Parole (don’t come easy) ’16

fullsizerender-2Un giorno di tanti anni prima aveva sentito quella frase.
‘Le parole sono importanti’. Le piacque quella frase. Era seduta sul bracciolo di un divano color senape, fumava una sigaretta senza aspirarla perché dopo le faceva male la gola. O almeno così diceva, però le piaceva tenerla fra le dita, farsi guardare dai ragazzi, avere sedici anni e percepire la nascita di piccoli poteri.
Quella frase le era rimasta in testa. La risentì negli anni dell’università quando aspirava qualche spinello. Allora sapeva da dove veniva quella frase e le piacque ancora. Non per il sottobosco simbolico da dove proveniva ma per la verità che vi era contenuta, in cui credeva. Lei, che con le parole ci studiava e poi finì per lavorarci.
Anni dopo aprì un blog e nella testata ci mise un fumetto contenente quella frase, il suo fidanzato di allora l’aveva aiutata con il disegno e la grafica. Da quell’anno è un appuntamento fisso. Prima sul blog, poi su Facebook e infine oggi quando, per non sentirsi troppo ridicola, troppo anziana, scrive sull’agenda.

Scrive le parole del suo anno, quelle che l’hanno definita, delineata e contornata come un personaggio di un fumetto.
Ogni tanto, scrive una parola quando questa la colpisce fra tutte quelle che attraversano la sua giornata. La scrive, le sottolinea, ci fa i bordi, le riempie di puntini come avessero il morbillo, le colora a volte e poi quelle più significative le ricopia tutte insieme in una paginetta, che diventa un grafico di curve scritto con una penna a sfera a simboleggiare il suo anno.
Poi una mattina di dicembre, aspetta la luce giusta di un giorno di sole, una luce tersa avvolta in un freddo pungente, che le fa ricordare attraverso le parole i vari momenti, le chat, gli incontri, le serate da sola, o in compagnia. Entra negli occhielli delle L, passa nelle aperture delle A, si getta nel vuoto delle O, si issa sulle I, si strizza nei riccioli delle R e ripassa il suo anno anche se la prima parola che scrive è la più recente. La scrive e decide con quel modo pomposo con cui si deliberano i proponimenti per l’anno nuovo, per poi magari buttarli nel cestino come una pagina di schizzi venuta male, che quella sarà la sua parola guida per il 2017 che va a iniziare. La scrive credendoci, illuminandola quasi con il tratto di una penna rossa. RISCATTO.
Quella parola era saltata fuori come tante altre durante una delle serate fra SIGNORE – come si definivano, perché lo ammettevano, perché lo erano, come ‘Signore’ era l’appellativo che avevano dato alla loro chat su Whatsapp -, quelle uscite a scadenza non fissa, poche indispensabili ore che tutte loro ritagliavano negli interstizi dei vari impegni. Erano in quattro, a volte cinque. Si sistemavano a tavoli di diversi locali o ristoranti, non ne avevano uno preferito, iniziavano conversazioni e serata con una bottiglia di quello buono, assaporando parole e sorsi per poi venire travolte dalle stesse e la seconda bottiglia aveva il sapore dello stare insieme e veniva solitamente terminata in fretta. Alla terza spesso ci arrivavano, dipendeva dagli altri impegni del giorno dopo mentre i loro visi, i loro corpi si protendevano oltre il tavolo a sottolineare parole complici, qualche segreto e qualche altra parola non detta.
Come INCERTEZZA. Lei non era di certo una persona risoluta anche se sul lavoro quella parola la nascondeva bene, soprattutto in quell’anno dove aveva dovuto cambiare, provare a fare un passo in più, piena di dubbi e di paure. E adesso poteva dirlo che le era andata bene. Molto in quell’anno le era andato bene.

Ricordò l’elenco dell’anno prima dove ACCETTAZIONE spiccava, pietra angolare di quel 2015 pessimo in cui aveva visto crollare piani e sogni. L’accettazione aveva portato a SCELTE dure e dolorose, una doppia d come destino forse, ma le sue scelte le aveva fatte e la più importante l’aveva portata a una scrivania al decimo piano di un palazzo, a guardare nelle pause un altro palazzo nascere di fronte a lei, a spiare finestre che avrebbero ospitato magari altre donne come lei. A volte sentiva il peso di quella altezza. Ricordò che una mattina aveva scritto IMPEGNO, un invito a spronarsi ogni giorno, sapendo di essere sempre sotto osservazione. Le sembrava di avercela fatta o di essere comunque a buon punto.
Forse merito anche dello YOGA come sosteneva una delle sue signore, la più devota alla pratica, anche se quella non era forse la parola giusta, che le aveva messe tutte letteralmente sul tappeto anche se poi tutte non c’erano rimaste, alcune schiacciate dalla fatica dagli orari, dalla quotidianità, una di loro che dichiarava di ritenere semplicemente INACCETTABILE l’impegno fisico che sottraeva energie preziose ad altro.
Scorse l’agenda e trovò RESPIRO, una parola che portava un ricordo chiarissimo di una sera in centro città quando avevano chiuso un locale e uscendo si erano ritrovate sole nella strada ad assaporare l’aria e avevano fatto tutte insieme un respiro solenne, per poi mettersi a ridere all’unisono, per quell’attimo di inattesa ma perfetta sincronia.

C’era anche stato un momento di INCERTEZZA, di TRISTEZZA (forse le parole che finiscono in ‘ezza’ non sono fra le più belle, ma toccava mettere pure quelle, in rima). Un esame, una serie di giornate passate nelle corsie di ospedali, dove ogni messaggio della chat era colmo di delicatezza (no, non tutte  le parole che finiscono in ‘ezza’ sono negative…) di gentilezza (stava esagerando) e speranza.
E poi c’era stato il momento dopo, un periodo durato settimane, iniziato con una delle loro serate dove non la smettevano di toccarsi le mani, le spalle e le braccia nude, come a verificare che stessero tutte bene, come a sentirsi e a riscoprirsi.
Il giorno dopo lei scrisse PELLE, anche perché avevano deciso (ma non tutte poi avrebbero avuto il coraggio) di farsi un tatuaggio nuovo, per ricordare ma anche per celebrare. E poi scrisse POTENTE, che era stata una parola usata come una sottolineatura, un augurio, una necessità, arrivando a diventare la forma con cui si salutavano o commentavano avvenimenti e ogni tanto ancora saltava ancora fuori. L’essere potenti, il desiderarlo.

Terminò l’elenco, lo scorse velocemente, lo rilesse lentamente e poi scrisse sulla chat una frase, pescando ispirazione da quelle parole che messe in fila erano fotogrammi di un anno.
Era una buona idea. Scrisse:
‘La VERITA’, mie care, come sempre. E’ stato un anno INTENSO, con qualche INCERTEZZA, pizzicori di TRISTEZZA, che però con il pensiero LUCIDO e quel certo signorile, alcune direbbero snob, altre direbbero NECESSARIO, DISTACCO che ci dona, abbiamo superato, con ORGOGLIO e…CANE!’
Quella era una battuta che, ovviamente, solo il loro circolo ristretto poteva capire. Il cane era stato il soprannome non certo affettuoso che avevano affibbiato a un uomo che una di loro aveva conosciuto nelle sue peregrinazioni nel mare della singletudine quarantenne, ma era anche stato il regalo speciale per uno dei loro figli.

La lista era finita, scrisse anche un rapido ‘Ps.: la lista delle parole è pronta! Alla prossima riunione, la lettura ufficiale…Gioite, vi AMO!’ e per poco non si mise a ballare la GIGIA, quel ballo da CRETINE che avevano brevettato durante una sera d’estate, mimando e scombinando la scena finale di un film da maschi, all’unica festa a cui avevano partecipato tutte insieme, dov’erano tutte vestite di bianco.

Rilesse i messaggi, si specchiò nel suo riflesso contro quella mattina così luminosa e pensò che sì, era stato un anno BELLO, in fondo, e tenne quell’aggettivo per ultimo, bello, come una corona da mettere sulla lista.