Palco n.25 OR.1/D (S03E02, the Quartet strikes back)

14a255ac5df511e38c200e1bc264082d_7Si arriva quasi in ritardo. Il dicembre, le feste, il lavoro da finire in dicembre per le feste.
Fuori, un bel cielo stellato. Dentro, sul suonare della campanella, esce il Quartetto Hagen, habituè del posto palco.

Il Quartetto ‘resident’
E’ infatti la terza volta che vediamo esibirsi il Quartetto della famiglia Hagen che questa sera completa l’esecuzione dei quartetti di Beethoven (vedi precedenti episodi S02E02 e S02E07)
La sorella ha uno splendido abito lungo nero, i boyz sono anche loro in nero. Il leader con cenni del capo e occhiate d’intesa, guida gli altri.
Thrilling immediato. Un rumore, un CRI-CRI-CRI incessante, tipico di notti di campagna non dell’interno di un teatro, accompagna gli strumenti. Sembra che un grillo si sia svegliato dal suo torpore, forse è rimasto chiuso dentro un condotto d’aria, forse è rimasto nascosto in un palco vuoto, chissà. Fatto è che per tutto il primo movimento questo suono quasi sovrasta le note. Fastidioso, il primo violino muove gli occhi come a sollecitare un intervento, poi si rassegna. Anche un po’ il ridere con la gente che si gira come se potesse individuare il piccolo disturbatore. Dopo poche battute del secondo movimento però, il grillo, rassegnato, la smette. Oppure è partita nel frattempo, come cronache del corridoio riportano nell’intervallo, una caccia delle maschere alla bestiola. Chissà.
Il quartetto suona sempre molto bene. Mi immergo nella musica che a volte ha il potere di spogliarmi di ogni pensiero. Mi rilasso fin troppo, non presto sufficiente attenzione, a volte si arriva a teatro senza aver mangiato niente, con un filo di stanchezza di troppo, capita.
Fortuna c’è l’intervallo che mi resetta.

I film, nella testa
L’ultimo quartetto della ‘serie Hagen‘ è datato 1828, la sua prima esecuzione è postuma, dopo la morte del compositore.
E’ composto da sette movimenti (il terzo e il sesto molto brevi). Si dice che Schubert abbia detto dopo averlo ascoltato “Dopo questo, cosa ci resta da scrivere?”.
Mi entusiasmo leggendo le note, la stanchezza è passata e, come già detto, mentre sono a teatro che ascolto, capita che dal nulla mi sbucano in testa dei micro film, immagini mentali che partono da sole con probabili ma poco importanti riferimenti al mio subconscio o alla mia esperienza di arti visive.
Li ho annotati. Eccoli, accoppiati ai movimenti.

Adagio ma non troppo e molto espressivo
1945, Iowa.
Una donna coi capelli mossi e castani come l’autunno, esce sul portico della propria casa. Indossa un grembiule di cotone grezzo con piccoli disegni di gatti. Aspetta, il marito è al fronte, da qualche parte in Europa. Lei non si è mai mossa dal suo paesino annegato nella campagna. Aspetta, non ha sue notizie da settimane. Aspetta un militare che bussa, una lettera infilata sotto la porta, la fine della guerra, il tramonto come compagno di lunghe serate.

Allegro molto vivace
1984, periferia di Buenos Aires.
Due ragazzini con scarpe di tela senza lacci, corrono fra i detriti di un palazzo in costruzione. Si urlano rincorrendosi, sfiorando panni stesi, calciano bottiglie di plastica in una nuvola di polvere. ‘Quando sarò capo del mondo costruiremo campi da calcio enormi‘. ‘Quando sarò capo del mondo costruirò fabbriche di biscotti enormi‘. Si fermano, stanchi. Si chiedono cosa faranno da grandi. Il militare. No. Il professore. No. Il viaggiatore. Sì! Il calciatore! Sì! Viaggeranno, correranno sempre, vedranno nuovi mondi, nuove persone, si compreranno scarpe di pelle Adidas, calceranno palloni di cuoio, prenderanno gli aerei che vedono ogni tanto passare sulle loro teste, segneranno gol in rovesciata all’ultimo minuto.

Allegro moderato
1885, centro città, Vienna.
Una ragazza si guarda allo specchio. Il fiocco del vestito sulla schiena le sta bene, i boccoli sulle guance la fan sembrare più giovane. Il campanello, la carrozza. Andiamo.

Andante ma non troppo e molto cantabile (sei variazioni)
1885, appena fuori città, Vienna.
Beethoven è morto da poche settimane. Nella villa si tiene un concerto celebrativo. La figlia minore ha invitato un compagno di studi di pianoforte. Lui la aspetta per un’ora nel pianerottolo del palazzo in centro. Le ruba cinque minuti prima dell’arrivo del padre. Le chiede cos’ha studiato, le dice che andranno insieme al conservatorio, si guardano imbarazzati. Lei esce nel prato davanti alla dimora, lo aspetta. Lui arriva a piedi. I capelli troppo pettinati, l’imbarazzo sul viso, le scarpe più belle. Il padre di lei lo accoglie con un sorriso stentato sotto uno sguardo di riprovazione. Parlano poco, durante il concerto si sfiorano le mani, applaudono. Al termine, lei lo saluta con un bacio sulla guancia. Lui va via, i piedi sollevati da terra.

Presto
2029, Southbank, Londra.
La redattrice dell’edizione serale per Google Glasses sta chiudendo il suo pezzo. Guarda l’orologio, è in ritardissimo. Esce col cappotto a metà spalla, entra in metro, vola dentro al caffè dove lo aspetta la madre. Le dice che ha conosciuto un ragazzo. Si sposano. La madre è contraria. La discussione fra un assaggio di sushi e l’altro è concitata ma complice. Arriva il conto, offre la madre. Si abbracciano salutandosi, la metro chiude presto.

Adagio quasi un poco andante
1956, cimitero di Ostia, Italia.
Un signore con cappello nero è fermo davanti a una tomba. Il sole si riflette sul nero del marmo funerario. Lui muove le labbra come se pregasse ma sta raccontando cosa sta succedendo a casa. Va tutto bene.

Allegro
1977, spiaggia di Galway, Irlanda.
Si sente scoppiare il cuore per la lunga camminata. Con sé ha una piccola scatola a forma di stella. La madre ci teneva i suoi biscotti preferiti. L’ultima volta che avevano parlato lui l’aveva rimproverato per un investimento sbagliato. ‘Potevi stare in fabbrica‘. Ricorda di come si lasciati. Un grugnito mentre entrava in casa. La porta che sbatteva. Sembrano settimane, diventano anni di incomprensioni. Poi la corsa in ospedale, i tubi, l’attesa nel corridoio grigio pieno di pensieri grigi come la mattina fuori dalle vetrate. Lentamente entra in acqua, ogni onda un ricordo violento e preciso. Apre la scatola, due sbracciate, polvere nel mare dove lui aveva lavorato per troppi anni.

Ecco. rileggendo, robe basiche, elementari. Potere del quartetto.
Puoi farlo anche tu, la musica è qua.

Curiosando, in platea.
Durante l’intervallo, sbarro gli occhi per l’arrivo fra le file di una signora con incredibile stola anni ottanta delle periferie da bere, con code di poveri animali sacrificati, accompagnata da probabile nipote in abito nero e farfallino, però con ciuffo mechato biondissimo.
Sul fondo della platea una signora con cappello di paillettes, in leggero anticipo natalizio. Appena terminato in concerto, un paio di ragazzetti in jeans scattano dal posto mentre ingaggiano una disquisizione sul vibrato del primo violinista.
Noto l’assenza della coppia di vecchietti, forse impegnati in cene aziendali. Registro la presenza della padrina del teatro, sempre là in alto, protettrice del posto palco.
Premio romance della serata, alla coppia al centro del terzo anello di palchi, che si spara tutto il secondo quartetto in un probabilmente scomodo abbraccio sul sediolo, lei in braccio a lui.

Il programma di serata

La citazione: ‘Lascia che il movente sia nell’azione e non nel risultato. Non essere uno di quelli per cui la spinta all’azione sta nella speranza di una ricompensa’. (LVB)

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H-tale (tic tac)

Il corridoio è di un colore che è tipo crema, ma se questo colore appartenesse a un gusto di gelato ti farebbe passare la voglia di mangiarlo.
Il corridoio però è perfettamente pulito. Le inservienti passano di prima mattina ma anche random nel pomeriggio con ramazza e scopettone, producendo un soffice suono attutito, quasi a non distrubrare.
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Una foto, un piccolo incipit (per un futuro di film)

Appunti mentali e supposizioni per micro storie ispirate da una serie di fotografie, esposte in una mostra molto bella che amanti del cinema e, credo, seppur nella ignoranza totale dell’argomento, della fotografia, non dovrebbero perdersi.
Le foto sono tutte di un giovane fotografo che prima di diventare “quel” Stanley Kubrick filmava frammenti di vita di personaggi famosi e di piccoli mondi, racchiusi in fotografie scattate in un bianco e nero luminoso per una rivista americana, nel periodo che va dal 1945 al 1950. 

Un pugile seduto. E’ bellissimo, un’ aureola scura intorno a lui, un’ombra di solitudine, prima dell’incontro. A pochi metri la folla già eccitata. Ha le spalle basse, muscoli potenti che paiono voler uscire dalla pelle, mani fasciate in bianco, prima di indossare i guantoni.  E lo sguardo che sembra stanco, forse preoccupato, lì seduto da solo, per quello che potrà accadere sul ring dove salirà di lì a poco.

Una bambina con gli occhiali rotondi e un vestitino a righe. Sta assistendo a uno spettacolo diurno del circo. Un’espressione stupita, come avesse assistito a una magia, le mani aperte, ad ammirare forse le acrobazie dei funamboli o le belve che seguono le direttive di un domatore che indossa pantaloni con la piega.

Un attore famoso. E’ sdraiato per terra, di fianco a un letto sfatto, la schiena appoggiata a un tavolino. Sembra una stanza d’albergo. Gli occhi perduti verso il nulla sulla parete opposta, le labbra incollate a una bottiglia di whiskey. Potrebbe essere reduce da una serata troppo lunga o da un risveglio senza qualcuno al fianco. Pare in posa, icona vivente del fascino maledetto del successo.

Una giovane attrice guarda verso di noi. Ha una mano sospesa a mezz’aria, un gesto per scacciare un fastidio. O una posa da consumata teatrante. Forse è indispettita dalla presenza di due uomini ai suoi fianchi. Angeli custodi in tuxedo, tentatori in smoking, uno dei due ha un piatto in una mano e una sigaretta accesa nell’altra, sorride. L’altro lo guarda serio, stupito. Sono a una festa, chissà chi si diverte dei tre.

Una serie di foto che ritraggono jazzisti. Uno in particolare, suona il clarinetto. Non si vedono i suoi occhi, sempre chiusi, concentrati nel seguire le note. Si vedono due vene sulla fronte che si congiungono al centro delle sopracciglia formando una ‘V’ che è un flusso di sangue pulsante di ardore musicale. Un segno di vittoria per quella musica che ritornava, all’epoca, a farsi sentire a New Orleans e nel mondo. Una serie di ritratti che piacerebbero agli autori di ‘Treme‘.

Una galleria di foto che raccontano la giornata di Mickey. Come uno storyboard per un possibile film su un ragazzo che studia e poi va nelle strade di NY. Pulisce le scarpe per dieci centesimi di dollaro, il suo nome scritto con la vernice bianca sopra la scatola di legno col necessario che porta a tracolla. In una foto è con un suo amico, i calzoni portati ben più alti della vita, un berretto con la visiera portata alzata, come i ciclisti di una volta. Si guardano a un chiosco di hot dog, potrebbero complottare qualcosa o scambiarsi racconti sulla giornata quasi terminata, giovani uomini con ancora tanti sogni addosso.

Tre foto in verticale, come piccoli frame. Una coppia a un tavolino guarda davanti a sè per non guardarsi dentro, forse. Figure di uomini sfocate in lontananza. Nella seconda foto, di fianco a loro, come dal nulla, appare un uomo alto e ben vestito nel doppiopetto chiuso sotto al cappotto. Guarda verso di noi, serio, quasi a suggerire cos’ha che non va quella coppia, per poi andare fuori fuoco, allontanandosi nella terza foto, lasciando la coppia nella stessa posa, ferma, quasi immobile. Cos’era quell’uomo, all’improvviso, in una strada con tavolini per godersi una notte in Portogallo? Un fantasma? Una minaccia? Un suggerimento?

Una serie di foto che riprendono con precisione quasi geometrica, come fosse uno studio per un set, giovani studenti di una prestigiosa scuola dove non si insegna soltanto materia scientifica per futuri ingegneri ma anche la disciplina dello sport, il sacrificio del palcoscenico. Siamo in palestra, schermidori schierati in un leggero piegamento come un saluto prima di combattere e poi ragazzi a petto nudo che lottano, altri che li guardano composti, senza tifare. Siamo sopra le assi di legno di un palcoscenico, ragazze con le gambe piegate ad arte, trascinano una biga in una rappresentazione storica e poi un attore coi vestiti di scena, scrutato dal regista, in quella che troppo facilmente è una profezia del futuro del fotografo.

Ce ne sono molte altre. Queste sono quelle che mi han più colpito.
Merita.
‘Fotografia Europea’ a Reggio Emilia (a palazzo Magnani, bello di per sè che se qualcuno va, guardi non solo le foto ma anche i decori delle stanze).

Ps.: c’è anche il trailer