Stòk, fra ricordi e umarell

32 giocatori. 16 partite. 8 corsie. 4 bocce (per giocatore). 2 giorni. 1 titolo.
Ffffrrrrrr la boccia scorre sul terreno grigio, guidata da un tocco di palmo di mano, calibrata dal mirino incorporato nell’occhio del giocatore. Scivola su minuscoli granelli di ghiaia tritata. Ffffrrrrrr. Stòk. Colpisce delicatamente il pallino, un bacio rumoroso fra corpi solidi. Tocca all’avversario la scelta. Bocciare o l’approccio?
A dodici anni andavo nel parco del centro termale e sgattaiolavo lontano dal controllo degli occhi della nonna o della mamma per passare ore a guardare signori anziani che giocavano a bocce. Mi infilavo in una delle piccole tribunette o sbirciavo da uno scalino posto vicino alla prima pista. Le sponde della stessa erano in legno scuro che puzzava di umido se al mattino presto veniva a piovere. Uomini grandi coi capelli bianchi che mi guardavano come se fossi un alieno capitato per sbaglio nel loro territorio, poi si scambiavano occhiate di approvazione scientifica dopo un tiro perfetto. Allora le bocce erano grosse, parevano di ferro, erano di color bronzo, mi sembravano pesantissime, le palpebre che si stupivano ad ogni bocciata. Stòk. Quello che mi interessava poi, non era imparare. Mi bastava guardare parabole e sentire stòk. Una volta provai a giocare. Magrino e già alto scoprì che quelle bocce non erano così pesanti ma ricordo che erano ruvide come le mani di molti di quei giocatori che al mattino bevevano l’acqua termale e poi si trovavano a passare la giornata intorno alle corsie, fra strategie e chiacchiere assortite che passavano fra espressioni accigliate per trovare un pertugio fra la boccia avversaria e il pallino, sguardi furbi di chi sa di essere in vantaggio e gioca di attesa, misurazioni a spanne, sorrisi sdentati e pacche sulle spalle in mezzo a competitività sommersa.
E i suoni. Stòk, il rumore della boccia quando spazza via un punto; stàack, il colpo secco come un ramo spezzato della boccia che si schianta sul legno in fondo alla pista; fffuppp un soffio invisibile quasi impercepibile dell’aria che si sposta quando viene mancato il punto, come una pallottola che manca il bersaglio; stumpf, la bocciata al volo troppo lunga che atterra pesante sul campo di gioco.
Se non ricordo male, si chiama imprinting. C’è una foto in casa da qualche parte nel pozzo dei ricordi, dove sono seduto nel parco, sto leggendo, aspettando che inizino le partite e quando arrivavo al campo che non c’erano perchè magari era tardi o c’era troppo caldo, mi rattristavo. Negli anni poi, ogni volta che passavo davanti a un campo da bocce mi fermavo. A Cervia durante i tanti anni di frequentazione della riviera,  ci andavo appositamente, ai bagni lungomare di fianco al marciapiede della passeggiata. Appoggiavo la bici, mi sceglievo uno dei mille bagni col campo che spesso non erano nemmeno tenuti bene, magari avevano troppa sabbia e qualche giocatore si lamentava che a bocciare al volo si alzava troppa polvere o la palla si affossava. Sceglievo quello dove c’erano personaggi che parevano esperti e mi guardavo un po’ di sfide a coppie con cappellino e pance al vento oppure coperte da una camiciola sottile.

Sabato mattina per caso scopro che in zona c’è il campionato italiano di bocce. Imperdibile. Vado. E dopo venti minuti scopro che nel paesone al di là del fiume hanno una super bocciofila. Ci sono oltre duecento posti a sedere imballati di umarell e zdaure su poltroncine arancioni da dove commentano in sussurato dialettale i colpi dei giocatori. Questa volta però son professionisti. Vestono pantaloni di tute di ottima fattura e taglio quasi elegante, abbinati a maglie simili a quelle dei ciclisti, tutte colorate e piene di scritte degli sponsor ma con il colletto e il cognome sulle spalle. Le scarpette sono bianche o nere e ricordano le sneaker basse che riempiono le vetrine dei negozi fescion.
E’ il primo turno del torneo. I rumori delle bocce sono stòk, colpi secchi di un ricordo indelebile. Mi metto a bordo della prima pista. E dopo venti minuti mi accorgo che non ho mosso un muscolo, sempre affascinato dalla danza di uomini alla ricerca del lancio giusto, del colpo risolutivo, della strategia vincente. A guardarli tutti muoversi nelle corsie, in movimento simultaneo sulle otto piste, paiono danzatori con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte, partecipanti a un ballo ad inviti. I movimenti lenti e morbidi ad accompagnare il tiro. A volte corricchiano dietro alla boccia appena giocata per darle più spinta con la forza del battere di un piede sul terreno di giuoco.
La sincronia delle gambe e braccia mentre parte la bocciata al punto che è un grumo di energia con la precisione dentro e stòk. La parabola veloce ed arcuata a cercare il “boccio al volo” e stòk. Se va male è tumpf e delusione.
Dopo colpi meritevoli parte qualche applauso. Prima timido che questo è un torneo serio, poi sempre più convinto. Un giocatore fa una rimonta incredibile e trattiene la gioia in un pugno stretto e in uno sguardo orgoglioso all’amico a bordo pista. Nel parterre affollato, tanti umarell in classica posa da anziano con mani leggermente intrecciate dietro la schiena, si confondono con chi viene da fuori, dalle varie zone dell’Italia bocciofila al seguito dei loro campioni. Mi viene spiegato da un 100% umarell con cappellino con visiera e sapienza che questi trentadue giocatori sono gli unici professionisti di questo sport e ‘ch’lè dura fer tot i turnei’.
Ci sono anche tanti ragazzi giovani. Non solo in pedana – l’età media dei giocatori sarà trenta e rotti anni – ma anche ai lati delle corsie. Molti di loro sono praticanti e, forse lo sanno, indossano il fardello, che mi par loro lieve e ben accetto, di una tradizione e di mille storie testimoniate da una bacheca che straborda di trofei e da una parete ricoperta di foto, molte delle quali ingiallite. Probabilmente è un microcosmo con regole e stagioni personalizzate ma abbandono in fretta riflessioni profane da due soldi, è meglio concentrarsi sul giuoco.
Così, passo quattro ore in piedi senza bere nè mangiare, soltanto stòk, una partita dopo l’altra.
Passeggiate pensierose con bocce in mano per verificare la posizione delle stesse, misurazioni e mani alzate che urlano ‘Metro!’, misurazioni col metro, arbitri col pancione, arbitri che segnano il punto con un movimento delle dita come dire ‘vieni qua’, il giocatore che boccia muovendo il braccio con uno scatto verso destra, quell’altro che fa un saltello prima e uno dopo il rilascio, quello attento al look che si controlla sempre come cade la maglietta, quello che impreca sotto voce. E gli spareggi, che provaci te a prendere un boccino che sarà quattro centimetri di diametro a venti metri di distanza. Stòk. Mica facile, vè.
E poi chiacchiere con umarell (non troppe eh, che siam qui per il giuoco), frasi a commento rubate, applausi ai vincitori, strette di mano ai vinti, ragazze che passano col gnocco fritto che siam sempre in Emilia, un tipo con un bicchiere di vinello bianco che girava per le corsie.
E ‘boccio il punto’ e ffffrrrrrr per ventisette metri di pedana e stòk.
E avere dodici anni di stupore, ancora, trent’anni o giù di lì dopo.
(e alla domenica, avevo un pranzo, altrimenti, avrei fatto il bis. Stòk.)

Ps.: poi, ci vorrebbe un bravo sceneggiatore che costruisca una sorta di tributo al grande lebowski con le bocce al posto del bowling, il tutto in salsa italiana e popolare, ma non trash. la foto qui per contribuire a sviluppare l’idea…)

One thought on “Stòk, fra ricordi e umarell

  1. bellissma storia raccontata in modo magistrale. per quanto riguarda l’idea del grande lebowski con le bocce al posto del bowling è una cosa che pensavo da anni 🙂 speriamo che qualche visionario realizzi almeno un documentario.

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