Il nozze del Feudo (Recuperi #4)

Tutte le genti del Feudo attendevano quel venerdi’.

Mentre il mondo tutto intorno continuava nelle inutili attività lavorative, il popolo del Feudo era pronto a festeggiare il matrimonio di uno dei suoi figli più illustri, stimati, potenti.
Dal primo pomeriggio nel piccolo castello del principe Tone, gli arrivi dei paggi e delle damigelle si erano susseguiti senza sosta. I paggi sfoggiavano occhi fieri e portamento eretto, insieme ad occhiali da sole di grande foggia, ultimo tocco di modaiola modernità in fatto di vesti e accessori; le damigelle erano profumate e perfettamente pettinate con riccioli, boccoli, onde sinuose e trucco perfetto. Mentre dalle anfore il vino iniziava a sgorgare voluttuoso e abbondante, si aggiunsero parenti e altri amici del casato feudale e pochi ma nobilissimi rappresentanti provenienti dal vicino capoluogo feudale.
I saluti allo sposo furono abbracci virili e pacche sulle spalle robuste. Facevo caldo ma non troppo. Pure gli dei della pioggia avevano placato la loro ira, fermando, per quel giorno fausto, la pioggia costante degli ultimi giorni.
Fu presto il tempo di avvicinarsi alla chiesa, ove si sarebbe celebrato il rito nuziale. I genitori del principe ebbero qualche difficoltà ad avviare i maschi più ribaldi verso il sagrato, ma infine il piccolo corteo si mosse.
Il carro nuziale precedette la piccola compagnia che a piedi sfilò per un breve tratto nella viuzza centrale del feudo. Le anziane signore facevano capolino dalle finestre delle case, alcune salutavano, alcune si commuovevano, le solite arpie storcevano il naso e maldicevano quel turbamento della quiete. Pochi occhi maligni in un mare di soave fratellanza. Signori di vario rango si spingevano fin sulla strada per assistere al passaggio degli invitati.
Sul sagrato ci fu attesa rispettosa per l’arrivo del crocchio della sposa. Qualche scatto fotografico. In uno veniva immortalata la famiglia del principe. La giovanile madre, il fiero padre, la giovane raggiante sorella. Un unico sorriso carico di gioia li accomunava in quello scatto che verrà appeso a futura memoria nel salotto buono del castello.
Altri invitati erano arrivati, altri tardavano ancora, quando fu il momento della sposa. Accolta con un applauso di sentito ma discreto apprezzamento, lei scese dal piccolo cocchio e fasciata da un morbido vestito di bianca eleganza si avvicinò al suo promesso, tenendo una mano protettiva sul grembo, già prominente, che ospitava il futuro erede del casato.
Il principe Tone scacciò un motto di commozione inappropriata e la baciò sulle guance. Si era pronti.
In chiesa non tutti gli invitati presenziarono alla cerimonia. Alcuni perché troppo invaghiti del dio Bacco e delle sue prelibate uve, di cui il Feudo era fin troppo ben fornito, altri perchè in pessimi rapporti col papato del fuedo e le sue regole.
Il celebrante officiò con compostezza il rito religioso, inframezzato da una burletta organizzata dai testimoni sulla sparizione dell’anello feudale delle nozze, dal dono del celebrante ai novelli sposi, un prezioso libro delle regole sante rilegato di bianca e pura carta benedetta e da timidi applausi al momento del riconoscimento papale del matrimonio e al termine della celebrazione. Sul sagrato vi fu attesa per l’uscita degli sposi, accolti con il classico lancio di chicchi di riso, grida belluine maschili e gridolini di euforia femminile.
Poi, in ordine sparso, la gente del nozze del millennio del principe del feudo, salì sui mezzi e si diresse verso la campagna collinarella dove si sarebbe tenuto lo sfarzoso ricevimento.

Prima di arrivare però, il nutrito gruppo di non più giovani eppure ancora vogliosi di baldoria SEMPRE, si fermò nella piazza del granducato feudale, per un brindisi prolungato. All’invasione di questa gioventù ben agghindata, i paesani mischiarono occhiate di rimprovero per questi nullafacenti ubriaconi che omaggiavano il sempre presente dio Bacco con aperture di bottiglie “a nastro” e sorrisi di simpatica invidia per la combriccola festosa e brindante. Un’ovazione scosse il piccolo locale di ristoro al passaggio del crocchìo degli sposi che rimirarono i loro ospiti che, sprezzanti dei riti dello sposalizio, sarebbero sicuramente arrivati alla festa dopo di loro. Terminati i calici e i brindisi, il gruppo si diresse verso la località designata per i festeggiamenti nuziali, nascosta in mezzo alle colline verdeggianti, le stesse che, in tempi antichi ma non dimenticati, avevano fatto da scenario a grandi battaglie per il controllo del territorio collinare, una volta infestato da predoni e traditori del granducato. Vittorie a cui tutto il feudo aveva contribuito mostrando sempre fedeltà verso i signori del granducato, che avrebbero inviato lettere di felicitazioni e doni, per mezzo dei suoi nobili rappresentanti che avevano avuto la fortuna e l’onore dell’invito al nozze.
I mezzi di trasporto venivano parcheggiati in un piccolo spiazzo verde all’ingresso dello splendido borgo, cortile dei giochi (non solo goliardici) di un antico signore, perfettamente riadattato per banchetti e gozzovigliamenti assortiti.

In fretta l’ampio spiazzo destinato alla stuzzicheria, si riempiva allora degli invitati che iniziavano un giro di assaggerie gastronomiche di alto livello, spiluccando (alcuni rimpinzandosi) di una varietà di cibi sorprendente e variegata, il tutto amorevolmente preparato dalle mani fidate dei cuochi della foresterie, mentre camerieri in livrea correvano fra un capannelo e l’altro di persone per deliziare i gargarozzi di tutti con altri doni del solito dio Bacco, in forma di bollicine perlopiù.
In ampio anticipo, saltando tutto il cerimoniale, erano arrivati il mastro della musica e il suo assistente barbuto, agghindato in vestito grigio con abbaglianti accessori di rosso acceso, pronti, dopo lunga preparazione ed estenuanti prove, a strabiliare gli invitati con tutto il loro strano e futuribile armamentario per allietare la serata e la festa con musiche, allegorie e proiezioni magiche.
Immagini del principe sposo scorrono ora su uno pannello, rimembrando attività ludiche e ancora ludiche dello stesso. Egli, elegante e fascinoso nel completo nero con appopriata camicia bianca e cravatta ricca di intarsi preziosi argentati, si ferma a mirare il suo passato insieme ai fidati compagni di tanti bagordi e avventure, sorridendo a ricordi ed aneddoti che potrebbero riempire un libro se qualche scrivano avesse la voglia di ascoltare e riportare in forma scritta.
Quando del ben di dio servito sui vari tavoli, rimane solo un vago ricordo, si è richiamati all’interno del caseggiato per la cena. Gli invitati, precisi e scrupolosi, seguono le indicazioni del maestro di cerimonie e presto sono tutti sistemati ai posti assegnati a seconda della parentela, del rango, del casato.

La stanza della cena è divisa in tre parti e non tutti si possono vedere. Nella zona centrale stanno gli sposi con i loro consanguinei, nelle altre stanze amici e fidati vassalli. Il pasto è parco ma ricco di gusti, innaffiato da ottimo vino di varie qualità. Presto iniziano cori da ubriachi, brindisi casuali, incitamenti di vario tipo, mentre già le genti iniziano a fare tappe nei vari tavoli, mischiando la perfetta geografia creata a tavolino in una allegra e generosa anarchia festaiola. Gli sposi passano prima solenni a verificare che tutto stia procedendo bene e che gli invitati siano lieti e con i bicchieri pieni. Poi passano meno solenni e più pronti alla chiacchiera e a sollevare calici. Ci sono varie pause durante le quali le genti escono dal caseggiato per fumare tabacco o semplicemente una boccata d’aria fresca per rischiarare la mente. All’improvviso, risuona un inno. E’ “La tot i bar” leggenda in 4/4 che racconta le gesta compiute da un manipolo di uomini in una serata di passione etilica. Leggenda che si tramanda da lunghi tempi e che viene raccontata ancora dal mastro di chitarra e canto libero, accompagnato dai fedeli bardi al suo seguito. In un attimo il tavolo dove il mastro tocca lieve le corde della chitarrina, dando il tempo e la misura all’inno bucolico, è circondato da tantissimi invitati che intonano il ritornello felici, oppure, i pochi ancora vergini dell’esperienza sonora della “Tot i bar”, sorridono e cercano di memorizzare veloci le parole della mitica filastrocca. Dopo l’ultmo arpeggio esplode un boato insieme a un vorticoso applauso corale e una ventata di immensa gioia attraversa il locale.

Poco dopo si è tutti invitati dall’inflessibile maestro di cerimonia a tornare sotto il patio esterno per il taglio della torta nuziale. Pratica che si risolve fra sorrisi e toccatine di gomito degli ospiti mentre gli sposi tagliano il dolce. Il padre dello sposo poi è costretto ad intervenire in aiuto del forse emozionato primogenito che ha qualche dificoltà ad aprire la bottiglia speciale di celebrazione. Sir William si arma della sua spada e con un colpo preciso sciabola via il tappo fra grida di approvazione e muggiti di soddisfazione dei suoi compagni d’arme. Dopodichè è il momento dei doni. Il momento di una preziosa spada di otTONE, raro minerale difficilissimo da modellare, simbolo di forza e potenza, ornato da una epica incisione sopra la lama. Le damigelle veline organizzatrici del momento ludico si vedono strappare il proscenio dai compagni di gara dello sposo nel famoso gioco della palla e dei calcioni. Costoro, alquanto in balìa dei doni naturali del dio Bacco, entrano nella zona dei divertimenti vestiti come durante le loro partite, profondendosi in ebbri cori pro-sposo e donandogli la casacca del capitano “vita natural durante” e provocando una grande commozione nel festeggiato.
Le damigelle veline a fatica si riappropriano del proscenio, mentre gli astanti seguono con curiosità la scena e propongono una gara canora fra maschi e femmine, fra “le balle” (cfr.: gli ubriaconi) e “le belle“. Purtroppo, il mastro della musica e il suo fidato paggio canterino non hanno sotto controllo tutto il loro stupefacente sistema fonico, ma la forza delle voci sovrasta anche questo inconveniente.
Dopodichè, il mastro della musica dà il via alle danze, a cui partecipano molti invitati, mentre altri si dedicano a continui assaggi di liquori di vari sapori. Ormai la notte è fonda, il fresco collinare si sta trasforrnado in lieve sibilo gelido, alcuni rincasano e la sposa si fa in quattro per accompagnare i suoi invitati verso il dono celebrativo, un prezioso nettare acetato imbottigliato per l’occasione dai mastri dell’antico mestiere del “fare l’aceto”. Lentamente, con gli ultimi sorrisi e molti ringraziamenti per la bella festa, la maggior parte degli invitati abbandona, molti infreddoliti, la festa. E’ l’una di notte e la stanchezza, mista alla gioia, ai doni del sempre solito dio Bacco, si fa sentire. Inoltre pare che il borgo dei festeggiamenti debba chiudere e così tutti si saluta i novelli sposi. Tutti si va verso i mezzi, alcuni sorreggono ragazze provate da tanto ballo, alcuni continuano la caccia a quel nettare frizzantino che, ahimè, pare finito, alcuni solo ripensano alle immagini della serata.
Se ci fosse un bardo avrebbe di che scriverne un bel poema.

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