseca).
Ieri Francesco ha cambiato maglia. Ha tolto quella con il 10 dietro e ha messo la sua, soltanto la sua.
Perché se davvero ami quella maglia, una cosa come quella di ieri, se ami quella maglia, se davvero vuoi continuare a sentirtela addosso, se davvero hai studiato un pochetto per esserne dirigente, non fai quello che hai fatto. Non distruggi una società, schierando armate che cinque minuti dopo ogni frase si scannavano nell’arena social.
Francesco ha tatuato sulla pelle un numero magico e un gladiatore, ma ieri è sembrato in vari passaggi ‘Ditocorto’ (le assonanze con GOT son finite).
Ha detto: ‘C’è gente che rideva dopo le sconfitte’. E quindi adesso, dopo le sconfitte, riderà Francesco, che all’inizio sembrava la testa di ponte per una  nuova cordata, voce prontamente rimbalzata anche oggi negli ambienti romani? Prima il bene della Roma? Sicuri sicuri?
Certo. La società ha fatto errori, di comunicazione e gestione, ammessi anche dalla lettere del Presidente sul sito ufficiale (vedi, errori di comunicazione) Presidente che sì, forse dovrebbe farsi vedere più spesso a Trigoria, anche se penso sia un alibi regalato allo spogliatoio, dove d’altra parte Francesco è stato capitano per sei anni, sotto questa proprietà, quindi? Prima? Faceva lo stupidino pure lui?
A me non interessa difendere o attaccare la società che farà player trading, che vuole sto stadio ma che ieri è stata sputtanata da una bandiera. Ed ecco, a me non è piaciuto che Francesco l’abbia attaccata, così, da capopopolo, non dal dirigente che pensa di essere. Un dirigente non si espone, non dice ‘Stamo con le pezze ar culo’. Un dirigente non dice ‘Date tutto in mano a me’. Lo dice un capopopolo, dall’alto di una presunta superiorità tecnica e morale.
Da fan della Roma che non abita a Roma, da tifoso che è cresciuto in curva e che apprezza i valori romantici e passionali del calcio, senza i quali, questo sport davvero non sarebbe nulla, ho sempre percepito bene la viscerale unione tra la città e la squadra, apprezzando la ‘romanità’, vivendola le varie volte che sono stato all’Olimpico.
Eppure, non mi ha convinto Francesco, nemmeno un po’. Questo sentimento dell’appartenenza è bellissimo ma non può soverchiare la squadra, è un valore indubbio ma non può essere l’unico, deve essere accoppiato ad altre capacità, anche manageriali. La romanità non credo possa essere una bandiera dietro quale compiere sotterfugi, non è bello, nemmeno in nome del cuore.
Certo, trovare l’unione fra cuore e portafoglio non è facile e forse nel calcio moderno è sempre più una chimera. Credo di essere un fan vero del cuore calcistico. Non voglio la Super Champions, non voglio le squadre B che tolgono spazio ad altre squadre coi bilanci ballerini ma con tifosi che le sostengono in campionati minori, non voglio gli stadi ridotti a teatrini con i cartelloni luminosi al posto degli striscioni.
Voglio gli striscioni, le urla dei tifosi, i giocatori che si gettano in mezzo al pubblico dopo un gol (Florenzi contro la Juve, Alessandro, che critico sempre per come gioca, ma apprezzo sempre per come lotta, piccolo vaso di cristallo in mezzo a tanti romani evidentemente più romani di lui, per tornare al punto sopra della romanità) vorrei giocatori che baciano le maglie ma poi rinnovano anche a cifre non mostruose se baciano le maglie e così via.
Capisco bene chi dice della purezza di Francesco, anche a me son venute le lacrime al giro d’addio di un paio di anni fa, però doveva, proprio doveva, se ama davvero la maglia e non la sua maglia, lottare all’interno, provare dall’interno, imparare a muoversi nelle stanze della società (ma vacci alla riunione a Londra, vai e ascolta e impara) se davvero pensa che la società lo abbia costretto a lasciare (e mi permetto di avere dubbi visto che, almeno su questo le parti concordano, c’era il contratto pronto da direttore tecnico). Poteva. Quasi doveva, nei confronti dei suoi tifosi, se era convinto di fare il bene della Roma. Ha detto che aveva un buon rapporto con il CEO, mi sembra un bel biglietto d’ingresso. Certo, ha detto anche che decide tutto Baldini, quest’ uomo che ormai è diventato un mostro quasi mitologico (e qua, sarebbe bene farlo parlare no? Qualcuno interessato? Nessuno? Ok).
Poteva, Francesco.  Che delusione. Farò un tifo infernale per Paulo Fonseca che si troverà a camminare su carboni ardenti ma la Roma andrà avanti. Con fatica, ma andrà avanti.
Anche, senza – scusa Francesco – anche senza Totti, quel grandissimo campione che non dimenticherò mai, che mi ha fatto innamorare tante volte e che mi ha deluso così tanto ieri, anche se adesso, lo so già, sta già capitando, ogni volta che lo vedrò in foto, sospirerò.
Daje sempre.

 

(chiedo scusa a eventuali romani e romanisti che dovessero capitare qua se mi son permesso di parlare di ‘romanità’, però ne avevo bisogno, uno sfogo, che a me Totti ha cambiato la vita calcistica ma questa è un’altra storia)

L’incredibile fanta e la neve a Maggio

Il giorno che abbiamo vinto il campionato del fantacalcio, il mio Mister mi ha scritto: “L’incredibile è diventato credibile“.
Al fanta ho un Mister perché anni fa non avevo tutta questa energia per continuare a giocare con la serietà necessaria al gioco e quindi ho ‘assunto’ un amico, impartendogli la direttiva sacra (non si comprano giocatori delle strisciate, della Mapeiese e del Pavma) e consegnandogli, più o meno, la squadra in mano. Dopo tre anni di gavetta e di vane strategie, l’anno scorso abbiamo vinto il titolo.
Quest’anno, alla decima giornata avevamo diciassette (17!) punti di svantaggio sulla prima classificata.
Poi, è successo che abbiamo fatto la rimonta incredibile, appunto, e abbiamo vinto il titolo, per il secondo anno consecutivo, perfino con tre punti di vantaggio.
Abbiamo avuto abilità sul mercato aperto e il risveglio di un paio di giocatori fondamentali. Inoltre le rivali hanno rallentato molto il ritmo e ovviamente abbiamo avuto la fortuna giusta per vincere.
Oggi pomeriggio ho salvato il file che stavo scrivendo, ho aperto la porta per vedere se pioveva ancora e mi sono trovato davanti a un’altra cosa incredibile che diventava credibile. Stava nevicando forte. A 150 metri s.l.m., il cinque maggio. E ho ripetuto la frase del Mister ad alta voce, rivolto alla neve che cadeva o al vento che soffiava e dopo ho pensato che, meteorologia a parte, è una frase che potrebbe essere adottata come stile di vita, se uno ha un obiettivo, un piccolo sogno, non so, qualcosa da provare a raggiungere.
Con il Mister, “L’incredibile è diventato credibile” è già diventato il nostro motto e questo post non è una pagina di un manuale di self help di basso livello. Però, così, forse è vero, forse non si sa mai cosa può succedere. Forse bisogna crederci tanto come ha fatto il Mister che un bel giorno ha iniziato a scrivermi che il fanta campionato lo avremmo vinto noi. Ed eravamo ancora a otto punti dalla prima, con altre squadre in lotta per il titolo. E alla fine ci abbiamo creduto così tanto, che è successo. Abbiamo rimontato diciassette punti in diciotto giornate.
L’incredibile è diventato credibile. Magari ripeterselo a volte, magari sorridendo, magari imitando la voce potente del mio Mister, più alta e tonante sull’incredibile, più profonda , quasi stupefatta, sul credibile, fa bene. Forse, molto forse, nulla è impossibile.
Figurati, nevica perfino in maggio.

E quindi, ‘Endgame’ (sì, spoiler alert)

Il primo film di quello che poi è diventato il MCU,  ‘Iron Man‘, è uscito nel 2008. Non ricordo dove lo vidi, probabilmente nel solito cinema del paese, però ricordo che non ne fui entusiasta e una ricerca nel blog me lo conferma.
Quel film contribuì, fra le altre cose, a spostare noi ‘nerd’ di livello più o meno ‘PRO’ dalla zona ‘ah, quello che legge i fumetti/va a vedere tutti i film‘ a ‘persona con gusti culturali interessanti‘. Da quell’anno, circa e semplificando, il gusto ‘nerd’ ha conquistato il mondo dello spettacolo. Anche grazie al MCU, ovviamente.
E l’altra sera è stata una specie di festa per quelli come me che hanno seguito tutto lo svolgersi di quel mondo fatto di hype e super eroi perché il film contiene una dose consistente di ‘fan service‘.
E’ una celebrazione commossa della Marvel stessa, di questi undici anni, dei personaggi che ci hanno accompagnato a lungo, del tempo scandito dalle uscite cinematografiche, dalle chiacchiere su film e fumetti, sulle differenze con i fumetti, dai trailer, dalle attese, dai film quasi inutili e dalle bombazze.
La scelta di puntare, dopo l’eccellente sorpresa finale e il perfetto cattivone di ‘Infinity War‘, sui sentimenti, si è rivelata perfetta, con l’inizio e il finale giusti, carichi di un senso familiare che rimbalza dallo schermo al pubblico e viceversa. Le morti sono eccellenti, cariche di sentimentalismo e chi non si è commosso non ha il cuore. La battaglia finale è bella, epica, esaltante, il giusto ‘The end‘ del finalone in due capitoli (e paragonarli non ha molto senso, secondo me) con la corsa con il guanto verso il mezzo quantico di Ant-Man come se fosse l’ultima azione nei secondi finali di un Superbowl avvincente  e con la squadra di casa in svantaggio su un campo impietoso. Spettacolare, come il viaggio nel tempo, indietro al primo ‘Avengers‘ in una sorta di come eravamo che mi ha fatto volare dall’entusiasmo, seppur rimanendo incollato sulla sedia.
A proposito, se ne parlava come una delle possibilità e puntuale è arrivato. Ogni volta che si salta nel tempo ci sono dei problemini logici e dei buchi non solo temporali qua e là e nonostante lo spiegone di Hulk, si resta un po’ nel ‘Mah, fidiamoci‘. Comunque un modo dovevano trovarlo e qua si prende tutto, i tecnicismi poco importano (agli impallinati, magari si, ma i siti italiani e USA sono strapieni di pezzi ben più importanti e arguti di questo sui tecnicismi e non solo) importa ci sia il gasarsi e le lacrimone, elementi base e presenti a profusione nelle tre ore del film.
Si prende anche Thor con la ‘belly beer‘ manco fosse un avventore del nostro bar. Ci stava? Dibattito: sì, perché la combo Thor-Guardiani si era già vista, No, perché troppo macchietta. Eppure, ho riso spesso quando arrivava questo dio alcoolizzato e distrutto dai suoi errori.
Perché al di là delle critiche, dei paragoni, dei più o meno arguti puntigliosi sempre all’erta, è tutto lì. Il passato da ricordare, a volte da cancellare, da modificare migliorandosi, per essere davvero eroi. Oppure da rivivere cambiando, riprovando. Tutto con un giusto sentimento, legato alla fine di questo MCU, perché il prossimo film della serie dovrà inaugurare un nuovo mondo Marvel, dovrà cambiare, per forza, e chissà se li tornerò a vedere tutti.
Chissà se riusciranno a tenere tutti noi, dai quarantenni che accompagnavano i figli ma erano più gasati di loro, ai trentenni che dissimulavano l’attesa, ai ventenni in fissa pieni di teorie, ai quindicenni casinisti che erano in culla quando RDJr iniziò la sua carriera da boss dei super eroi.
Probabilmente ce la faranno a riportarci tutti a casa. Gli incassi spaventosi e la capacità di programmare mostrata, daranno una forza impressionante alla Marvel, però altrettanta responsabilità. Ecco, questa cosa del potere e della responsabilità l’ho già sentita in giro e comunque al prossimo, sì, saremo ancora tutti lì.
Ad aspettare, fiduciosi, come una grande famiglia che fa la coda al cinema di periferia, una cosa che non si vedeva da anni, al cinema di periferia, una cosa che mancava, forse una cosa unica, però è stato bello, chiedere permesso per poter entrare, visto che il biglietto lo avevo fatto un’ora prima. E’ stato bello, l’altra sera. Son stati belli, questi undici anni di super eroi.
[to be continued…]

Nothing really matters, tooo me (and PG-13)

Un minimo di contesto personale. Per me i Queen, quando li conobbi, metà anni ottanta, erano una band con decine di canzoni mediocri e una decina di hit clamorose. Nel novanta durante il servizio militare conobbi Carmine. Un giorno ci portò a casa sua, un appartamento in un palazzo di Quarto Oggiaro pieno di mobili e odore di soffritto dove nella sala troneggiava un luminescente pianoforte a coda. Noi mettevamo su un disco a caso dei Queen e lui suonava e cantava il brano. Qualunque. Era bravissimo, gli chiesi perché non suonava altro, rispose ‘A me piacciono i Queen’. Con lui li riascoltai con una guida a fianco ma non sono mai entrati nel novero delle band del cuore.
Il film lo aspettavo, sapendo che era una bella sfida da vincere, perché i biopic musicali sono sempre stati ardui da gestire per le aspettative e perché spesso l’ego dei protagonisti è difficile da comprimere su pellicola.
Al botteghino del cinema una signora sintetizza bene la questione del film: ‘Uno per Freddy Mercury’. La cassiera le sorride, strappa il biglietto.
Sala affollata per l’unica visione settimanale in versione originale. Si parte, svisata di chitarra sulla sigla della ‘20th Century Fox’. Pessimo segnale, molto anni ottanta, ma ci sta.
Purtroppo, sono rimasto abbastanza deluso. La storia  si appoggia unicamente sulle canzoni, non riesce mai ad entrare in una vera empatia con lo spettatore senza le stesse.  Quando non c’è la musica il film resta superficiale nonostante le possibilità di avere fra la mani un personaggio così sopra le righe, ingombrante, per due motivi: la mancanza di una sceneggiatura con un minimo coraggio, che da il suo massimo spiegando la gestazione di tre canzoni e perché il film deve prendere il PG-13 e quindi per esempio la discesa negli inferi del sesso promiscuo viene fatta vedere con un blando montaggio bruttamente psichedelico di Freddy in giacca di pelle. Abbastanza uno spreco.
E il film è un po’ tutto così. Si intravede il potenziale anche perché Rami Malek ce la mette tutta, dentoni inclusi, però niente, non parte mai la vera emozione, mai ho vissuto i dubbi, la tensione interna del protagonista. Il tono documentaristico che spesso prevale, non aiuta ad entrare in sintonia con il personaggio. Altra pessima scelta quella di dover trovare un cattivo, senza se, senza ma, senza sfaccettature e la scelta del gay cattivo che porta il buon Freddy sulla pessima strada, al netto del fatto che le libertà storiche in film del genere per me sono percorribili basta che mi facciano partecipare e invece ancora no, è veramente forzata.
Poi certo il film piace, perché a chi non piacciono le canzoni che tutti conoscono dei Queen ma è troppo poco per farne un film da ricordare.
Serviva più coraggio nella scrittura. E ripeto non era facile e molto probabilmente un film di una major che deve incassare non può avere il coraggio necessario per prendere un materiale così sontuoso (anni settanta, rock and glam, omosessualità, successo, droghe, fans, malattia e morte) e farne un film memorabile. Non può perché facendolo, osando, rischierebbe di non incassare, al momento, cinquecentocinquanta milioni di dollah. Non c’è niente di male. Però, che peccato.
C’è anche un altro discorso che è il finale dove (SPOILER, ahah) si vede la copia carbone dell’esibizione del Live Aid nel luglio ’85 (madeleine: noi nella sala dell’hotel che non andiamo al mare ma ci mangiamo il Live Aid in tv, coi genitori che rompono perché ‘siamo al mare e non vai al mare?’ ‘mamma cazzo vuoi ci sono i Duran in tv’). Per me una scelta sbagliata e pigrissima. Anche lì, manca una sceneggiatura. Potevano fare altre cose ma non hanno voluto rischiare quasi nulla. Purtroppo.
Restano le canzoni, ma quelle resteranno per  sempre.
Eeeeeh Ooooooh!

Ps.: qualche giorno fa ho letto un twit dove uno spettatore raccontava di gente andare via dalla sala dopo un bacio omo sullo schermo. A parte che è inammissibile non sapere certe cose – cioè vai a vedere il film e non sai che questo protagonista era gay? veramente? ti piacciono le sorprese? boh – siamo veramente messi male se c’è gente (anche da me, ieri sera) che fa i commentini scemi a un bacio. Maledetto Pg-13. 

#Baffodoro20

Sabato sera ho avuto il piacere di introdurre una band di amici che hanno organizzato una festa per festeggiare il loro compleanno, vent’anni di attività, di canzoni, di concerti, di sbaffini. Prima del loro set ho letto un testo scritto cercando di restituire in parole la loro storia, per come la conosco, cercando di seguire il ritmo della loro musica, in maiuscolo i titoli delle loro canzoni.
Però la cosa più bella, più importante di quanto ho scritto e letto io, l’ho vista durante la festa, mentre cenavo, parlavo, ascoltavo le altre band venute a fare festa, mentre aspettavo con un po’ di tremarella di salire sul palco.
Questa piccola band e i loro amici, non più solo ragazzi ma uomini con figlie e famiglie, in vent’anni hanno non solo suonato ma anche cementato un gruppo di amici e di persone che si trovano e si abbracciano. Si abbracciano da sobri e anche da sbronzi e niente, una serata con così tanti abbracci dati e ricevuti, sinceri, calorosi e lunghi e abbracciosi, era un pezzo che non la vedevo ed è stato molto bello.  

Il sogno era lì, davanti a loro.
Una fotografia 60×40, sovresposta, il charleston chiuso e l’asta che brillava di riflessi argentati in primissimo piano. Dietro, la figura del cantante, sfocata, immersa in una nube di rosso e, cos’era, fumo? Probabile.
Il futuro, in quella foto, in un piccolo locale che adesso non c’è più perché torna tutto ma non tornano i locali dove le band alle prime esperienze potevano esibirsi, esaltandosi, pure vergognandosi.
Era il millenovecentonovantotto e una novità spuntava nel sottobosco della piccola ma florida provincia emiliana che produceva band a tutto spiano, come un’officina delle note.

I BAFFODORO.

Un nome al sapore di birra e ritmiche precise, arpeggi, tre chitarre che si inseguivano lente, a tratti storte, a volte un morbido tappeto e poi lampi, inseguendo inquietudini, in oscure trame strumentali.
Il primo Ep era immerso nella NEVE.
Le basi: una lontana band di Glasgow, un pugno di reminiscenze americane, un tale di nome VEDDER e quelli come lui che a distanze di oceani parevano unire la musica e quella cosa che di solito si chiama amicizia.

La base: due parole, precise, secche, fin troppo ribadite, diventate scontate e inutili come molte definizioni.
Post Rock. Dopo, Rock.
Canzoni lunghe come gestazioni, percorsi DAL COMPARTO VUH, abbaglianti e oscuri, a seconda di come va, di come stai tu, che ascolti, che batti il piede, che ricevi un’immagine dal palco, quel palco che forse non c’è più e poi la rigiri, quell’immagine, magari per arrivare all’ESTASI DI MATHIAS RUST oppure ti fermi, tremolante come dopo avere fatto un bagno nel mare di novembre, aspettando un’AURORA che possa rischiarare tutto.

Ma prima, ricordi? Una conversazione.
Lui disse, “Lo riconosci il futuro? Dove saremo? Quanto durerà? Porteremo ancora questi cappelli? Avremo sempre queste facce? Sopporteremo le nostre rughe?”. L’altro rispose…chissà cosa rispose, probabilmente suonarono qualcosa come risposta a domande troppo impegnative.

E ancora, ricordi?
Quella foto. Tre teste piegate sugli strumenti mentre il sole se ne va, stanco mentre lascia una marmellata arancione all’orizzonte. Sarebbe da fermarsi ad ammirare, forse a pregare qualcosa, ma quelle teste non si fermano, restano, incuranti del buio che le assorbe, tanto le note saliranno, lasciandosi alle spalle molte cose, sottolineando momenti e CHE FELICITÀ NEI GIORNI DI FESTA che sono i concerti, dove la musica a tratti sembra un pretesto per tornare insieme, in gita con accompagnamento di chitarre, mentre fuori LE NUVOLE CORRONO VELOCI.

E ancora, sì, certo, ricordi?
Quante immagini di viaggi che sono stati esplorazione, mentre visitavano luoghi lontani, notti in tenda, in treno, in van ammuffiti, assimilando panorami e lasciandosi ispirare da racconti, leggende, articoli, conoscendo nomi mai sentiti, DAVID HOLM che salvò la sua anima, PHILIP KERKHOF che attaccò lo squalo, anche se le canzoni, senza testo, a volte vorrebbero spiegazioni, sottotitoli, ma poi, perché? Chi l’ha detto? C’è davvero bisogno di istruzioni, oppure, basta la musica e una raffica di fotografie attaccate a un muro a prendere polvere, a indicare una via, una vita comune?

E poi, accaddero PICCOLE RIVOLUZIONI, una voglia di crescita, la matrice sempre quella, canzoni con il cappello di lana, con il vento in faccia, guardando l’oceano, come a MILTON MALBAY. Raffiche distorte, pacata melanconia, momenti astratti come un dipinto di KANDINSKY, una piccola vena culturale, rigore formale ma, suvvia, qualche concessione pop su lunghe trame dove trovare la tua sensazione, dove puoi scegliere il filo con annessa lampadina e vedere dove ti porta, scegliere il battito che ti si addice, prendere la melodia da succhiare all’esplosione di riverberi, da fischiettare il giorno dopo, incollata da qualche parte nella memoria.
Vent’anni, e circa ogni quattro anni, una manciata di canzoni per proseguire quella conversazione partita da lontano.

E piccoli battiti, chitarre che incontravano soluzioni diverse, incontri che rifinivano la proposta, arpeggi e violinismi, FOSCO che disegna la copertina, ‘A VAGG’’, mentre fuori l’autunno era invadente ma non riusciva a vincere, raccolti in un casolare, le canzoni un’accorata preparazione per difendersi dai morsi dell’inverno che stava arrivando.

Tutto questo: un magnete, un mastice. Fatto della sostanza labile eppure solida della musica, del ricordarsi gli intrecci sonori e quelle foto appese ad una parete che non prendono solo polvere. Creare un FLUIDO70, nuotarci dentro, a volte annaspare, come in certe trame musicali, a volte esplodere, ma sempre per tornare, purificati come IL FIGLIO DELLA TEMPESTA.

E adesso: riguardale le foto.
Le vedi ferme, come quella là, quella immersa nel rosso.
Eppure se guardi bene nel corso dei vent’anni, vent’anni, li riconosci, si muovono piano ma si muovono costantemente.
Gambe che ondeggiano con le chitarre, piedi che premono pedali, capelli che svolazzano, ciuffi che cadono, gomiti che si piegano graziosi, bocche contratte, sguardi rapidi in occhi conosciuti, un inchino finale, intrecciati di sudore, applausi e infine, una, facciamo due, birra per tutti.

E, infine.

Le memorie di vent’anni possono confondersi, cambiarsi, modificarsi. Diventare epiche, modeste, sempre le stesse ma trasfigurate, come immerse in una BRUMA, che le rende instabili, incostanti, infine mutevoli.
Quello che conta, in fondo, è che dopo vent’anni, vent’anni, ci sia ancora uno scintillio nell’asta della batteria, un ragazzo davanti a un pubblico, squarci di passione che tracimano dalle chitarre e questi amici, ancora a sognare, ancora a suonare.
Ancora.
E nuovi titoli. E altri chilometri.
Per allontanarsi, per poi non perdersi.
E ritrovarsi. Ancora qua.
Ancora vent’anni e poi altri anni, fino alla BUIA LUCE che ci inghiottirà mentre la musica e tutto il resto, rimarrà.

Signore e Signori, ‘BAFFODORO’.

Baffodoro Bandcamp

Questa storia della velina nel castello

La Rocchetta è il simbolo del mio paese. E’ una fortezza medievale che si trova all’inizio di quello che adesso è il centro storico. Serviva come prima difesa verso eventuali aggressori. Aveva un ponte levatoio. Adesso è ben conservata e ci passo davanti quasi tutti i giorni.
Uno di questi giorni ci entrai per una visita a una mostra, fotografie appese nei locali della fortezza. Mentre giravo, guardai un lampadario appeso in una delle due torri e un’immagine mi piombò addosso. Iniziai a ripensare a quell’immagine. Ci costruii intorno una storia, tre settimane di un agosto in cui ero in ferie e scrivevo ogni volta che potevo.
Mi ricordo bene, mi viene da sorridere a rivedermi a capo chino che scrivevo veloce, con decine di errori di battitura, cercando di buttare fuori le parole, senza pensare troppo a come e a quanto scrivevo, sperando di non perdere il filo di quella storia, ambientata nella Rocchetta.
Poi misi in pausa il testo che ne uscì. Lo ripresi dopo qualche mese, lo corressi, tagliai parti, lo feci leggere a mia sorella che investì del ruolo di improvvisata editor, a un’amica che mi sostenne con forza cercando di scacciare le mie insicurezze.
Lei diceva “Sei uno scrittore“, io dicevo “Ma no“. Ho ragione io, non lo sono, però mi è sempre piaciuto scrivere, da quando presi un rotondo dieci in un tema alle superiori, vergognandomi dei complimenti della professoressa, a quando aprii il primo blog dove timidamente scrivevo per un seppur minimo pubblico.
Provai a presentare quel testo a pochi editori, senza trovare risposta. Era giusto, non era maturo. Però intanto anche io come tantissimi altri avevo il ‘romanzo nel cassetto‘.
Tirai fuori quel plico di fogli dopo tanti mesi. Lo riscrissi da cima a fondo grazie anche a preziosi consigli di una professionista del settore. Ne uscì la storia che avevo in mente. Ripartii a cercare editori piccoli e affidabili, alcuni un po’ più grossi e irraggiungibili, rifiutai addirittura una proposta, non mi sembrava il caso.
E poi, una sera mi decisi a mandarlo a questa casa editrice. Bookabook.
Me l’aveva segnalata un’amica dell’internet, era rimasta in fondo alla fila.
Era interessante però, con una bella grafica e libri nelle librerie che frequento. E il crowdfunding, un’opportunità.
Prima di mandare la proposta con le prime venti pagine mi dissi: “E’ l’ultimo tentativo. Se non rispondono o rispondono picche, la smetti e va bene così“. Perché a un certo punto forse anche i sogni vanno messi nel cassetto in fondo a tutti i cassetti, a prendere polvere insieme a un centinaio di pagine. Dopo qualche giorno arrivò la risposta.
Ok, mandaci il resto“. Ero a una cena e stavamo uscendo per andare alle macchine, era un paio di mesi fa.
Urlai, “Yeee“. Però poi mi misi sereno. Tanto non succede. Dopo un mese, arrivò un’altra mail. “Congratulazioni…
E dopo qualche mail e una lunga chiacchierata, è iniziata la campagna di crowdfunding per il mio ‘romanzo nel cassetto‘ per liberare la velina.
Qua trovate il link per il preordine, servono 250 copie per fare diventare questa storia un vero romanzo, questo mio piccolo sogno una realtà.
Potete leggere l’anteprima e fare passa parola, se vi piace, se vi va.
Resto uno che non si definisce uno scrittore, ci mancherebbe, però ci provo, ci spero, intanto ci tenevo a presentare ‘La velina’ qua sul blog, dove è nata un po’ tutta questa faccenda dello scrivere.
Per me è già una bella cosa.
E che la velina sia con tutti noi.

 

No smoking

Il titolo del post poteva essere “365 giorni senza fumare, e sto quasi bene”. Oppure doveva essere “Come smettere di fumare in cinque comode mosse”. Poi ho pensato fosse uno troppo celebrativo, l’altro troppo da manuale di auto aiuto oppure da lancio pubblicitario di uno di quei corsi dove ti aiutano a smettere che serviranno ma forse no, senza parlare dei palliativi in commercio, surrogati di una dipendenza che non potranno mai fornire alternativa valida alla sigaretta, privi del gusto, del gesto, dell’odore, di tutto quello che di buono ha il fumare.
Perché miei cari fumatori, noi lo sappiamo, fumare è bello. Ammazza, ma è bello.
Quindi se volete smettere, la soluzione può essere varia, ma quella che vince, secondo me, è smettere di botto. Così. Ciao ciao.
Da un giorno all’altro.
Per smettere di botto però ti devi preparare, devi volerlo ma prima lo devi pianificare, devi auto convincerti con destrezza, lentamente. A meno che, ahimè, non te lo imponga un dottore, il che è male, ma fortunatamente non è stato il mio caso. Per volerlo devi iniziare a pensare ‘ok, smetto‘ ogni giorno, anzi ogni ora. Il giorno che ti svegli dopo che ti sei scolato troppi drink e hai fumato il pacchetto in una sera e ti senti i polmoni che sono due mattoni di quelli grossi, lo puoi pensare, puoi dire senza fiato ‘Cazzo, bisogna che smetta’ ma dopo un paio d’ore ti accendi una sigaretta e dici ‘Bé, cosa vuoi che sia‘ e assapori quel primo tiro che anche se fa schifo ed ha il sapore del male, ributta su tutto il vizio della sera prima.
E parlo di fumatori seri, quelli che dieci sigarette in un pacchetto forse non bastano, quelli che hanno sempre un pacchetto di scorta e si arrabbiano con se stessi se le finiscono e gli tocca scroccarle, perché per loro non avere le sigarette è una cosa gravissima, un’assenza insopportabile.
Per convincerti a smettere non aiutano le immagini che hanno messo sui pacchetti, ammettiamolo. Se le guardi per trenta secondi e hai un minimo di auto consapevolezza pensi che il buco in gola di una di quelle immagini tu non lo vorresti avere, così come le dita dei piedi scarn…oddio che brutte scene, ok. Però poi pensi ‘a me non accadrà‘ e bon, ne accendi una.
Puoi ridurre le sigarette. Anche questo è un sistema. Però se riduci, prima o poi scatta il momento che le tre quattro al dì, diventano le venti al giorno, quando il giorno di tensione, l’arrabbiatura, oppure un giorno di noia in spiaggia, innesca il pensiero sbagliato.
Ne fumo una cosa vuoi che sia’.
Sia, che dopo due ore te ne sei fumate quattro e tanti saluti ai propositi e riparti da zero come un castello di sabbia crollato dopo un’onda improvvisa.
Ora, puoi non fidarti di me che è la seconda volta che smetto.
La prima, non ho toccato una sigaretta per cinque anni e tre mesi e poi ho ripreso, dimostrandomi saggio e intelligente, ma devi smettere, per smettere.
Non smettere dieci ore e scroccare una sigaretta all’amico, non fumarne due al giorno che tanto ‘cosa vuoi che facciano’ che è una tipica frase di negazione della verità tipo quando uno inizia un discorso mega razzista dicendo ‘io non ce l’ho coi negri‘ ecco, per intenderci, ma:
ti dico un paio di cose.

Notoriamente ci sono sigarette difficili da togliere, per esempio quella che accendi di riflesso dopo un caffè oppure dopo un amplesso o ancora mentre discuti con amici fra un drink e l’altro (quello è un po’ alcoolismo ma ok) ma sono sigarette troppo banali seppur molto sincere (trattando la sigaretta come una compagna, ovviamente).
Il grande scoglio per smettere veramente di fumare sono due tipi di sigarette. Le famose paglie meditative e la subdola sigaretta della paghezza.
Le paglie meditative sono di solito associate a proponimenti o a panorami. Esempio: dietro casa mia ci sono serate che il tramonto è molto bello, con arancioni dai pantoni strani, scie chimiche complottiste che attraversano il cielo, le colline che disegnano un profilo ondulato che si staglia nell’azzurro calante verso la notte…insomma, poesia spicciola e bei tramonti che, come noto, con la sigaretta sono ancora più belli. E ti metti a pensare magari e pensi di stare pensando una cosa bella e quindi fumare in quei momenti è altamente appagante.
La sigaretta della paghezza è forse la più difficile da togliere, perché è molto personale e generalmente solitaria. La accendi alla fine di una riunione che è andata bene, senza nessuno intorno; la aspiri sul balcone mentre tutti i pensieri se li porta via il vento insieme al rivolo di fumo; la schiacci per terra dopo una breve passeggiata dove non hai pensato a niente se non a fumare; ognuno ha il suo momento, in cui fumare è un premio, non è un vizio. Per me per esempio una delle più buone era a notte fonda, tornato da un concerto mi fumavo una sigaretta guastandomela un sacco, le orecchie ancora rimbombanti di musica e urla, i sensi appagati.

E poi, perdi peso. Non sembra ma arriva un momento in cui la mancanza di pacchetto e accendino non è più soltanto un rendersi conto che una parte di te (o la mancanza di una parte di te) è svanita, ma quell’assenza ti fa dimenticare la sua necessità, come quando pensi in continuazione a una ragazza e poi PUFF questa non la pensi più.
Quindi ti trovi senza accendino e senza sigarette. Pochi grammi in meno e tanto spazio in più.
La faccenda che uno ingrassa se non fuma, dipende. All’inizio son dimagrito, dopo ho messo su qualche chilo, ma colpa delle birrette, mica del fumo. Credo, boh.
Oppure, certo,  per aiutarti a smettere puoi pensare alla situazione economica. Cinque euro al giorno in più in saccoccia, con bonus di un eurino al giorno perché se smetti di fumare, smetti anche di bere almeno un caffè. Ok, magari ti fai fuori un pacchetto di cicche o liquirizie al giorno ma alla fine di un mese qualche soldino lo hai risparmiato. Ci sono ovviamente app per calcolare il risparmio economico, ci sono app per tutto.

Il problema è la volontà. E la voglia. Perché ha ragione un mio amico saggio. ‘Un fumatore resta un fumatore‘.
Però viene in soccorso un altro aneddoto, di un altro amico che mi ha raccontato di suo zio che ha smesso vent’anni fa e ogni volta che vede uno accendersi una sigaretta gli viene voglia. Eppure non la accende, ben sapendo il danno di una sola sigaretta.
E’ quello il trucco, quella la temibile soglia. Sembra poi difficile ma non lo è così tanto, cioè basta mettersi lì e pensare ai vantaggi o alla salute o alla…
Sì, una bella rottura di palle, per un fumatore.
Quindi, mi dedico questo flusso di coscienza, non di Pirandelliana memoria, perché son passati 365 giorni e non ho fumato una sigaretta ma so bene di averne ancora voglia. Eccome.
Nonostante ciò, conservo ancora in macchina l’ultimo pacchetto con dentro dieci sigarette che ormai saranno ammuffite oppure le Camel saranno diventate – it’s toasted!’ – Lucky Strike ma anche Don Draper smetteva di fare pubblicità alle sigarette e se Don fosse vissuto oggi forse avrebbe scritto da qualche parte, in un post sotto falso nome, che fumare fa male e come smettere. Non che io sia Don Draper, mi mancano stile, ciuffo, talento e capacità di reggere il bourbon, però questo post vagamente celebrativo intanto l’ho scritto, scaccio la voglia di fumare una sigaretta e spero passino almeno altri cinque anni senza, spero…

Il passeggiatore e la profetessa

Questo post ce l’avevo lì da giorni, in quel punto indefinito fra la gola e lo stomaco dove restano i bocconi amari, le sensazioni a cui non riesci a dare un nome esatto, un magone, per dirla in una parola che non va né su né giù come un pezzo di cuoio strappato da un pallone da calcio.
Il post mi è venuto in mente durante Reggiana -Juve Stabia, ottavo di finale dei playoff per assegnare l’ultima promozione in serie B e dopo Siena-Reggiana il magone mi ha impedito di scriverlo.
L’ho finito ma è rimasto nelle bozze che avevo altro per la testa.
Poi, stamattina, la notizia che Mike Piazza abbandonerà la Reggiana.

Presumibilmente, saranno altri tempi amari, per la beneamata Regia.
Poi magari le cose cambiano.  Però il post lo pubblico perché comunque è stato bello inseguire il sogno della promozione tanto attesa, tanto ambita, ed è stato bello – magari poi le cose cambiano – avere avuto un presidente che a me sembrava ci tenesse ai colori granata.

Grazie. 

Questo è un post su due persone che vanno allo stadio.
Il passeggiatore e la profetessa.
Nel settore distinti c’è un camminamento parallelo alla prima fila, quella rasoterra, quella dove vedi quante rughe ha in faccia il guardalinee, ma non vedi niente di quello che accade a centrocampo che sei troppo schiacciato sul manto verde.
Entra la Reggiana per il riscaldamento ed arriva il passeggiatore. Indossa un paio di pantaloni neri così larghi che ci starebbero entrambe le gambe in una e un maglione sempre nero, in contrasto con i capelli completamente bianchi. Avrà più di sessant’anni ma con grande agilità si piazza sulla balaustra divisoria e da lì inizia ad usare una lunga sciarpa di lana come fosse una bandiera, sventolandola ad un ritmo tutto suo, urlando cose ai giocatori. Resta nella sua posizione a sventolare per quasi tutto il riscaldamento, poi sparisce per un po’ per riapparire verso la fine del primo tempo quando incita i giocatori ad attaccare, agitando la sua sciarbandiera da sinistra verso destra, come ad indicare la via per vincere la partita. Sembra urlare molto forte. Torna al suo posto, anche se non abbiamo capito quale fosse, noi, venti file più in alto.
Gli ospiti segnano e il passeggiatore inizia a passeggiare a un ritmo frenetico, amplificando con la sua falcata nervosa ma possente i sentimenti di paura per l’eliminazione che scorrono nel settore. La sciarbandiera ha cambiato direzione visto che le squadre hanno cambiato campo però indica sempre l’area di rigore avversaria. La via, l’attaccare per raddrizzare la partita. C’è un fallo di un centrocampista ospite, la sciarbandiera cambia direzione si agita verso il campo, come a voler indicare il reo del fallo. Il passeggiatore scende, fa qualche passo accompagnando l’azione, poi torna al suo posto, torna ad indicare la via.
Finché la Reggiana segna. Lì, perdiamo le tracce del passeggiatore ma le ritroviamo subito dopo, quando non smetterà di camminare fino al fischio finale, urlando cose ai giocatori di entrambe le squadre, la sciarbandiera sempre sventolata o brandita.
Al termine del match, partecipiamo al rito delle discussioni post partita alla  solita baracchina vicina allo stadio fra un panino con salsiccia e una bibita. E lì, vedo il passeggiatore che arriva verso di noi.
Ha la stessa falcata, i capelli luminosi e bianchissimi, avrà settant’anni, le rughe che sono solchi di preoccupazione come se la partita non fosse finita ma ci fosse un lungo intervallo dove il pubblico è pregato di uscire dall’impianto. Gli chiedo: “E’ stata dura eh…”.
Lui senza smettere di camminare con le sue ampie falcate si gira appena, rallenta appena e mi fa: “Dovevano attaccare prima” e sparisce, la sciarbandiera stretta forte in mano, arrotolata.

La profetessa si manifesta a metà del secondo tempo, allo stadio di Siena, settore ospiti, dieci giorni dopo. Era già lì nel primo tempo, avevamo scambiato un paio di sorrisi cordiali fra sconosciuti appassionati di una squadra di calcio, ascoltando a vicenda le chiacchiere a tinte fosche dell’intervallo. Perché si perdeva, per colpa di un gol abbastanza regalato dalla nostra difesa non nuova a gentili marcature durante azioni offensive apparentemente inoffensive degli avversari, perché il risultato parziale ci estrometteva dai playoff.
Al ventesimo circa, quando i giocatori del Siena iniziavano le loro scenette coi crampi e perdite di tempo magistrali, la profetessa incrocia il mio sguardo. Io le dico, come dirlo a me stesso: “Ce la facciamo, ce la facciamo”.
E lei, enuncia la sua intuizione. “Segneremo al novantaduesimo”.
Il cielo è limpido però mi sembra di sentire come un lampo in fondo alla Toscana, le rispondo un “Sì!” convinto.
La partita procede e io le ricordo la sua profezia ogni cinque minuti circa, come per rafforzarla, per renderla più vera. Cerco la profetessa con lo sguardo, lei sostiene la mia speranza, la mia necessità di credere all’oracolo che indossa jeans stretti, scarpe bianche e una felpa rosa annodata in vita che si sa mai, anche se la temperatura era perfetta, anzi c’era un vago calore forse dovuto all’agitazione o al battere le mani per sostenere i cori di incitamento.
Arriva il novantesimo, sette minuti di recupero. E ancora: “Ce la facciamo, segna al novantaduesimo”.
La profetessa si sbaglia di pochi minuti, ma non si sbaglia. Il gol arriva, è un pallonetto che coglie puntuale l’errore marchiano del portiere avversario e mentre il nostro attaccante parte di corsa verso la nostra curva io mi lancio verso le transenne di sotto, nell’esaltazione pazza dell’entusiasmo. Mi fermo presto, c’è la bolgia di urla e volti scomposti, risalgo le scale per andare dai miei compari, ma incontro la profetessa, sembra attendermi e prontamente la sommergo in un abbraccio, urlandole nell’orecchio “Segnano al novantaduesimo, al novantaduesimo!”.
Lei ride, non dice niente, mi guarda poi guarda l’amica e abbracciamo anche lei, poi abbraccio i miei amici e insomma ci abbracciamo tutti e la profetessa ride ancora, nel giusto.
Poi un fischio. Il furto. Quando l’arbitro si inventa un rigore. Per incompetenza, protagonismo, altri scenari dove un potere innominabile decide chi vince, cose a cui non voglio dedicare manco una riga altrimenti penserei seriamente di non andare più allo stadio. Questo fischio.
Ma il furto non cambia l’essenza di quell’abbraccio con una sconosciuta.
Al termine, sconfitti, ci salutiamo con una punta di amarezza, sappiamo entrambi che quell’abbraccio resterà una firma in calce a una serata maledetta, a questi playoff. 

Le passeggiate del passeggiatore, la profezia della profetessa.
Due piccole storie fra le tante che si possono raccontare dagli spalti di una stagione maledetta, maledetta come questi playoff che poi, cosa vuoi di più se non una passione che porta ricordi, piccole gioie, facce sconosciute che diventano amiche per novanta minuti più recupero beffardo ed enormi delusioni.
Fino alla prossima stagione.